Nel 2002 in questo sito abbiamo dedicato ampio spazio alla tematica del "Post Human":
«Il futuro ci riserva una post-umanità.
L’anelito dell’uomo a superare quella che ha da sempre percepito come una propria incompletezza è tipico delle più profonde e fertili autorappresentazioni che egli ha della propria esistenza. "Post human" è una riflessione sulle trasformazioni a cui questo modello di esistenza va incontro.»
Nella Rassegna stampa di quel periodo, intitolata "Post Human" ho fatto riferimento ad alcuni articoli che recensivano il libro di Roberto Marchesini "Post-human. Verso nuove forme di esistenza", il cui oggetto è l’ibridazione fra uomo e tecnologia.
Mi pare giusto quindi proporre la lettura di un’ulteriore recensione, a cura di Claudio Tugnoli, decisamente molto argomentata e completa: "Il postumanesimo di Roberto Marchesini" [documento in formato PDF, nel sito dell’IPRASE del Trentino].
Questo non tanto, e non solo, per fornire un elemento di informazione aggiuntivo, ma perché Tugnoli nel leggere il testo di Marchesini illustra una prospettiva nuova del rapporto fra uomo e tecnica. Se infatti nella recensione precedente avevamo colto l’ibridazione quasi come un fatto "fisico" Tugnoli mette in luce anche l’ibridazione culturale.
«L’ultimo libro di Roberto Marchesini – Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza, Boringhieri, Torino 2002, pp. 577 – un volume che, per l’ampia articolazione, la molteplicità dei riferimenti e la densità concettuale non mancherà di suscitare l’attenzione del mondo accademico e scientifico, ricostruisce il dibattito sui rapporti tra uomo, tecnica e mondo del vivente dal punto di vista del Postumanesimo. La lettura di questo libro è salutare e benefica perché di fatto smantella tutti i pregiudizi tecnofobici di cui si è nutrito gran parte dell’umanesimo antiscientifico. Del resto le contraddizioni dell’umanesimo erano evidenti molto prima che il postumanesimo le denunciasse con impietoso acume. La demolizione del mito della purezza – il corollario immediato della tesi separatista, per cui uomo e natura, così come uomo e tecnica sono separati da un abisso incolmabile – è quanto di più convincente si trovi nel libro. I rapporti di mutua ibridazione che sono sempre intercorsi tra le tre sfere considerate sono sempre stati ignorati, in difesa dello statuto ontologico particolare dell’uomo. Marchesini invita a considerare il fatto che tutte le teorie antropologiche elaborate all’interno della tradizione occidentale sono riconducibili al paradigma dell’incompletezza, all’idea che l’uomo sia un essere imperfetto il quale si perfeziona e si completa attraverso la cultura. Questa concezione del rapporto tra natura e cultura è già presente nel mito di Prometeo illustrato da Esiodo nelle Opere e i giorni, così come nel Protagora di Platone. Marchesini intende dimostrare invece che il paradigma dell’incompletezza è un mito che ostacola la comprensione della natura umana e dei suoi rapporti con la cultura […]
[…] Marchesini interpreta il processo culturale come "evento ibridativo", in cui l’organismo umano si esternalizza passando a un livello di maggiore dipendenza da un partner esterno (un martello, una teoria, l’olfatto del cane). L’aspetto interessante è dato dal fatto che spesso le ibridazioni danno origine a una funzione del tutto nuova e inattesa, a bisogni insospettati. La tecnologia retroagisce sul sostrato biologico in modo che, si può dire, ogni acquisizione culturale si può considerare una biotecnologia […]
[…] Lo sviluppo vertiginoso della tecnologia determina l’imperfezione ontologica, non pone rimedio a un’incompletezza naturale e anteriore alla cultura. Il superamento del concetto essenzialistico di purezza comporta il rigetto del concetto di hybris. Infatti, se l’idea di purezza si rivela un concetto privo di oggetto e di valore, muta completamente la valutazione dell’hybris da pericolo e peccato a "motore di coniugazione dell’uomo con il mondo" (p. 203). […]
[…] "La tendenza a riprogettare il corpo è pertanto riconducibile a quell’apertura del sistema che sembra caratterizzare la nostra specie, associabile peraltro ad altre tendenze ibridative: per esempio il desiderio di intraprendere avventure nelle dimensioni incognite, la capacità di mettere in discussione il proprio registro percettivo e interpretativo, l’adozione di strategie comportamentali di altre specie" (p. 233) […]
[…] L’orrore umanistico suscitato dal progetto di un uomo completamente artificiale si giustifica solo come conseguenza della persuasione che esista una differenza oggettiva tra naturale e artificiale […]
[…] La comprensione dei meccanismi di riprogrammazione delle cellule staminali potrebbe rivelarsi una rivoluzione superiore a quella della scoperta degli antibiotici: "dalla cura di particolari patologie degenerative al ripristino di interi tessuti, dalla possibilità di controllare e indirizzare la terapia genica nei soggetti che presentano patologie ereditarie alla libertà di utilizzare terapie risolutive nella cura dei tumori (chemio e radioterapiche) emendando la perdita di alcuni tessuti con la rigenerazione promossa proprio dalle cellule staminali" (p. 434). Gli studi sulle nanotecnologie promettono scenari impressionanti sulla strada della creazione di sistemi ibridi.
