Piero Bassetti [ * ]
Presidente Fondazione Giannino Bassetti

Innovazione, rischio sociale e responsabilità politica
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Lezione svolta alla London School of Economics
14 maggio 2003


v-mov.gif (1033 byte)Questo documento è un ramo di pagina 10 degli Argomenti

Signore e Signori,

E’ certamente per me un grande onore questa possibilità di rivolgermi a un pubblico così distinto in una sede cosi prestigiosa cui mi sento particolarmente legato per avervi passato quasi un anno come fellow della Stringher, con il caro Prof. Yamey.

London School of Economics: the announcement
Reflecting the interdisciplinary content of the subject, the academic events are cosponsored by the London School of Economics’ ESRC Centre for Analysis of Risk and Regulation (CARR), the Department of Information Systems and the LSE Cities Programme
[Referrer:
right.gif (841 byte)The LSE web site]

Credo anche di sapere il quadro entro il quale è maturato l’invito. E’ il lavoro di riflessione e ricerca che la FGB - che ha per missione statutaria riflettere e fare proposte su "La responsabilità nell’innovazione" ( art. 1 dello Statuto) - ha sviluppato sul tema. Un lavoro che si è svolto tanto sul piano teorico quanto su alcuni casi concreti e con partners significativi come, per esempio, Allianz e la Fondazione C. von Braun sul tema: «changing insurance paradigms and risk management; the implications of september 11»; con la Regione Lombardia sul tema «come conciliare decisioni politicamente difficili come quelle su gli O.G.M e metodo democratico; con Moda italiana sul tema "innovazioni di stile e mutamenti sociali».

Proprio per questo confesso di essere stato incerto tra il cominciare dai casi per indugiare solo alla fine su alcune considerazioni teoriche, o partire da queste per fornire da subito gli strumenti concettuali che sono stati e sono di riferimento per il nostro lavoro: alla fine ho scelto un compromesso: poche considerazioni teoriche all’inizio; due casi; alcune conclusioni.

La tesi centrale: di fronte all’impatto delle innovazioni che accrescono il rischio sociale i nostri sistemi istituzionali, anziché precisare e concentrare le relative responsabilità politiche, le disperdono o le indeboliscono.

Le esperienze fatte in materia in tre casi concreti assai diversi fra loro lo confermerebbero.

Prima di continuare vorrei però definire i termini usati nel titolo:

a) Innovazione

Oggi,a livello di opinione pubblica, si parla moltissimo di Innovazione. Il modo in cui lo si fa non è sempre molto preciso. Si confondono spesso le innovazioni con le scoperte o con le novità; non si riflette troppo sulle differenze concettuali esistenti tra innovazione e cambiamento, non si ha quasi mai un idea chiara su quali siano i rapporti che concretamente esistono tra innovazione, cambiamento, rischio e responsabilità Solo raramente si pongono in modo consapevole i gravi problemi politici che in una società democratica la gestione, o non gestione, dell’innovazione concretamente pongono a tutti noi. La responsabilità politica dell’innovazione è ai giorni nostri un tema quanto mai trascurato. Troppo spesso il problema della autonomia - e perciò della responsabilità - della ricerca viene erroneamente confuso con quello dell’autonomia e della responsabilità dell’innovazione. Mentre in realtà si tratta di problemi molto diversi: ricercare e scoprire non sono la stessa cosa che innovare. Una scoperta diventa innovazione solo quando all’accrescimento di "sapere" che è implicito in ogni scoperta si aggiunge e si combina un’aggiunta di tecnologia e di potere attuativo (capitale) che tale scoperta implementa. E’ solo a questo punto che, come bene argomentano Schumpeter o Nelson, si determina un’aggiunta di potere sociale che è in sé fattore di cambiamento e perciò di rischio sociale.

L’innovazione - quella vera - non è infatti né una scoperta né una novità, ma è l’agente di una nuova situazione, storicamente realizzata come risultante di una nuova combinazione di sapere e potere, di conoscenza e capitale. E’ in sostanza un avvenimento mai verificatosi prima che si realizza per effetto di una "nuova" combinazione di sapere e potere: come tale è sempre cambiamento.

Solo che per essere anche "creatività" (è stato detto: rompe l’ovvietà!) è sempre un cambiamento in qualche modo imprevedibile.

Proprio per questo noi parliamo di innovazione come "realizzazione dell’improbabile". Come qualcosa che è sempre rischio e opportunità, che cambia sempre il mondo che ci circonda ma lo cambia in direzioni intrinsecamente imprevedibili. Un imprevedibile che può essere tale tanto quando si realizza sul piano politico-sociale (nuove istituzioni, nuovi modalità di relazioni, di produzione, di guerra, nuovi poteri) quanto su quello tecnico-economico (nuovi materiali, nuove energie, nuovi strumenti, nuove categorie di beni) quanto ancora su quello estetico culturale (nuovi stili, mode, gusti, atteggiamenti).

Parlare di innovazione non evoca però solo il tema dell’imprevedibilità. Evoca anche il secondo tema del titolo:

b) il rischio sociale

Dirò subito che lo usiamo nella stessa accezione in cui lo hanno usato e introdotto autori che conoscete bene come U.Beck o A. Giddens

Da loro voglio riprendere qui solo qualche affermazione che più di altre mi servono. Per es. «Il concetto di rischio è un concetto moderno» (Beck) che presume il pericolo e che «sostituisce quello di fortuna. (Giddens). Una società dell’innovazione - e perciò del rischio - sarà perciò costretta a scelte difficili perché tese «a rendere prevedibili e controllabili le conseguenze imprevedibili delle scelte compiute in nome del progresso». (Beck)

E siamo al terzo termine:

c) "responsabilità politica"

Il concetto di responsabilità ha almeno due accezioni: una morale e una oggettiva: noi, volendo rimanere fuori dal dibattito etico - oggi pur così di moda - abbiamo deciso di concentrarci prevalentemente sulle responsabilità che riguardano l’innovazione nelle sue implicazioni politiche.

