In un’intervista a La Stampa lo scienziato-imprenditore islandese Kari Stefansson parla del rilancio della sua azienda, la deCODE genetics, dopo la recente bancarotta, e dell’intenzione riprendere il progetto, iniziato 14 anni fa, di individuare i geni responsabili delle malattie più comuni studiandone la diffusione fra la popolazione dell’Islanda. Nell’obiettivo di Stefansson, ora come nel ’96, ci sono malattie quali il diabete di tipo due (di cui la deCODE ha da poco individuato un gene responsabile), il morbo di Alzheimer, l’infarto, l’obesità, l’osteoporosi e la depressione. Sul medio periodo, lo scienziato pensa di rivendere alle aziende che ne facciano richiesta i risultati ottenuti; un business che, all’atto pratico, avrà un duplice esito: da un lato favorirà lo sviluppo della medicina personalizzata, basata su terapie adatte alle caratteristiche genetiche dei singoli pazienti, dall’altro incrementerà il giro d’affari delle aziende che vendono test genetici in grado – a loro dire – di stimare il rischio dei singoli di ammalarsi delle malattie più varie.
Per le sue possibili ricadute e per il modo in cui viene portata avanti, l’impresa pone numerose questioni bioetiche e legali. Riguardo a queste ultime, in occasione della bancarotta, sono per esempio stati avanzati dubbi sulla capacità dell’azienda di mantenere della privacy rispetto ai dati raccolti (ne ha parlato il sito geneforum ). Non ci sono al momento ragioni per pensare che la riservatezza sia stata violata, ma poiché le informazioni sul profilo genetico degli individui possono valere una fortuna, la vicenda lascia intravedere scenari preoccupanti. Le aziende che offrono test genetici, raccogliendo dati sanitari sensibili, sono infatti sempre più numerose; sapranno resistere alla tentazione di vendere quei dati ad assicurazioni o ad altre imprese, specie se dovranno affrontare un momento di crisi? La questione è tanto più pressante se si considera che, essendo presenti su internet, queste imprese operano su scala sovranazionale ¬- un ambito quindi estremamente complesso da regolare e controllare ¬- e possono decidere di collocare la loro sede laddove gli sembrerà più conveniente (sebbene a oggi la maggior parte di queste imprese si trovi negli Usa o in altri Paesi occidentali). Il problema della riservatezza delle informazioni genetiche, inoltre, non è così lontano nel tempo come si potrebbe pensare: la Nib, una compagnia di assicurazioni australiana, sta già offrendo ai suoi clienti la possibilità di farsi analizzare del Dna a metà prezzo, incaricando un’azienda statunitense specializzata nel settore di eseguire i test genetici. La compagnia assicurativa sostiene che questo aiuterà i suoi clienti a mantenersi sani e che i dati resteranno riservati; tuttavia, in base alla legge australiana, chi si sottopone a un test del Dna può essere obbligato a fornire i risultati qualora intendesse stipulare un’assicurazione sulla vita. Ed è la stessa Nib, del resto, ad ammettere che i premi assicurativi potrebbero salire per alcuni, e scendere per altri…
Ma la diffusione di test genetici che ormai chiunque può acquistare anche su internet per poche centinaia di euro pone anche questioni bioetiche e mediche, che nascono dal tipo di informazioni che queste analisi, spesso eseguite con metodi difformi a seconda dell’azienda proponente, sono effettivamente in grado di dare. Come è stato sottolineato anche al recente convegno “Brains in dialogue on genetic testing”, organizzato a Trieste dal team del progetto europeo Bid, coordinato dalla Sissa di Trieste, sono infatti pochissime le patologie che dipendono esclusivamente da una mutazione genetica. Anzi, le malattie più diffuse, quelle su cui si basa il business, hanno solo una piccola componente genetica e dipendono in gran parte dagli stili di vita e da fattori che la medicina ancora non conosce. I test genetici forniscono quindi stime di rischio (per esempio, un incremento del rischio di ammalarsi del 15 o 20 per cento nel corso della vita), ma non possono dare nessuna risposta certa e, soprattutto, non danno nessuna indicazione su che cosa dovrebbe fare una persona che viene a sapere di avere una predisposizione ad ammalarsi di una malattia letale. Questo accade perché molte delle malattie che i test vanno a verificare, quali il morbo di Alzheimer, non hanno terapie risolutive né interventi di prevenzione efficaci; per altre, come la stragrande maggioranza dei tumori, la strategia migliore per la prevenzione andrebbe invece concordata con un medico che conosca già la persona, le sue abitudini di vita e la sua situazione familiare.
A rendere ancora più problematico il quadro c’è poi il fatto che chi si sottopone ai test non lo fa su consiglio del medico e spesso non ha nessun contatto con un genetista né con un professionista in grado di spiegargli che cosa significa il risultato ottenuto. Come reagirà di fronte a un foglio scritto che gli dice che il suo rischio di contrarre una malattia letale è più alto rispetto alla media della popolazione? L’ipotesi più probabile è quella esposta in un recente articolo pubblicato sulla rivista specializzata Science Tranlsational Medicine e scritto da Charis Eng e Richard Sharp, due genetisti dell’Istituto di genomica di Cleveland (Usa): i pazienti si rivolgeranno ai propri medici, chiedendo un aiuto che questi ultimi non sono preparati a dare (anche perché gli esami del Dna sono ancora troppo recenti e molti medici non hanno una formazione adeguata) e caricando il sistema sanitario di lavoro e di costi inutili. Infine, se anche la malattia in questione potesse essere prevenuta o curata efficacemente, diversi studi hanno dimostrato che i risultati forniti dalle aziende che vendono test genetici sono in realtà grandemente inaffidabili. Una ricerca recente ha dimostrato che la “lettura” del Dna non è in grado di prevedere il rischio delle donne di contratte una malattia cardiovascolare (un resoconto dello studio è stato pubblicato da Time). Lo scorso anno, invece, a mettere alla prova queste analisi è stato nientemeno che Craig Venter, lo scienziato a capo di uno dei due team che hanno sequenziato il genoma umano. Venter e i suoi colleghi hanno fatto esaminare il Dna delle stesse cinque persone a due diverse aziende. I risultati che hanno ricevuto riguardavano 13 malattie: per sette di queste i risultati erano diversi.
Nonostante i dubbi degli esperti, il business è in continua crescita, in tutto il mondo e anche in Italia. Secondo una stima della Società italiana di genetica umana, dal 2004 al 2007 i test eseguiti nel nostro Paese (per lo più in strutture private che offrono il servizio ad hoc) sono aumentati del 30 per cento. Per arginare il fenomeno, c’è chi invita le autorità a varare leggi che pongano restrizioni alle compagnie che propongono questi esami. Ma c’è anche chi ritiene di poter volgere al positivo la tendenza: in un articolo pubblicato sulla rivista di medicina Genetics in Medicine i Centers for Disease Control and Prevention di Atlanta sostengono che una collaborazione fra le aziende che propongono i test e le istituzioni possa permettere alle prime di offrire un servizio valido sotto il profilo medico, e alle seconde di acquisire dati per poter colmare le lacune conoscitive che ancora ostacolano la comprensione di come i geni influenzano la nostra salute.
(fotografia: “365 Day 69 Genetic Testing” – di lornagrl in Flickr)