La tematica della Responsabilità nell’innovazione è decisamente trasversale. I contributi che pubblichiamo spesso danno per scontato che il lettore abbia già una infarinatura sul campo dello scibile del quale si parla, e infatti spesso si tratta di approfondimenti.
Eppure in molti casi ci accorgiamo sarebbe utile avere una panoramica sullo “stato delle cose” e un riepilogo dei contributi che sono presenti in questo sito. Per questo Virginia Sanchini sta scrivendo una serie di Panoramiche intorno ai temi della Bioetica.
I test genetici
di Virginia Sanchini
La genetica è quella branca della biologia che studia la generazione degli organismi e la trasmissione dei caratteri ereditari. Numerosi sono i settori nei quali vengono applicate le conoscenze sui meccanismi di trasmissione dell’informazione genetica.
I test genetici rientrano all’interno di quelle applicazioni delle conoscenze genetiche nel campo della ricerca, della prevenzione, della terapia o dell’intervento migliorativo o di potenziamento realizzato su soggetti umani. L’Istituto Superiore di Sanità definisce test genetico “l’analisi a scopo clinico di DNA, RNA, cromosomi, proteine, metaboliti o altri prodotti genici, effettuata per evidenziare genotipi, mutazioni, fenotipi o cariotipi correlati o meno con patologie ereditabili umane“, e precisa che questa definizione include gli screening prenatali, neonatali e dei portatori, nonché i test sulle famiglie a rischio. I risultati di queste indagini si possono applicare alla diagnosi ed alla prognosi di malattie ereditarie, alla predizione del rischio-malattia, all’identificazione dei portatori sani, alle correlazioni fenotipo-genotipo. Vengono invece esclusi da questa definizione i test effettuati a solo scopo di ricerca. Nei test genetici il prelievo e l’analisi dei frammenti di DNA viene cioè effettuato allo scopo di evidenziare la predisposizione allo sviluppo di certe patologie. Attraverso i test genetici risulta infatti possibile stabilire se il paziente ha una probabilità percentuale superiore alla media della popolazione di andare incontro a determinate malattie. É importante distinguere tra quelle malattie genetiche già presenti fin dalla nascita per le quali il test predittivo può essere effettuato solo in epoca prenatale, generalmente per impedire la nascita di individui con genotipo patologico attraverso l’interruzione volontaria di gravidanza, e malattie genetiche a insorgenza tardiva, rispetto alle quali la predizione può essere effettuata sia in epoca prenatale, con le finalità già viste per le malattie genetiche presenti fin dalla nascita, sia in epoca post natale, cioè prima dell’insorgenza dei sintomi peraltro raramente prevenibili allo stato attuale delle conoscenze in un individuo già nato (M. Frontali, A.G. Jacopini, A. Novelletto, La medicina predittiva: esperienze, prassi e principi etici, in Rodotà (a cura di), 1993, pp. 44-56, p. 44).
Anche grazie al Progetto Genoma Umano – ossia l’insieme dei progetti di ricerca finalizzati alla mappatura dell’intero patrimonio genetico umano, attività a carattere dunque prettamente conoscitivo – si sta avendo un notevole sviluppo della medicina predittiva, ossia di quella medicina che tenta di predire lo sviluppo di una patologia prima di qualunque sua manifestazione clinica, e dunque un incremento delle conoscenze che consentirà di ampliare quello che è lo spettro delle malattie che possono essere oggetto di test. Questo dovrebbe permettere di diagnosticare la patologia in tempi estremamente precoci rispetto all’insorgenza della patologia stessa, favorendo inoltre lo sviluppo di cure personalizzate. Proprio per rispondere all’esigenza sempre più crescente da parte dei pazienti di avere cure personalizzate è nato il Personal Genome Project, pensato e ideato da George Church, fondatore della prima banca dati genetici open source (a tal proposito vedi l’articolo “Genomica personale” (marzo 2011) dove vengono riportati alcuni passi delle dichiarazioni dell’intervista rilasciata da Church a Marco Magrini). Tale progetto prevede la messa on line in open source dei dati e ha come scopo quello di far crescere velocemente il numero di informazioni necessarie a sviluppare le tecniche di interpretazione del genoma. Secondo Church l’importanza del sequenziamento del genoma umano, che sta diventando sempre meno costoso e sempre più veloce, è tale perché può portare il paziente a conoscere a cosa il proprio corpo è più esposto a rischio, e, di conseguenza, ha importanti ricadute per la diagnostica e la realizzazione di cure personalizzate. E infatti, come affermato da Andrea Ballabio, direttore dell’Istituto Telethon di Napoli e professore di genetica medica all’Università di Napoli (vedi l’articolo “Se la nanoscienza aumenta si allarga l’area dell’ignoto” – settembre 2007), “il dosaggio e la scelta dei farmaci verranno sempre più indirizzati dal profilo genetico individuale traducendosi in una terapia più efficace e con minori effetti collaterali“.