Il che non ci esenta dall’esame delle scelte difficili di cui parla Beck.

Anzi. Ci porta in pieno dentro il problema del chi è responsabile di valutare il rischio sociale nelle scelte di innovazione: lo scienziato che scopre, l’intellettuale che inventa, il tecnologo che strumenta, il capitalista che finanzia, l’imprenditore che combina i fattori, il politico che fa le leggi, quello che governa?

Se è l’imprenditore chi lo condiziona al di là del calcolo di mercato? Se è l’istituzione come svolge questa sua funzione?

Dice giustamente Beck: «in Parlamento non si vota sull’impiego e sullo sviluppo della microelettronica, dell’ingegneria genetica ecc. al massimo si vota sul sostegno a tutto ciò». Nè il potere politico è sempre in grado di assumersi la responsabilità politica di ciò che fanno l’imprenditore o l’impresa se «proprio l’intima connessione tra le decisioni allo sviluppo tecnologico e quelle sugli investimenti costringe le imprese a forgiare i loro progetti in segreto per ragioni di concorrenza. Di conseguenza le decisioni raggiungono i tavoli dei politici e la sfera pubblica solo dopo essere state prese» (ib. p.294).

In altri termini: sono adatti i metodi decisionali delle istituzioni democratiche attuali, basati sulla raccolta del consenso maggioritario, a valutare ex-ante situazioni come le innovazioni, che per definizione postulano cambiamenti affidati a «saperi» e «poteri» sociali «improbabili»? (Latour)

Ma se non lo sono e «la politica si specializza nella legittimazione delle conseguenze che non ha causato, né è stata realmente capace di evitare» chi ne risponde?

In altri termini se, come dice Beck, «il progresso può essere inteso come cambiamento sociale legittimo, senza legittimazione politica [e] la fede nel progresso sostituisce le votazioni» chi risponde dell’innovazione? Chi si fa carico ex-ante delle sue conseguenze? Dei cambiamenti e dei rischi sociali che ne conseguono? Dove sono collocate le relative responsabilità?

Ho voluto chiarire i termini del discorso non per amore della semantica ma solo perché farlo mi sembrava utile per impostare chiaramente la tesi centrale del mio discorso che vorrei qui riprendere: riformulandola così: se l’innovazione è cambiamento, se introduce nuove opportunità ma anche nuovi rischi nella vita sociale, se modifica la storia allora chi la agisce (persona o impresa o assemblea) fa politica e le relative responsabilità non possono essere sottratte al controllo democratico.

In altri termini se l’innovazione è la causa del rischio sociale deve pur esservi qualcuno che ne risponde politicamente a tutti noi (lasciamo volutamente fuori il problema morale).

Mentre spesso così non è.

Ma allora dobbiamo proprio rassegnarci? Possiamo ammettere che, in una società che si definisce democratica, l’innovazione sia politicamente irresponsabile? Che essa possa essere distribuita confusamente tra l’imprenditore (cui la dottrina attribuisce tutt’al più una responsabilità implicita, quella appunto legata alla verifica del mercato) e il mercato, nella sua indeterminatezza e acefalia?

Orbene io sono fra quelli che credono che il modo migliore per dare risposte ai grandi quesiti che concretamente la storia ci pone sia quello di cercarle nella concretezza dell’esperienza.

Per questo quando la FGB ha avuto la possibilità di partecipare ad alcune esperienze nelle quali il problema si poneva lo abbiamo fatto con impegno.

La prima opportunità è stata una diretta conseguenza dell’11/9.

Il soggetto protagonista della riflessione è l’ "Allianz Center for Technology". La FGB fu chiamata a collaborare insieme a Christoph Friedrich von Braun.

II tema era quello di riflettere sullo straordinario evento dell’11/9 il cui effetto sul sistema assicurativo mondiale è stato devastante. e di cui occorreva prepararsi a capire anche le possibili implicazioni future.

Basti dire che il totale dei claims maturati per I fatti dell11/9 si aggira tra i 40 e i 60 miliardi di U.S.§ (fonte Allianz) e che la somma delle obbligazioni a carico dell’Allianz Group è stimata a 1,5 miliardi di U.S.$ al netto della riassicurazione.

Per questo il quesito inizialmente proposto fu: "Can Allianz insure skyscrapers any longer?"

L’esperienza è stata di grandissimo interesse e noi siamo profondamente grati ad Allianz per averci offerto l’occasione di riflettere assieme a persone di profonda preparazione.

Le discussioni che si svolsero a Monaco furono di grande interesse e contribuirono alla pubblicazione da parte dello "Allianz Center for Technology" dell’interessante pamphlet: "New Challenger & Horizons. The implication of September 11. Changing Insurance Paradigms and Risk Management".

Apparve subito chiaro che c’era nel tragico e brutale avvenimento del 11/9:

a) una vera e propria "innovazione" (nello stretto senso di cui ne abbiamo parlato all’inizio). Un innovazione tragica ma pur sempre un’innovazione.

b) che l’evento era stato tale da far riconsiderare l’intero quadro del rischio sociale e degli effetti collaterali connessi al nuovo livello di vulnerabilità di edifici come le due torri e più in generale dagli edifici suscettibili di essere considerati "simboli" (grattacieli in primis ma non solo grattacieli)

c) che il quadro delle responsabilità di un'impresa di assicurazione impegnata su rischi come i grattacieli o, in generale gli edifici simbolo, verso tutti i suoi stake holders era irreversibilmente cambiato. Questo perché l’episodio aveva rivelato che le passività da considerare in casi simili non sono soltanto quelle connesse alla liquidazione dei diversi tipi di danni intercorsi ma anche quelle che derivano dal contestuale abbassamento dei valori di mercato degli assets accantonati a copertura degli stessi. Come dice Cleemann nel pamphlet "New Challenges & Horizons. The implications of September 11: Changing Insurance Paradigms and Risk Management", pubblicato congiuntamente al termine dei nostri lavori: «in termini finanziari le perdite negli investimenti hanno superato di gran lunga le perdite assicurative.»

