di Luigi Foschini (marzo – aprile 2002)
Quando si parla di responsabilità e innovazione, in particolare in Italia, occorre partire da alcune considerazioni sullo stato attuale delle istituzioni scientifiche nel nostro paese e sul rapporto con il pubblico. Il recente sondaggio Eurobarometro ha aggiunto dei numeri a ciò che ormai si conosceva a grandi linee nel rapporto tra la gente e la ricerca scientifica. Alcuni punti però meritano un’attenzione particolare. Circa il 43% degli intervistati ritiene che gli scienziati siano responsabili degli abusi delle scoperte scientifiche, però nel contempo quasi il 53% ritiene che l’astrologia sia una scienza. Sicuramente, una buona percentuale di questi ultimi è contenuta anche nel primo campione, per cui viene da chiedersi a quale tipo di abusi e di scoperte scientifiche si riferissero quando hanno risposto.
Ragionando su quella percentuale che effettivamente pensava alla scienza quando ha parlato di responsabilità degli scienziati per gli abusi della scienza, è necessario sottolineare che simili pretese sono estremamente pericolose dal punto di vista democratico, perché si rischia di derivare verso una tecnocrazia. Dopotutto, il dittatore è in genere colui che si ritiene il massimo esperto su tutto l’universo, al punto da evitare di condividere la responsabilità di una decisione con chiunque, che ovviamente ritiene essere meno esperto di lui.
Quando si deve decidere se applicare o meno una nuova tecnologia, è quindi essenziale che sia la società nel suo insieme a decidere. Nell’urna il voto di uno scienziato deve valere come quello di chiunque altro, perché quando si parla di problemi scientifici e tecnologici il ricercatore è parte in causa: quis custodet custodes? Nessun ricercatore degno di questo nome parlerà male delle proprie teorie: se dimostrasse che lui è il primo a non credere in ciò che fa, come potrebbe pretendere che altri prendano in considerazione le sue idee o anche solo lo rispettino come uomo? Il ricercatore, per definizione, ricerca e poi propone alla società, che deciderà se è il caso di appoggiare le sue richieste.
E’ piuttosto responsabilità del ricercatore diffondere la cultura scientifica, per dare alla gente gli strumenti necessari su cui basare le proprie decisioni. In questo senso, dal sondaggio Eurobarometro appare subito evidente un grave difetto nella diffusione della cultura, un problema di comunicazione, forse anche di alfabetizzazione: infatti, se si tiene presente che le Università sono, o almeno dovrebbero essere, in prima linea nella ricerca, i dati di Eurobarometro non sono incoraggianti, per non dir di peggio. Sicuramente, una parte di responsabilità cade quindi sul ricercatore, che ha la tendenza a chiudersi nella mitica turris eburnea, completamente anacronistica nel XXI secolo. Prima della seconda guerra mondiale, le istituzioni scientifiche erano molto ridotte: basti pensare al celebre istituto di fisica di via Panisperna, in cui crebbe il mito di Enrico Fermi e dei suoi giovani allievi, e confrontarlo con un moderno dipartimento di fisica. La differenza si fa ancora più marcata quando si va ancora più indietro nel tempo, al XIX, XVIII secolo, quando la scienza era quasi esclusivamente una attività per soli nobili, che avevano denaro e tempo per autofinanziarsi. Al più, poteva essere usata per divertire qualche nobildonna annoiata dai pettegolezzi di salotto (si pensi a quando si usavano le bottiglie di Leiden per divertire il pubblico con la produzione di scariche elettriche).