Il nostro corpo sembra destinato a diventare un ecosistema abitato dall’alterità tecnologica (p. 443) […]»
L’ibridazione uomo-tecnica, come potenziamento delle attitudini individuali, nasce anche da una necessità insita nell’animale uomo di superare i limiti che la storia naturale gli ha assegnato. Se nell’umanesimo classico il superamento della morte era legato alla conservazione della memoria di sé, la tecnica promette la conservazione di sé.
«La tecnica si svela allora come promessa di onnipotenza, delirio onirico, di oltrepassamento di ogni confine, come trasgressione di un nomos pensato come norma inviolabile. Se la morte è un fenomeno naturale e irreversibile, la civiltà si può interpretare come l’espressione di uno sforzo delirante che ha lo scopo di smentire l’esistenza di un limite cronologico naturale.»
«Ma» –prosegue Tugnoli leggendo Marchesini– «il desiderio di divenire immortali ha come condizione la coscienza della mortalità. Marchesini riporta l’osservazione di Stephen J. Gould secondo il quale la coscienza della mortalità è la conseguenza negativa della maggiore complessità neurale della specie umana, che ha impedito all’uomo di rimanere nello stato di beata ignoranza che caratterizza la vita degli altri organismi (p.481). La conoscenza che l’uomo ha della propria finitudine biologica è gravida di conseguenze; la perdita della vita è interpretata come l’evento conclusivo di un depotenziamento progressivo al quale ciascuno si sforza di porre rimedio con l’ausilio della tecnoscienza. L’intensificazione delle pratiche di rallentamento e, se possibile, di arresto dei processi degenerativi dell’invecchiamento rallenta il decorso temporale e conferisce in fondo un valore assoluto al presente del soggetto. […]
[…] Ma la morte è davvero un incidente di percorso, una disfunzione alla quale si può porre rimedio? Jean- Claude Ameisen sostiene invece che la morte non è un accidente evolutivo, bensì il motore del processo filogenetico: è la morte cellulare che interviene continuamente nell’ontogenesi, dallo sviluppo embrionale fino al decesso. La morte è dunque programmata per consentire lo stesso sviluppo embriogenetico e realizzare l’identità genetico-ambientale dell’individuo. La morte agisce selettivamente, in ogni tappa della nostra esistenza […]
[…] Più selettivi siamo, maggiore è il numero di possibilità che lasciamo estinguere e maggiore sarà la nostra identità peculiare. L’immortalità è dunque un controsenso, perché vivere è morire: «La morte entra nel proscenio della nostra vita fin dai primi istanti e contribuisce come uno scultore a estrarre dall’informe, cioè dal mare delle possibilità, quel profilo che ci è così caro» (p. 486) […]
[…] La morte concepita come oltraggio è dunque al contrario quanto di più necessario e coessenziale alla vita. Il giovanilismo e la ricerca dell’elisir di lunga vita sono espressioni del desiderio di allontanare la morte, ma nel frattempo il nostro organismo, come quello di tutti i viventi pluricellulari, è coinvolto nel processo inesorabile di estinzione selettiva parziale che culmina nell’estinzione totale. L’imperativo di rimanere giovani ed efficienti può produrre effetti positivi nel campo della prevenzione di alcune malattie, ma diventa insensato se costringe ad adottare misure e pratiche con l’obiettivo esplicito di sfidare la finitudine o di spostare indefinitamente il limite cronologico di durata della propria vita.
Del resto, il rifiuto della morte spiega scelte decisamente discutibili come quella della crioconservazione, in attesa di sviluppi della scienza che permettano di restituire la vita al cadavere congelato. Marchesini riporta in dettaglio le diverse e sofisticate procedure di ibernazione, alcune delle quali prevedono la distruzione del substrato biologico e la riproduzione elettronica dell’intera configurazione ottenuta con lo scanning di ogni pellicola del cervello ottenuta con tecnica microtomica. […]
[…] La fine dell’umanesimo, osserva Marchesini, ha dato vita a due tradizioni diverse, che assegnano ruoli antitetici alla tecnoscienza: l’iperumanesimo che vede nella tecnoscienza una proiezione/estensione dell’uomo; il postumanesimo, che attribuisce alla tecnoscienza il ruolo di porre rimedio all’antropocentrismo e di rivalutare il ruolo decisivo dell’eteroreferenzialità e dell’ibridazione. Iperumanesimo e postumanesimo sono la conseguenza del dilemma costitutivo della modernità, la contraddizione tra il desiderio dell’uomo di rimanere separato dalla realtà (in quanto si concepisce come essere speciale) e il bisogno sempre più forte di immergersi nell’interazione ibridativa con l’alterità tecnologica: "L’accelerazione dello sviluppo tecnoscientifico incrementa in modo direttamente proporzionale i processi di esternalizzazione performativa, permettendo una paritetica internalizzazione di virtualità: l’uomo prova la disarmante esperienza di sentirsi al tempo stesso più potente, perché in grado di allargare il proprio dominio di operatività, e più debole, perché spaventosamente dipendente da partner esterni nell’espressione performativa" (p. 521). Ma proprio questa contraddizione rivela l’inconsistenza della pretesa umanistica di tracciare un confine preciso tra le discipline dell’uomo e quelle della realtà non umana.