A valle di queste convergenze il dibattito sul come e chi potesse creare le condizioni per la ricostruzione si rivelò però molto articolato.

Gli uomini di Allianz erano portati a sottolineare soprattutto l’aspetto quantitativo dell’evento. Per essi (si veda l’intervista di Cleemann, ib.) era la "magnitude" il centro del problema. A constatazioni come «Una perdita di queste proporzioni era inconcepibile prima dell’11/9» o a quesiti come «che cosa possiamo cambiare per trattare meglio rischi di queste dimensioni in futuro. Come possiamo continuare a garantirne l’assicurabilità in futuro?» essi tendevano a rispondere con il ricorso a sofisticate strumentazioni tecniche come "early warning systems" così da poter affermare (p.4) «Noi siamo adesso meglio preparati a trattare con correlazioni di rischio come queste… stiamo facendo ogni cosa in nostro potere per far fronte alle nostre responsabilità economiche e sociali a fronte degli accresciuti rischi del terrorismo».

Tanto più che nella loro visione «il cambiamento non era avvenuto quella mattina dell11/9 2001… da almeno alcune decadi un processo graduale era in corso. Un processo che ha implicato molti passi laterali e molte iterazioni. L’11/9 era solo un culmine.» (p.7).

Noi della FGB eravamo invece propensi a considerare quanto accaduto l’11/9 come qualcosa di eccezionale non soltanto nella sua devastante magnitudine quanto piuttosto nella sua natura.

Mentre per loro si trattava di «trovar soluzioni che potessero permetterci di continuare a fornire una copertura assicurativa efficiente» per noi l’attacco del 9/11 era caratterizzato da una netta discontinuità. Era una chiara innovazione che cambiava il quadro delle responsabilità e le spostava da un soggetto di mercato (Allianz) a un soggetto istituzionale (Governo); dall’economia alla politica o a una loro collaborazione.

L’attacco sembrava infatti presentare aspetti di assoluta novità:

a) con riguardo all’antica Istituzione-Guerra. Scatenare una guerra "privata", non dichiarata, sul territorio della Potenza leader del mondo, con obbiettivi come la Casa bianca, il Pentagono, le Torri Gemelle ( che insieme formano il vertice della potenza politica, militare, finanziaria degli USA) ha introdotto un mix unico di guerra e terrorismo nel cuore delle tradizionali istituzioni politiche del mondo.

b) per la tecnologia adottata: la trasformazione di aerei civile dell’avversario in missili a gasolio per distruggere edifici di eccezionale grandezza era un modo innovativo di mischiare aviazione, tecnologia missilistica a massacri.

c) per il modo di usare i media: dare a un audience mondiale la possibilità di vedere in diretta un attacco terroristico era un evento mediatico inedito.

d) per la brutale sostituzione dei normali targets del terrorismo tradizionale con obbiettivi simbolici.

Per questo era innegabilmente un’innovazione, una perversa "realizzazione di un improbabile" - dal contenuto qualitativo e quantitativo paragonabile forse solo alle bombe nucleari di Hiroshima e Nakasaki - dalla quale doveva necessariamente derivare un radicale mutamento di ruoli nei riguardi del rischio sociale connesso all’esistenza dei grattacieli nelle nostre città e a New York in primo luogo

Se gli agenti responsabili dell’attacco innovativo, e della risposta, erano soggetti politici allora la responsabilità per l’eccezionale rischio sociale doveva rimanere politica.

Le più gravi conseguenze dell’attacco alle due torri non ci sembravano riconducibili a effetti collaterali ordinari come quelli che «spaziano fra i negozi al dettaglio negli aeroporti americani ai nostri operatori nei paesi islamici, tutti esposti a cali di entrate». Ci sembravano piuttosto connesse al nuovo e gravissimo rischio sociale di non poter più vivere o lavorare in edifici simbolo come i grattacieli perché divenuti targets di offese assolutamente nuove, legate alla drammatica apparizione di un nuovo tipo di guerra. Non più la guerra che poteva essere definita nei classici termini di «un conflitto armato tra Stati o Paesi per l’ottenimento di propri obbiettivi o per la salvaguardia di propri interessi. Un conflitto che comincia con una dichiarazione di guerra e finisce con una resa, un armistizio o un trattato di pace fra gli Stati coinvolti». Bensì un nuovo tipo di aggressione che poteva aver rivoluzionato l’affermazione che «la guerra non è assicurabile» ma che non rendeva meno presente il problema.

Tra le tre possibili direzioni indicate nel paper (pag.9) e cioè: «rifiutare l’assicurazione, aumentare i premi, cercare una terza via,» solo quest’ultima appariva percorribile. Non limitandosi però a «stabilire condizioni quadro per l’applicazione delle otto raccomandazioni anti-terrorismo statuite dalla Financial Action Task Force (FATF) dell’OECD» ma affrontando in pieno il problema di un contesto politico irreversibilmente innovato, nel quale il tema del rischio grattacieli va posto in modi altrettanto innovativi e distribuendo in modi nuovi le relative responsabilità.