Oggi le università, gli enti di ricerca, gli istituti scientifici, sono in massima parte finanziati dai Governi delle rispettive nazioni, il che vuol dire che sono finanziati dalla gente, che poi vuole sapere che fine fanno i soldi delle proprie tasse. Oggi si può quasi dire che fare il ricercatore sia una specie di "mandato" da parte della gente per occuparsi di questioni scientifiche e tecnologiche: un po’ come il politico, cui viene attribuito un mandato per occuparsi della res publica, al ricercatore viene attribuito un mandato per occuparsi della "res technologica". I soldi pubblici sono pochi, i problemi di una nazione sono molti, soprattutto nel mondo di oggi, nella civiltà planetaria in cui ciò che accade in una nazione lontana migliaia di chilometri non può essere ignorato perché può ancora avere ripercussioni qui da noi.
Il problema è che i ricercatori si accorgono di ciò quando vengono tagliati loro i fondi, il che è generalmente troppo tardi. Partono quindi tentativi disperati per coinvolgere la gente, per fare capire loro l’importanza della ricerca, ma tutti sono fatalmente destinati a cadere nel vuoto. Forse, si può trovare qualche politico sensibile alla cultura, che potrà rimandare i provvedimenti restrittivi, ma è pur sempre una misura temporanea. Se il 53% degli intervistati da Eurobarometro ritiene che l’astrologia sia una scienza appare evidente un deficit di alfabetizzazione, che ovviamente non si può sperare di colmare in poche settimane o mesi. E’ quindi giocoforza che gli appelli cadano nel vuoto, perché non c’è gente sufficiente in grado di apprezzarli. E, in fondo, gli appelli diventano noti perché tra i firmatari c’è qualche personaggio famoso, invece che per i contenuti che esprimono.
Ma sarebbe ingiusto ridurre l’attuale problematica situazione degli istituti di ricerca solo a una insufficiente comunicazione e alfabetizzazione. Il modo di fare scienza è profondamente mutato nel dopoguerra, portando con sé notevoli problemi sociologici: si veda, per esempio, A. R. Pickering e W. P. Trower: "Sociological problems of high-energy physics", Nature 318, (1985), 243-245 (di questo ho anche già discusso nel mio intervento del 25 giugno 2001 nel forum sul conflitto di interessi). L’eccessiva burocratizzazione della scienza fa sì che vengano finanziati solo quei progetti in cui sia prevedibile cosa si otterrà. Raramente ci saranno controlli su ciò che si è ottenuto, mentre il grosso della scrematura avviene durante la prima disamina delle richieste di finanziamento. Pertanto, l’ente finanziatore vuole sapere cosa si vuole ottenere, dove si vuole arrivare, prima di aprire i cordoni della borsa. In questo senso, lo scienziato acquisisce una responsabilità molto maggiore rispetto ai suoi colleghi del XIX secolo (tanto per fare un esempio), i quali erano spesso nobili, che autofinanziavano le proprie ricerche e quindi non dovevano rendere conto a nessuno.
La ricerca "curiosity driven" è ormai un genere in via di estinzione, se non lo è già, per cui la scienza sta perdendo o ha già perso la sua principale molla propulsiva: la ricerca del sapere, lo studio del non conosciuto, dell’ignoto, l’arrivare là dove la mente umana non è mai stata. E questo può anche essere la causa o una delle cause della disaffezione dei giovani per la ricerca scientifica, che si manifesta con il crollo delle iscrizioni alle facoltà scientifiche.
Ciò che avviene negli enti di ricerca e nelle università appare ormai sotto controllo, ingabbiato in una pletora di moduli da compilare, scandito dalle scadenze delle richieste di finanziamento. Si sono iniziati a preferire gli "impiegati della ricerca" ai veri ricercatori, il che favorisce l’espansione della burocratizzazione della scienza, generando così una spirale perversa.
