‘Dirò subito che lo usiamo nella stessa accezione in cui lo hanno usato e introdotto autori che conoscete bene come U.Beck o A. Giddens. Da loro voglio riprendere qui solo qualche affermazione che più di altre mi servono. Per es. “Il concetto di rischio è un concetto moderno” (Beck) che presume il pericolo e che sostituisce quello di fortuna. (Giddens). Una società dell’innovazione – e perciò del rischio – sarà perciò costretta a scelte difficili perché tese “a rendere prevedibili e controllabili le conseguenze imprevedibili delle scelte compiute in nome del progresso”. (Beck)’
Il brano citato è stato tratto dalla parte iniziale, in cui si illustra preliminarmente il tema di “rischio sociale”, della lezione “Innovazione, rischio sociale e responsabilità politica”, svolta il 14 maggio scorso alla London School of Economics da Piero Bassetti, Presidente della Fondazione Giannino Bassetti.
Di Ulrich Beck ora Einaudi propone, nella collana le “Vele” con il titolo “Un mondo a rischio” [questo link conduce alla scheda sul sito di Internet Bookshop], il testo del suo discorso alla Duma di Mosca del novembre 2001.
Sandro Modeo, su Il Corriere della Sera del 7 giugno, “E l’uomo creò la ‘società del rischio'”, recensendo questo testo di Beck, scrive:
‘Non c’è dubbio che Beck sia tra i migliori sociologi in circolazione. Forse il migliore. E qui lo dimostra riassumendo lui stesso, con essenzialità limpida, l’originalità del proprio taglio analitico. Prima ripercorre la dorsale delle proprie tesi: l’emergere di una ‘società del rischio’ in cui i tanti break naturali e sociali (i mutamenti climatici e biotecnologici, i crash finanziari, i terrorismi transnazionali) stanno mettendo in crisi idee e assetti consolidati come la fede religiosa, la divisione in classi, le istituzioni politiche e giuridiche’.
Ma se questi sono gli elementi costitutivi della “società del rischio”, Beck sottolinea:
‘la conseguente inadeguatezza di un lessico antiquato e rigido rispetto a categorie nuove e mutevoli: rispetto cioè a una “guerra” sempre più asimmetrica e individualizzata (vedi gli eserciti e i kamikaze); a uno “Stato” sempre più incapace di controllare il prelievo fiscale (coi capitali che bucano i confini fisici con le transazioni off-shore) ; e a un “mercato” che l’ideologia neoliberista deve tutelare con misure (restrizione dei diritti civili) che ne sono la totale negazione’.
Se l’analisi dei problemi è, per Modeo, convincente, non altrettanto è il complesso delle soluzioni proposte:
‘è lecito vedere in lui un eccesso di astrazione teorica, una levigatezza illuministica che tende a nascondere gli spigoli dei fatti. Come si può allestire un “fondamento giuridico internazionale” quando chi dovrebbe dare l’esempio (gli Stati Uniti e Israele) rifiuta, tra gli altri, gli accordi del ’72 sulle armi biologiche e il trattato sul tribunale penale internazionale del ’98? Come si può sperare in una “politica del dialogo” con l’Islam se gli sforzi europei vengono poi sgretolati dall’unilateralismo angloamericano delle guerre preventive? E come si può credere davvero alla cooperazione tra “stati multinazionali e cosmopoliti” quando gli stati stessi sono vincolati a corporations (armi – petrolio – farmaci) che ne condizionano elezioni e politica interna ed estera?’