In sostanza il nostro approccio proponeva di affrontare il problema del rischio sociale cui è esposto un grattacielo - o qualsiasi altro edificio con un contenuto simbolico - non più dalla parte del contrasto degli effetti (assicurazione) ma piuttosto dalla parte del controllo delle cause. Per noi la causa era, in questo caso, una macroscopica innovazione, introdotta il 9/11, con una radicale trasformazione delle condizioni di sicurezza o vulnerabilità degli edifici simbolici e con la conseguente necessità di spostare, in tutto o in parte il problema della responsabilità dall’industria assicurativa all’autorità di governo.

Naturalmente in un dibattito di questo genere le considerazioni tecniche alle quali il know how assicurativo tendeva a riportarci, non potevano essere trascurate.

Per esempio nel mercato assicurativo l’abitudine alla divisione fra rischi mercantili e rischi politici è vecchia e radicata. E si basa sull’assunzione che i primi sono assicurabili sul mercato a carico dell’assicurato mentre i secondi - tipici i danni di guerra - sono a carico del potere politico che li trasferisce al contribuente.

Allo stesso modo la consapevolezza che «non c’è viaggio senza assicurazione, non c’è educazione senza assicurazione, non c’è nuova tecnologia, nuova costruzione o qualsiasi altro business, senza assicurazione» non è certo nuova.

Solo che il tema del rapporto tra sicurezza, vulnerabilità, rischio sociale è di solito trattato dagli assicuratori in termini di dialettica tra risk reduction e risk prevention considerati all’interno della tecnica assicurativa. Da cui la tendenza a rispondere a domande come: «appartengono forse le questioni in oggetto al regno della politica e del sociale e non a quelli del rischio, probabilità, premi, risarcimenti? Abbiamo noi un ruolo in questi processi?» (p.8) con risposte ancora tecniche come un efficiente "Early Warning System" oppure - come si fa a pag 29 - proponendo di concentrare l’attenzione sul nesso tecnico esistente tra assicurabilità del rischio e sua calcolabilità?

Anche qui, pur riconoscendo che «in assenza di comportamenti coerenti da parte dei responsabili degli sviluppi tecnologici, economici, politici [che] continuamente influenzano i parametri di rischio, [questi] possono causare rapidi cambiamenti (e nuove opportunità), come sperimentato nel caso del WTC», l’interesse di Allianz appariva nettamente centrato piuttosto sulla considerazione che «le mutevoli dinamiche dei parametri di rischio richiedono nuove forme di definizione del rischio» da ricercarsi piuttosto con decisioni interne al settore (come "early recognition systems" capaci di servire a «360°, concentrabili su questioni specifiche... [e] capaci di anticipare minacce e opportunità») anziché, come noi suggerivamo, «che una Società come Allianz… [dovesse] promuovere un dibattito qualificato ( se pubblico o privato era questione interna) coi principali attori coinvolti, con speciale riferimento alle autorità di governo». E ciò perché «questo sarebbe stato un grande risultato in quanto avrebbe consentito di trattare insieme risk prevention e risk reduction in nuove forme di collaborazione tra sicurezza e assicurazione con ciò ritornando ad altre epoche».

Per quanto riguardava il tema della "Risk reduction", nel cui ambito è noto che le Compagnie di Assicurazione svolgono da sempre il loro ruolo in stretta collaborazione con altri soggetti, era chiaro che il contesto era mutato ancor più radicalmente. Trasformando due edifici commerciali - sia pure indubbiamente eccezionali - in obbiettivi politicamente simbolici l’attacco dell’11/9 aveva rotto il tradizionale confine tra rischi immobiliari considerabili di mercato e edifici simbolici che sono non di meno assicurati come beni commerciali ( un esempio assimilabile per Milano sarebbe "la Scala") rendendoli diversamente vulnerabili.

Si era cioè creata una situazione che non coinvolgeva soltanto quella che gli assicuratori definiscono "risk reduction" ma anche la cosiddetta "risk prevention", e che apriva problematiche sostanzialmente nuove tanto per i ruoli che per le responsabilità.dei diversi attori assicurativi.

Infatti prima dell’11/9, in casi come quello dei due grattacieli, il mondo assicurativo era solito suddividere le relative responsabilità tra più aventi causa tra loro legati. C’erano trade-offs accettati tra I rischi sostenuti dai vari attori: dal momento che c’erano differenti tipi di coperture alle quali essi potevano ricorrere. Il proprietario, il costruttore, l’architetto, il gestore e gli altri utenti, consideravano i rischi coperti dalle relative polizze di assicurazione, il cui costo doveva essere accettabile dal mercato. Le Autorità pubbliche - e le autorità regolatrici in generale - consideravano il rischio come accettabile quando vi era rispetto delle regole; i politici quando vi era il consenso tra le parti interessate; i contribuenti quando sembrava esserci equilibrio tra costi e benefici; il pubblico, in generale, quando c’era un sufficiente grado di accettabilità del valore urbano del grattacielo in questione. Per il rischio economico primario il principale facilitatore era cioè il sistema assicurativo. Per i rischi non economici la convergenza dei maggiori interessi - con il sistema assicurativo coinvolto indirettamente - rappresentava una significativa, addizionale, copertura politica e amministrativa.

Dopo l’attacco, come già commentava il Washington Post fin dall’Ottobre 2001, «le imprese possono trovare la copertura del terrorismo impossibile da comprare perché la vulnerabilità può essere ridotta da opportune predisposizioni di sicurezza e maneggio del rischio ma non dal suo trasferimento; e ciò fa sì che il rischio residuale sia una "quantità politica"».