E tuttavia, proprio perché, come affermato da Victor McKusick, “quando il raggio della conoscenza si allunga, la circonferenza dell’ignoto si espande“, il primo problema che si pone è quello di capire se a grandi capacità diagnostiche corrisponda un altrettanto rapido sviluppo in termini di possibilità terapeutiche. Il primo grande dubbio che, dal punto di vista etico, accompagna la questione dei test genetici, e che sembra poter essere avanzato contro coloro che Gianni Vattimo in un’intervista sui limiti che la ricerca scientifica oggi dovrebbe avere chiama “i fanatici delle verità a tutti i costi” (vedi a tal proposito l’articolo “il progresso scientifico va rallentato?” – agosto 2007), è che l’esecuzione di un test non sempre risulta essere un beneficio per il paziente, e che dunque può essere considerato da lui tale solo qualora vi sia un effettivo vantaggio nell’avere questa informazione. Anche lasciando per un momento da parte il diritto di non sapere che il paziente può invocare contro il dovere assoluto di sapere che la società vorrebbe vedere imposto ai propri cittadini (soprattutto per questioni quali le assicurazioni per la vita o le assunzioni lavorative), si tratta di capire quanto sia effettivamente etica la comunicazione ai propri pazienti di diagnosi infauste nei casi di patologie ad insorgenza tardiva (come ad esempio quella di Huntington), o nei casi di patologie alle quali la medicina non si è dimostrata ancora capace di porre rimedio. Accanto al primo vincolo etico fondamentale, che è quello della volontarietà del test – vincolo che richiede che i test non vengano attuati in assenza di adeguato consenso informato (che dunque esclude dalla possibilità di effettuare il test tutti coloro che il proprio consenso informato non sono in grado di darlo come minori e handicappati mentali), e che si pone come obiezione principe a quegli approcci di matrice utilitarista che si vedrebbero in favore di uno screening generale di tutta la popolazione – si tratta di capire di che tipo sono le informazioni che queste analisi, spesso eseguite con metodi difformi a seconda dell’azienda proponente, sono effettivamente in grado di dare. Come sottolineato al recente convegno “Brains in dialogue on genetic testing”, e riportato da Margherita Fronte nell’articolo “I test genetici: dubbi sulla privacy e potenzialità” (marzo 2010), “sono pochissime le patologie che dipendono esclusivamente da una mutazione genetica. Anzi, le malattie più diffuse, quelle su cui si basa il business, hanno solo una piccola componente genetica e dipendono in gran parte dagli stili di vita e da fattori che la medicina ancora non conosce. I test genetici forniscono quindi stime di rischio (per esempio, un incremento del rischio di ammalarsi del 15 o 20 per cento nel corso della vita), ma non possono dare nessuna risposta certa e, soprattutto, non danno nessuna indicazione su che cosa dovrebbe fare una persona che viene a sapere di avere una predisposizione ad ammalarsi di una malattia letale. Questo accade perché molte delle malattie che i test vanno a verificare, quali il morbo di Alzheimer, non hanno terapie risolutive né interventi di prevenzione efficaci; per altre, come la stragrande maggioranza dei tumori, la strategia migliore per la prevenzione andrebbe invece concordata con un medico che conosca già la persona, le sue abitudini di vita e la sua situazione familiare“. Margherita Fronte conclude sottolineando come, “se anche la malattia in questione potesse essere prevenuta o curata efficacemente, diversi studi hanno dimostrato che i risultati forniti dalle aziende che vendono test genetici sono in realtà grandemente inaffidabili“.
Accanto al vincolo etico della volontarietà del test e del reale beneficio che può essere attribuito alla conoscenza da parte di un paziente del suo possibile vissuto di salute futuro, risiede un secondo vincolo etico: quello della confidenzialità dei risultati. Sotto questo nome risiedono numerose problematiche. Che i risultati dei test debbano rimanere confidenziali significa innanzitutto che questi non possono essere resi noti ad altri che al soggetto stesso. E tuttavia, se il test genetico, rispetto a quello tradizionale, comporta la predizione (si è visto sotto quale rispetto) di patologie future non solo dell’interessato ma anche dei suoi famigliari (vedi a tal proposito l’articolo di Francesca Cerati apparso sul Sole 24 Ore dal titolo “Genetica personale“), una prima violazione della confidenzialità dei risultati potrebbe avvenire a livello del soggetto stesso. Se infatti sottoponendo se stesso al test genetico si verrebbero a scoprire verità che non si limitano più alla propria stessa esistenza, appare perlomeno lecita la domanda che chiede quanto sia etico screenare soggetti non in grado (perché non più o non ancora) di dare il proprio consenso. Un esempio può essere fornito attraverso l’articolo “Go Ask Your Father about DNA“, postato da Jonathan Hankins nel febbraio 2010. L’articolo che altro non è se non la recensione del libro di Lennard J. Davis – Go Ask Your Father: One Man’s Obsessione with Finding His Origins – riporta la storia dello stesso autore e la sua ossessione di trovare le sue origini riguardo ai propri genitori attraverso i test genetici: il problema etico che il libro solleva è esattamente quello in ultimo qui presentato, quanto cioè il soggetto che si sottopone al test abbia il diritto di usare il DNA di qualcuno che non si trova più qui per prestare il proprio consenso informato (in merito allo stesso argomento è presente sul sito della Fondazione Bassetti anche l’articolo inserito da Jonathan Hankins dal titolo “Home DNA Testing for all the Family“).