Inoltre, dato che in fondi calano, la concorrenza si fa più accesa, scatenando la corsa allo scoop mediatico, come mezzo per "guidare" i finanziatori nell’individuazione dei progetti cui elargire i tanto agognati contributi economici. In queste condizioni, non è certo la ricerca più interessante o anche solo la ricerca pura e semplice dell’ignoto che può fare scoop, ma è quella più provocatoria, quella che va a sovrapporsi alle morali individuali, alle sfere religiose, per non parlare di quella che porta denaro direttamente nelle casse degli istituti (si veda il percorso sul conflitto di interessi nella scienza). Non c’è più ricerca scientifica, giacché la scienza pura non è qualcosa di spendibile subito, ma ricerca tecnologica, cosa per cui è ovvio dovere introdurre concetti come "responsabilità dell’innovazione" o anche "responsabilità della mancata innovazione". In entrambi i casi, stante l’attuale struttura degli enti di ricerca e delle università, il ricercatore è ben conscio delle implicazioni di ciò che farà o non farà. Al limite del non fare, l’inattività, lo spreco sfacciato delle risorse, porta poi a quei tagli di finanziamenti che colpiscono spesso indiscriminatamente, ma colpiscono soprattutto quei posti, ormai scarsi, in cui ancora si fa un po’ di ricerca scientifica con le briciole della torta e che non possono difendersi a colpi di mass media. La responsabilità del ricercatore va quindi intesa come responsabilità nel mantenere viva e accesa la fiaccola della cultura scientifica, nel diffonderne la luce e le ombre.
Forse stiamo vivendo la più lunga di quelle fasi che Thomas Kuhn chiamava di "scienza normale" (si veda La struttura delle rivoluzioni scientifiche), che si è espansa a dismisura, fagocitando o togliendo ossigeno a ogni possibile alternativa o deviazione. Se non ci sbrighiamo a uscirne, rischiamo di non avere più una scienza.
Addendum
(3 aprile 2002)
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Da: Gian Maria Borrello
A: Luigi Foschini
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Meditavo ora su alcune correlazioni tra il Suo scritto pubblicato sul sito della Fondazione Bassetti alcuni giorni fa e i Percorsi:
"Authority e libertà della ricerca"
e
"Jacques Testart e il Principio di precauzione"
(…)
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Da: Luigi Foschini
A: Gian Maria Borrello
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Nei percorsi "Authority e libertà di ricerca" e "Jaques Testart e il principio di precauzione" ci sono molti spunti interessanti di collegamento al mio scritto. Di seguito espongo alcune riflessioni, aggiungendo anche altre note che spero possano chiarire il mio punto di vista.
– Percorso "Jacques Testart e il principio di precauzione"
Testart scrive: "Come viene precisato in un recente rapporto al primo ministro, «l’esperto non sa» e, ciò che è peggio, le sue opinioni «non sono esenti da pregiudizi»." Commento ironico: e c’era bisogno di un rapporto ministeriale per rendersi conto di questo? Non bastava studiarsi Socrate? Ironia a parte (che forse è anche un po’ sarcasmo…) mi sembra che ci sia un palese collegamento con quanto ho scritto sull’inesistenza del cosiddetto "esperto": «Nell’urna il voto di uno scienziato deve valere come quello di chiunque altro, perché quando si parla di problemi scientifici e tecnologici il ricercatore è parte in causa: quis custodet custodes?».
Si veda anche il mio intervento del 20 agosto scorso sul conflitto di interessi: «Da questo discende l’inesistenza dell’esperto, di colui che possa certificare ciò che non è certificabile, il sapere (v. intervento di Bertolini dell’8 agosto). Al tribunale o all’amministrazione che chiede di dire tutta la verità, il ricercatore non può che rispondere come Lacan: non posso dire tutta la verità, perché non bastano le parole.»
Occorre però aggiungere che il principio di precauzione non è la soluzione perché – come nota Testart – porta alla paralisi: "Anche quando si arrivasse a supporre che un’innovazione tecnologica sia esente da rischi potenziali secondo il principio di precauzione, un tale verdetto non sarebbe sufficiente a giustificarne l’uso in piena responsabilità." Ma questo non è forse un modo inconscio di dire che non gliene importa a nessuno (escludendo i produttori, ovviamente) di quella scoperta particolare? Testart cita il caso OGM, che non provengono da una domanda del mercato. La gente, che non li ha chiesti, e’ molto prudente, chiede il principio di precauzione. Quando la gente vuole qualcosa e’ molto meno cauta e e’
disposta a correre dei rischi.