In sostanza il grado di rischio attribuito ai vari beni assicurati - in questo caso i grattacieli, è divenuto tale da non poter essere trattato con le vecchie regole e le relative responsabilità. Occorre una approfondita riflessione non solo sulle modificazioni intervenute nel quadro della sicurezza e vulnerabilità di grattacieli simili a quelli abbattuti, ma anche su i soggetti che dovevano assumersene il rischio

Nel corso della storia il rischio sociale è sempre stato diviso tra assicuratori e stato. Dalla Lega Anseatica alla Repubblica di Genova, su su fino alla recente decisione del Presidente Bush di farsi carico di una parte del rischio delle Compagnie Aeree, c’è sempre stato un attore pubblico che si è preso la responsabilità di assicurare, a sue spese, livelli accettabili di sicurezza sociale. Il peso dello Stato o dei mercati nell’ambito della sicurezza è sempre stato, storicamente, l’indicatore dell’equilibrio vigente in materia.

Quando però la sicurezza fornita dall’ordine politico diminuisce e aumenta il "power to arm" è fatale che le politiche di rassicurazione poste in atto dal sistema assicurativo debbano cambiare.

L’11/9 è piombato in questo quadro come un vero tifone. L’esigenza che qualcuno si assumesse la responsabilità politica di modificare la precedente distribuzione di ruoli e responsabilità è stata resa improrogabile.

Ma come? Con un sostanziale ritorno allo stato di sicurezza quo ante, sull’assunto che il potere statale possa ripristinare condizioni di sicurezza fisica simili a quelle ritenute esistenti prima dell’evento (per esempio con predisposizioni militari ad hoc)?

O invece sviluppando un nuovo approccio sulla linea delle osservazioni che un esperto come W. Stahlen aveva già fatto, subito dopo l’11/9, e secondo le quali «l’ecologia sociale - per es. fatti come la democrazia e i diritti umani - e l’ecologia culturale, che include le condizioni quadro entro le quali la società funziona, devono essere meglio comprese» perché, come è stato aggiunto da Michel Huber, «i cambiamenti nella frequenza e severità dei rischi naturali hanno ormai sfidato il settore assicurativo a un livello metodologico»?

Nell’interessante dibattito che si sviluppò in quella sede, noi della FGB sottolineavamo la tesi che il rischio connesso all’assicurazione di edifici simbolici, come i grattacieli negli U.S., è diventato una variabile che non può essere risolta soltanto in termini economici ma che deve essere contenuta attraverso azioni pubbliche di "risk prevention". E che, non potendo l’attore responsabile di contenere il rischio assicurativo dei grattacieli, continuare ad essere lo stesso decisore che svolgeva questo compito quando la vulnerabilità era molto minore e le responsabilità relative agli altri soggetti coinvolti poteva essere trasferita entro la copertura assicurativa, una stretta collaborazione tra pubblico e privato fosse indispensabile.

Di contro, Lutz Cleemann e il "Center for Tecnology" dell’Allianz sembravano piuttosto optare per un linea di risposte più interne allo stesso sistema assicurativo.

Per noi questo era il punto centrale: se l’innovazione ha intaccato la razionalità dei comportamenti precedenti con riguardo agli edifici simbolici, nuove regole devono pur essere stabilite. Ma da chi?

Toccava agli assicuratori inventarle decidendo per es. di non assicurare più i grattacieli e così rendendone impossibile la costruzione o ricostruzione? O toccava al Governo intervenire per ripristinare condizioni di rischio accettabili? E se toccava al Governo questi doveva farlo con forme di sovvenzione alle Compagnie (risk reduction) o invece con predisposizioni di meccanismi capaci di ridurre la vulnerabilità (risk prevention)?

Le vicende successive hanno portato acqua a entrambi i mulini: da un lato la Storia si è gia incaricata di mostrarci come il Governo americano abbia scelto di tagliare il nodo delle responsabilità nella gestione dei rimedi all’innovazione terroristica apparsa l’11/9. Due guerre a due stati nazionali mostrano chiaramente che la scelta fatta dal Governo americano nei riguardi dell’innovazione introdotta da Bin Laden è quella di rimuovere la possibilità di una sua ripetizione. Nei nostri termini: di opporre all’innovazione di Bin Laden una contro-innovazione - la guerra preventiva - capace di ripristinare, quantomeno negli U.S., le condizioni di rischio politico precedenti.

Per quanto più direttamente ci riguarda, e cioè la costruibilità dei grattacieli, l’idea sottesa sembra quella che la guerra portata agli Stati base del terrorismo possa azzerare, o quantomeno ridurre il rischio sociale connesso alla vita e al lavoro in edifici simbolo come i grattacieli e ripristinare un livello di rischio assicurativo simile a quello esistente in precedenza, senza mutamenti nelle responsabilità della ricostruzione.

Solo che la gente non sembra del tutto convinta che le due guerre preventive abbiano ristabilito i livelli di sicurezza antecedenti. Le condizioni per un ritorno al mercato non sembrano del tutto mature. Che fare allora?

Nel nostro caso, la situazione è tutt’altro che chiara malgrado il "Terrorism Risk Insurance Act (TRIA) approvato negli USA nel Novembre 2002.

D’altro canto le nuove regole sempre seguono, mai precedono gli eventi improbabili. E in mancanza di regole chi può deve inventarsele. L’abbiamo visto per la guerra preventiva tra ONU e Coalizione, lo vedremo anche per i grattacieli Se i luoghi della responsabilità non sono chiari qualcuno li occupa. Che la relativa responsabilità sia assunta dal Presidente degli S.U o invece dall’O.N.U è, in questa logica, un dilemma quasi tecnico.

Se non fosse purtroppo anche politico!