Accanto a questo livello di confidenzialità, si pone poi la problematica questione, di natura non solo etica ma anche giuridica, della privacy che si traduce nell’imperativo etico di non rendere noti i risultati dei test ad altri che al soggetto stesso perché altrimenti costui verrebbe esposto al rischio di discriminazioni sia in termini di stipula di contratti amministrativi e di assicurazioni sanitarie, sia di possibilità di accedere ai posti di lavoro. Se in tema di confidenzialità dei risultati può essere avanzata l’obiezione secondo la quale ciò che vale per questi ultimi può valere allo stesso modo per i parametri clinici tradizionali – e che quindi così come può essere violata la privacy nel caso dei test genetici, lo stesso può accadere nel caso dei dati riportati sulle cartelle cliniche (questo è quanto affermato da Andrea Ballabio nell’articolo citato sopra “Se la nanoscienza aumenta si allarga l’area dell’ignoto”) – è anche vero che la preoccupazione non è così lontana come si potrebbe credere. Un esempio è fornito dall’articolo apparso sul quotidiano Le Monde di Dorothée Benoit e Jean Claude Kaplan dal titolo “Grandi manovre degli assicuratori, la tentazione dell’apartheid genetico“. Qui, per mostrare come sia già accaduto che i datori di lavoro si servano di questo tipo di diagnosi per conoscere il profilo genetico di un candidato, e, eventualmente, di ‘eliminare’ coloro che risultino ‘inadatti’ a posti a rischio, viene riportato il caso di alcune compagnie americane che “fanno individuare i soggetti colpiti da anemia drepanocitaria tra i neri – la malattia dei globuli rossi colpisce infatti una persona su dodici in questa categoria della popolazione americana – per evitare che in volo si manifestino dolori dovuti ad anossia“. Se in casi come quello riportato l’analisi era stata effettuata a scopo di bene, per la tutela dei lavoratori cioè, ciò che importa a livello giuridico è che “gli interessati siano a conoscenza della ricerca. Il che non è avvenuto per sette lavoratori del laboratorio nazionale di Berkeley, i quali hanno sporto querela contro il loro datore di lavoro per violazione dei diritti civili e del diritto alla privacy, dopo aver scoperto che a loro insaputa erano stati sottoposti a test genetici di individuazione dell’anemia drepanocitaria“. A livello giuridico è cioè possibile sottoporre il paziente ad un test in vista della sua stessa salute (sempre che sia a conoscenza del fatto che sta effettuando un test genetico), ma non è possibile subordinare l’assunzione al compimento di uno screening che riveli la futura storia ipotizzabile del paziente. Rispetto a quest’ultimo punto l’articolo afferma che, ad esempio negli Stati Uniti, “si calcola che il 30% delle assunzioni sia preceduto da ricerche di informazioni genetiche. Le associazioni ebraiche americane si sono mobilitate per mettere in guardia contro le discriminazioni che banche o compagnie assicurative potrebbero essere tentate di attuare dopo l’identificazione nella popolazione ebrea askenazita di parecchie mutazioni predisponenti al cancro al seno. Un sesto degli ebrei dell’Europa dell’Est colpito da cancro sarebbe portatore di queste mutazioni caratteristiche. Ragion per cui l’ascendenza ebrea potrebbe diventare sospetta agli occhi degli stimatori del rischio“.
Ai principi etici della volontarietà a sottoporsi al test e della confidenzialità dei risultati del test si attiene anche la Convenzione sui diritti e la biomedicina che, all’articolo 12 alla voce Test genetici predittivi afferma: «non si potrà procedere a dei test predittivi di malattie genetiche o che permettano sia di identificare il soggetto come portatore di un gene responsabile di una malattia sia di rivelare una predisposizione o una suscettibilità genetica a una malattia se non a fini medici o di ricerca medica, e sotto riserva di una consulenza genetica appropriata».