Questo tema è molto interessante e andrebbe sviluppato a parte (a mio avviso presenta dei nessi col dibattito su "La società del rischio").
Un collegamento, anzi un confronto, può essere rilevato tra il punto in cui parlo di diffusione della scienza e la frase di Testart: "Analizzando la «democrazia tecnica (9)», Michel Callon ricorda il ruolo degli scienziati nell’educare il pubblico in una «lotta per la Luce contro l’oscurantismo». Spesso questa funzione è interpretata in un senso messianico dagli ambienti scientifici che si sentono incoraggiati da alcuni esempi, […]". Personalmente quando parlavo di diffusione di scienza non pensavo a educazione, o almeno sicuramente non nel senso della maieutica. E’ forse più consona la frase: "Di fronte ai poteri di cui dispongono le lobby dei tecnici nelle moderne società, l’unico modo per limitare i danni è quello di rafforzare le procedure di informazione, consultazione e trattativa che garantiscono il funzionamento democratico delle nostre istituzioni …". Le procedure di (in)formazione sono ovviamente legate all’istruzione pubblica, ma non solo.
Inoltre, tornando alla frase di Callon, vorrei soffermare l’attenzione sul fatto che io parlo di "luci e ombre", non solo di "luci": «La responsabilità del ricercatore va quindi intesa come responsabilità nel mantenere viva e accesa la fiaccola della cultura scientifica, nel diffonderne la luce e le ombre». Per me non è una lotta della "Luce" contro l’oscurantismo, perché nella scienza sono interessanti sia le luci sia le ombre e spesso le scoperte più belle si fanno proprio camminando sul filo dell’equivoco che separa le une dalle altre (nota: mi viene in mente un libro di Carl Sagan: "Il mondo infestato dai demoni", che sembra più scritto da un frate della Santa Inquisizione più che da uno scienziato…). Tanto meno va intesa la scienza come un’impresa messianica (mi viene da ridere al solo pensiero, anche se so di non pochi colleghi che ci credono sinceramente).
Inoltre, e qui concordo con Testart, la scienza non è l’unica via di conoscenza: per questo parlo più spesso di ricercatore che di scienziato, ricercatore che trova in Leonardo da Vinci un valido prototipo. Il sapere – con sommo rammarico per coloro che redigono i raggruppamenti disciplinari al MIUR – non è separabile in compartimenti stagni.
– Percorso "Authority e libertà di ricerca"
Penso che qui si possa sintetizzare adeguatamente il dibattito che ha dato luogo al Percorso con la frase di Bertolini nel suo intervento del 2 maggio 2001 "più che sovraccaricare il sistema di strutture amministrative, che bene o male, hanno carattere autoritativo, è necessario che il cittadino sia in grado di esercitare nel modo più completo la propria autonomia", in cui vedo anche un collegamento con il libro di Ulrich Beck: "I rischi della libertà".
In fondo, mi sembra che nella ricerca di authority, di esperti, ecc, ci sia la disperata voglia di una "Grande Mamma" amorevole che decide per te e per il tuo bene. Solo che – come Orwell ci insegna – tali soggetti hanno conseguenze devastanti. Eppure c’è sempre gente che pur di non affrontare i propri pensieri è disposta a delegare la propria vita a qualcuno, pretendendo che costui/costei pensi benignamente per lui/lei. Questo è un altro motivo per cui lo scienziato, il ricercatore, deve rifiutarsi di assumere una tale responsabilità. Il ricercatore – e sottolineo ricercatore nel senso più ampio del termine, quindi non limitato allo scienziato – è colui che ha acquisito la capacità pratica di affrontare i propri pensieri: questa è la capacità che deve trasmettere alla gente.