Tanto da far pensare che non si erano sbagliati di molto gli uomini Allianz nel dedicare la loro attenzione alle modalità, apparentemente tecniche, - ma in realtà intrise di contenuto politico - e agli accorgimenti da adottare per mantenere o costruire una rinnovata capacità delle Compagnie Assicuratrici a razionalizzare e reggere, sia pure nell’ambito di nuovi rapporti coi Governi, le sfide che la società del rischio sta da ogni parte portando ai tradizionali assetti del settore. Sfide che non sono certo limitabili a quelle del terrorismo ma ne vedono anche altre, forse altrettanto gravi come quelle legate ai nuovi rischi ecologici, biotecnologici, ecc..

A conferma c’è il fatto che le trattativa per la ricostruzione di "Ground Zero", sviluppatesi su un impianto strutturale quanto mai ante factum e secondo procedure tradizionali - anche se per ora non è consentito intuire come il problema della assicurabilità, e quindi della costruibilità e utilizzabilità dei nuovi edifici, sia destinato a risolversi - sembrerebbe in panne proprio su questo tema.

Dalle informazioni in mio possesso sembra che dopo l’indizione del ben noto concorso e la sua aggiudicazione, nessun accordo sia per ora stato raggiunto. Da un lato il governo federale, consapevole che il tema sollevato dalla ricostruzione di torri al "Ground Zero" potrebbe rivelarsi connesso con altre situazioni in qualche modo simili in altri Stati del Paese, non sembra intenzionato a prendere impegni corrispondenti a procedure nuove. D’altro canto esso può ben dire che il suo impegno per ridurre la vulnerabilità di edifici simbolo lo sta assolvendo in modo oneroso con le due guerre sostenute per rimuovere i pericoli di terrorismo alla fonte.

Dall’altro le tendenze presenti sul mercato di New York in materia di affitti commerciali non inducono a formulare un quadro prospettico incoraggiante per un investimento immobiliare del tipo di quello postulato dal progetto giudicato vincente nel recente concorso. Tanto meno per una sua rischiosa assicurazione.

E ciò anche nell’ipotesi di formule innovative sperimentali del tipo di quella che l’editorialista del Washington Post già proponeva in data non sospetta, e cioè nell’Ottobre 2001, là dove indicava l’opportunità di «set-up a government-backed terrorism pool into which all insurers would pay, thus spreading the risk of future attacks among the industry and among taxpayers». L’accordo tra autorità statali e cittadine su una tale ipotesi non sembra infatti a tutt’oggi facile da raggiungere.

Stato e City di New York starebbero infatti litigando sul chi fa e paga cosa. In altri termini il problema delle responsabilità politiche, coinvolte e per ora non chiarite, si starebbe già rivelando un macigno sulla via dell’ accordo.

Sapremo solo in futuro in quale modo le Compagnie assicurative come Allianz saranno state messe in condizione di rispondere alla domanda che stava alla base dell’esperienza che vi ho qui raccontato: se cioè potrà "Allianz insure skyscrapers any longer".

E sarà solo allora che sapremo se la ricostruzione di Ground Zero, con le sue promesse di nuove torri potrà realmente diventare realtà.

Saremo così messi in condizione di valutare anche ciò che, ne sono sicuro, interessa molto gli amici del Cities Program che hanno gentilmente concorso a rendere possibile questo nostro incontro: e cioè se nel nostro futuro e in quello delle nostre città gli skylines alla New York, cioè marcati dallo svettare dei grattacieli, continueranno a far parte della cultura e estetica urbane.

Ciò che qui interessava evocare era, per altro, il nesso tra innovazione storica, rischio sociale e suoi effetti collaterali sulle responsabilità politiche coinvolte.

Il quadro che emerge sembra confermare che l’innovazione ha, nel caso in esame, portato parecchia confusione nella distribuzione della responsabilità istituzionali e che una risposta politica a sfide come quella di ricostruire grattacieli non è dietro l’angolo.

Passiamo adesso, con un obbligato sforzo di brevità, al secondo caso, nato nell’ambito di una collaborazione tra FGB e la Regione Lombardia e centrato sul tema "come conciliare decisioni politicamente difficili (O.G.M.) e metodo democratico".

Il tema è quello di come si può gestire in modo responsabile una innovazione ad alto rischio sociale ma anche ad alto contenuto tecnico-scientifico. L’innovazione in questione è l’introduzione degli OGM e in particolare di una semente di riso geneticamente modificata per ottenere una variante resistente ai principali diserbanti.

Il rischio sociale è, nel caso specifico, rappresentato dall’eventualità che la resistenza ai diserbanti si trasmetta anche ad altre varianti non pregiate - come tali abitualmente eliminate appunto con diserbanti - turbando l’economia di una vasta area agricola.

La questione politica è: come si può gestire responsabilmente e democraticamente un'innovazione ad alto rischio sociale ed alto contenuto tecnico e scientifico.

L’innovazione questa volta sembra venire dal mercato, anche se origina dall’apparato tecnico scientifico di una grande multinazionale come la Monsanto, con tutto il suo potere lobbistico.

La sfida a gestire correttamente la responsabilità politica è rivolta alla Regione Lombardia chiamata a autorizzare o vietare l’innovazione in questione.

Il vincolo politico è in ogni caso quello di rispettare le prassi di un ente democratico, Trattandosi di un soggetto che agisce secondo normali procedure democratiche il problema è quello di riuscire a formare una maggioranza assembleare su una decisione tecnicamente e politicamente consapevole, di fronte a un rischio sociale grosso cui si contrappongono opportunità economico-produttive cospicue la cui valutazione prospettica si rivela difficile e incerta. E di farlo all’interno di pressioni rilevanti provenienti dai cospicui interessi coinvolti.

La commissione Europea ha, in materia, emanato un'apposita Direttiva: la N. 2001/ 17/ CE. nella quale, sul tema specifico degli OGM. raccomanda alle autorità politiche competenti - nel nostro caso la Regione - di mettere a punto modalità di comportamento politico amministrativo tali da evitare che, per mera incapacità di gestione del processo di formazione del consenso, la scelta adottata possa rivelarsi disinformata, avventata, demagogica oppure lobbistica.