Il preservazionismo, sia esso applicato all’uomo o alla natura, non ha alcun fondamento. Così l’ambientalismo preservazionista immagina di poter attribuire alla natura lo status di realtà incontaminata finché essa non è stata degradata dall’opera dell’uomo, ma si tratta di una concezione del tutto arbitraria, perché in nessuna epoca l’uomo è vissuto in armonia con l’ambiente, come dimostrano le alterazioni distruttive provocate su flora e fauna del pianeta a partire dal Pleistocene (p. 542). Solo una concezione dinamica in senso postumanista può dare una soluzione ai problemi ambientali attraverso il miglioramento delle applicazioni tecnoscientifiche. Perciò la direzione giusta non è la condanna della tecnologia, ma il riconoscimento e lo sfruttamento della dipendenza della nostra specie dall’alterità, la sua eteroreferenzialità.
A questo punto, come osserva Luisella Battaglia richiamata da Marchesini, entra in gioco il concetto di responsabilità nei confronti dello sviluppo della scienza e della tecnica. Hans Jonas e Tristram Engelhardt rappresentano due modalità opposte di intendere il principio di responsabilità. Se Jonas invoca il dovere di assumere una responsabilità cautelativa, capace di fornire risposte concrete ed efficaci alle minacce incombenti (anche a costo di limitare d’imperio la libertà degli individui), Engelhardt invece difende la legittimità del pluralismo di posizioni etiche e sancisce l’obbligo di riconoscere a ciascun individuo il diritto di decidere in merito al proprio bene. Engelhardt dichiara inaccettabile la tesi dell’integrità/inviolabilità della natura: "A coloro che temono che la ricostruzione genetica possa comportare rischi sconosciuti, si potrebbe controbattere che la mancata ricostruzione può comportare rischi altrettanto sconosciuti" (p. 549). La responsabilità per Engelhardt dunque si fonda sul riconoscimento dei diritti inalienabili della persona. All’opposto di Jonas, Engelhardt sostiene il principio di autonomia, che prescrive di rispettare la volontà dell’agente e di fare agli altri il loro bene. Marchesini considera queste due posizioni opposte come la conseguenza di un fraintendimento relativo alla collocazione dell’uomo nei suoi rapporti con la cultura, l’attività tecnoscientifica e la natura stessa. La riflessione di Jonas infatti esprime un irrigidimento conservatore e fa uso di vecchi concetti come quello di hybris per opporsi a ogni intervento nei confronti di una alterità dichiarata intangibile. Dall’altra parte si assiste alla difesa dell’essere umano, delle sue prerogative e dei suoi diritti prescindendo totalmente dal nesso con la natura, secondo uno schema quindi autoreferenziale e antropocentrato.
Si può dire, conclude Marchesini, che sia i sostenitori della responsabilità cautelativa, sia quelli di una responsabilità emancipativa adottano lo stesso presupposto dei teorici dell’incompletezza: "la cultura si pone in opposizione alla biosfera, non come espressione della biosfera stessa […] tecnofilia e tecnofobia sono così di fatto espressioni dello stesso empito antropocentrico incapace di leggere il processo coniugativo dell’agire tecnologico" (p. 550).
Marchesini propone un’etica del futuro e una bioetica capaci di riconoscere l’alterità e l’eteroreferenza come momenti essenziali del fare tecnologico. Dato che il non umano è l’altro polo del processo culturale, la salvaguardia dell’ambiente e della natura in generale non si può contrapporre alla cultura e alla tecnologia. Quando due poli interagiscono è impossibile attendersi che essi rimangano inalterati, perché ogni relazione interviene nella determinazione dell’identità mobile dei soggetti; identità che, d’altra parte, non sarebbe possibile definire in modo indipendente dalla relazione stessa. La critica che Marchesini rivolge alle correnti principali della bioetica è un corollario della sua concezione postumanistica. Rimane tuttavia il dubbio, circa la possibilità di assumere una posizione bioetica non antropocentrata, giacché sono pur sempre gli esseri umani ad assumere decisioni in campo tecnologico e a determinare la direzione dello sviluppo. A meno che quella di Marchesini non sia una visione naturalistica in cui ai processi di interazione con le alterità è attribuita la capacità di autorganizzarsi in modo spontaneo. Infatti è impossibile sottovalutare la circostanza che uno dei due poli, l’uomo, ha un potere d’intervento e una libertà di decisione straordinariamente superiori a quelli dell’altro polo. La responsabilità bioetica dell’uomo è allora tanto più drammatica quanto maggiore è il numero delle opzioni che egli è in grado di apprezzare e tra le quali è chiamato a istituire una gerarchia.».