Una eventualità, questa, che quando si verifica viene quasi sempre attribuita all’inadeguatezza critica dell’opinione pubblica resa luddista dalla pressione dei Verdi o alla complicità dei mass-media per la loro semina di disinformazione.

Due ricerche che la FGB ha realizzato su questo argomento, con la collaborazione dell’Università di Padova e in collegamento anche con l’"Università di Tokio" e della "State University of New Jersey" hanno dimostrato che la disinformazione e l’inadeguatezza ci sono; ma che non possono essere considerate le uniche responsabili di tutto il problema.

Non basta comunicare di più e meglio il rischio per renderlo accettabile.

Bisogna rendersi conto che il problema della percezione del rischio da innovazione è una questione complessa, che si inserisce in un substrato culturale profondo, si pensi - nel nostro caso - a ciò che il cibo rappresenta in termini simbolici e di tradizione in un paese come l’Italia.

E che il problema di come conciliare le sfide della conoscenza esperta e dell’innovazione con la democrazia e le sue procedure resta fondamentalmente politico.

Nel caso in oggetto diventa: come mettere a punto in Lombardia una procedura politica che, rispettando la sostanza del normale metodo democratico, eviti, però, che da un uso sommario dello stesso possa derivare una decisione sbagliata.

La questione che subito si pone è: a chi dovrà la Regione Lombardia affidare la responsabilità di decidere? Se la risposta è: al Consiglio regionale, a chi e come toccherà di istruirla in modo da ridurre al massimo ogni carenza di sapere? O non sarà invece meglio, per il Consiglio, delegarla a chi si ritiene più cognito della problematica scientifico-tecnica sottesa - i tecnici - ma ha scarso titolo per interpretarne le conseguenze politico sociali del rischio? o invece a chi, pur non essendo in condizione di valutare i temi tecnici, è molto meglio in grado di interpretare il volere sociale della comunità politica interessata?

Noi stiamo lavorando, partendo dal caso concreto, sulle procedure democratiche da proporre agli organi politici per conciliare innovazione, rischio, incertezza, imprevedibilità, con l’idea di decidere a maggioranza. E’ questo infatti ciò che sembra stare a cuore all’U.E.: che la democrazia europea, di fronte all’innovazione, possa superare l’impasse tra il rischio di un’arretratezza neo-luddista e quello di un’oligarchia tecnocratica

Non è che a tutt’oggi possiamo dire di aver raggiunto risultati particolarmente soddisfacenti.

Una raccolta accurata di informazione ci ha però mostrato:

a) che l’interessante dibattito teorico cui hanno dato un contributo fondamentale studiosi come Beck, Latour, ecc. comincia a generare interessanti innovazioni nella concreta prassi politico-amministrativa. L’idea di delegare solo a scienziati, quasi si trattasse di chierici depositari di un sapere ieratico, decisioni politiche pur tecnicamente difficili, persuade sempre meno;

b) che alcuni paesi di provata tradizione democratica - come i Paesi scandinavi, la G.B. gli U.S.A. - stanno sperimentando innovativi incroci del metodo democratico tradizionale, basato su decisioni prese a maggioranza nelle normali assemblee rappresentative, con procedure e metodi particolari. Stanno infatti nascendo procedure nuove come le "Consensus conferences" o altri marchingegni procedurali che hanno più similarità col Processo o con le procedure arbitrali che non con quelle dei tradizionali Parlamenti.

In fondo la Giustizia - e quella democratica in particolare - è da sempre alle prese con decisioni ad alto rischio sociale da prendersi spesso in condizioni di scarsa o parziale conoscenza dei fatti ma da conformare comunque allo spirito della democrazia!

Ma accanto a questo filone, che abbiamo chiamato "giurisdizionale", nel quale il paradigma è quello del "processo" e l’espediente metodologico di base la "proceduralizzazione", la nostra riflessione ci ha portato all’altro, ben noto, riconducibile all’idea di "agenzia"; quando cioè l’organo democratico, a competenza generale, tende a trasferire la responsabilità politica sull’innovazione e i rischi sociali connessi, non più a una "procedura" quanto piuttosto a una "delega". Una delega che non assomiglia a quella tecnocratica basata sull’affidamento delle decisioni all’expertise di persone sapienti ma è invece incardinata su strutture complesse, autonome, nelle quali il momento tecnico e il momento politico sono opportunamente composti nelle relative costituzioni istitutive, la cui definizione riporta all’organo di rappresentanza generale

Acquisite queste informazioni stiamo adesso preparandoci a suggerire alla Regione Lombardia, che come abbiamo detto si trova di fronte a una scelta che resta politica ma che deve sostanziarsi in un metodo, alcune innovative procedure suscettibili di facilitarne il difficile compito politico.

Il risultato, significativo dal nostro punto di vista, dovrebbe essere che un’innovazione ad alto rischio sociale - gli OGM - verrebbe decisa sostituendo alla rozza regola delle votazioni prese in aula sotto la pressione diretta di suggestioni contradditorie, quella, un po’ più raffinata, di un procedimento accuratamente proceduralizzato ex ante. Un modo nuovo nel quale, come dice Beck, la fede nel progresso non sostituisca le votazioni; ma neanche queste ostacolino il progresso.

Vedremo, in ogni caso, come il tutto avrà funzionato a esperienza conclusa.

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Avevo anticipato che da questi due casi avrei cercato di trarre qualche breve considerazione relativa alla nostra tesi iniziale. Lo faccio rapidamente

Prima osservazione: abbiamo visto che quando appare un’innovazione il soggetto politico chiamato ad assumersi la responsabilità di introdurla, o di adattare il sistema al suo prevedibile impatto, contenendo il rischio connesso, può avere natura istituzionale diversa. Può essere un soggetto politico personalizzato come il Presidente degliU.S.: può essere un soggetto privato come Allianz chiamato, per la rilevanza delle sue scelte, ad assolvere una funzione politica sia pure indiretta; può essere un’assemblea elettiva come nel caso del Consiglio Regionale Lombardo, costretta però dalla complessità della materia a procedure vincolanti; può essere infine un potere diffuso come quello che sul mercato è distribuito fra la moltitudine dei consumatori.

Tutti sono comunque chiamati a esercitare una responsabilità politica.

Solo che la natura di tali responsabilità si rivela solo nel primo caso di facile attribuzione. Già nel secondo e nel terzo essa comincia a sfumarsi. Nel quarto - quando cioè l’innovazione è tale da dover essere provata cioè validata dall’impersonalità del mercato - la dispersione dei soggetti renderà l’imputazione di una "responsabilità" praticamente impossibile. In questo caso l’istituzione mercato funziona come un meccanismo deresponsabilizzante.

Seconda osservazione: è opinione condivisa che quanto più alto è il rischio sociale tanto più forte dovrebbe esserne il controllo democratico.

In realtà noi assistiamo a un processo che va nella direzione opposta. Sempre più rilevanti sono i casi nei quali le innovazioni introdotte direttamente sul mercato hanno rischio sociale altissimo mentre gli strumenti istituzionali chiamati a contrastarlo appaiono disarticolati. Il terrorismo è un caso paradigmatico ma la bioingegneria si appresta a fornirne di altrettanto evidenti. Sembra che le nanotecnologie siano destinate a farlo in modo anche maggiore.

Mentre crescono la capacità e i fronti dell’attacco innovativo e aumenta il rischio sociale, l’organizzazione dei poteri e delle responsabilità politiche chiamate a farvi fronte in modo democratico sembra indebolirsi o disperdersi

Terza osservazione: la responsabilità è un concetto etico complesso che varia a seconda che sia di soggetti portatori di potere personalizzabile o invece di soggetti portatori di un potere disperso, come appunto avviene per i consumatori sul mercato.

Nella tradizione umanistica della nostra cultura europea essa appare chiara solo quando è personale. Nella tradizione democratica essa appare legittimata solo quando è espressione di una maggioranza. Nella concezione del mercato solo quando è profit making.

Di fronte alla sfida di responsabilizzare l’innovazione ognuno di questi assunti appare in crisi: quando più un’innovazione emerge da presupposti conoscitivi complessi tanto meno il criterio maggioritario sembra capace di funzionare. Di contro tanto più rilevante è il rischio sociale - e i suoi effetti collaterali - tanto meno i poteri tecnocratici o imprenditoriali appaiono adatti a assumere responsabilità che li trascendono.

In latino rischio si dice periculum. E pericula sono anche la prova, gli esami. Il mercato è il solo che può provare, Ma può farlo solo ex-post avvalendosi della logica del vostro famoso proverbio sul modo di assaggiare il budino.

Il soggetto politico democratico dovrebbe invece sapere ex-ante qual è il rischio dell’innovazione. Non sempre può farlo: perciò è tentato di deresponsabilizzarsi.

Non potendo chiedere la risposta alle sole votazioni e non sapendo chiederla ad adatte procedure è ben lieto di assegnarle alla irresponsabilità dei tecnici o del mercato. Un’irresponsabilità che sarebbe un errore considerare negativa: non dimentichiamo che non c’è responsabilità se non c’è consapevolezza e libertà: quante volte la responsabilità di "distruzioni creative" rivelatesi benemerite è stata presa dal solo tecnico o dal solo mercato! Basta pensare a tutte le innovazioni a basso contenuto tecnico-scientifico ma ad alto impatto su comportamenti culturali, nelle quali un creativo impegno imprenditoriale ha ottenuto dal solo mercato l’avvallo decisivo per il mutamento di comportamenti a forte impatto sociale. Penso ad esempio - e lo cito perché in Inghilterra e perchè richiamato dalla celebrazione che in questi giorni si fa del suo quarantennio - alla minigonna il trionfo della quale e il mutamento di costume conseguito non sono stati certo decisi da qualche organo politico, né dalla stessa Mary Quant, bensì dai milioni di donne che hanno deciso di portarla, assumendosi però la responsabilità delle loro scelte singole, non certo di quelle generali di costume che così generavano!

In casi come questo il tema dei rapporti tra responsabilità politica nell’innovazione, rischio sociale e ruolo deresponsabilizzante del mercato sembra infatti creare difficoltà concettuali importanti tanto al pensiero economico quanto a quello politico. D’altro canto le tendenze in atto nella nostra organizzazione culturale, economica e istituzionale, vanno proprio nella direzione di un forte aumento nel numero e nell’impatto delle innovazioni, e di una forte dispersione dei soggetti chiamati a valutarli.

Forse viene proprio di qui, dalla sua oggettiva deresponsabilizzazione, la lamentata crisi della politica!

Gentili e pazienti ascoltatori,

Spero a questo punto di essere riuscito a spiegare il senso del titolo.

Viviamo in un epoca di innovazione, ogni innovazione crea rischio sociale; per realizzarsi deve combinare sapere e potere; l’uso del potere democratico esige sempre assunzione di responsabilità; questa decresce al crescere della dispersione dei decisori.

Forse sarebbe meglio che così non fosse. Ma cosi è. Né i rimedi sembrano facili.

La FGB lavora per cercarne, in omaggio e ricordo del suo Fondatore.

L’ausilio di realtà culturali prestigiose come la vostra è ciò che qui sono venuto a cercare.

Grazie!

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