Abstract del libro ‘Il viaggio delle idee‘ di Roberto Panzarani
"La cosa è semplice!
Siamo tutti molto ignoranti e nell’ignoranza
non ci può essere competizione"
Gregory Bateson
La globalizzazione e l’avvento delle tecnologie della comunicazione hanno avviato processi autocatalitici di trasformazione dei mercati e conseguentemente della morfologia organizzativa delle imprese.
I cicli di distruzione creativa che un tempo duravano decenni, oggi durano mesi. Questo fa si che l’innovazione sia diventata un fattore abilitante per l’impresa, una componente necessaria non solo per sopravvivere alle regole economiche che dominano i mercati nazionali, ma anche per garantire i livelli di qualità della vita richiesti dalla complessità del sistema sociale in cui siamo immersi. Le idee innovative in quanto tali non servono a generare un vantaggio competitivo, non sono infatti brevettabili. Quelle che si brevettano sono le soluzioni innovative, perché fanno la differenza, garantiscono quel "quid" in più rispetto ai competitors. E’ necessario quindi, liberarsi dai pregiudizi di natura ideologica, che hanno condizionato in maniera molto forte la cultura industriale di casa nostra. Le idee, anche le più brillanti devono poggiare su basi solide, da sole sono "forme vuote", elucubrazioni sterili. L’innovazione deve essere in grado di generare delle soluzioni valide nell’ottica imprenditoriale, cioè utili a migliorare gli standard organizzativi, produttivi, ovvero potenziare la catena del valore.
L’innovazione può essere un diffusore della creatività, che è una condizione necessaria ma non sufficiente a che si generi una soluzione innovativa. La creatività è il carburante, di cui si alimenta un ambiente innovativo. Nel contesto della net economy l’innovazione è un processo che avviene all’interno della società, che coinvolge più strutture, più attori, più protagonisti.
L’impresa del futuro deve costruirsi sulla "governance dell’innovazione", in termini reali, concreti, in funzione della nuova dimensione che è quella del mondo futuro.
L’impresa deve diventare soggetto – oggetto dell’innovazione: deve essere il "luogo" deputato a sviluppare innovazione. Molti autori parlano addirittura della necessità di ufficializzare un doppio bilancio: il primo destinato alla gestione ordinaria dell’azienda, il secondo all’innovazione.
La governance dell’innovazione, cioè la gestione del progresso scientifico e tecnologico, richiede un management, una classe politica, un’economia di pensiero, adeguata alle esigenze che questa fase della storia sta esprimendo.
Verso una visione organicistica delle imprese
Ogni progetto deve passare attraverso la formazione delle risorse umane. Esiste una tradizione storica centenaria, che ha cominciato a svilupparsi con la rivoluzione industriale, che ha generato una "cultura" specifica dell’addestramento. La sfida di oggi matura in uno scenario globale, per cui i vecchi schemi sono crollati, di fronte all’ambizioso obiettivo di fornire ad ogni individuo le categorie per comprendere il cambiamento. La trasformazione non deve trasformarci in automi, dobbiamo piuttosto elaborare capacità critica secondo punti di vista e di prospettiva sempre diversi. Non si tratta di una disquisizione solo di carattere teorico. Il problema è anche molto pratico: l’individuo non riesce a decidere se non conosce a fondo i processi. La sollecitazione viene dalla velocità del cambiamento. Nel passato l’accumulazione di conoscenza finalizzata alle decisioni era più breve, lineare e duratura, adesso di fronte alla rapidità delle trasformazioni non basta che si crei una conoscenza superficiale, bisogna avere sotto controllo la catena delle implicazioni che sono generate dai processi di acquisizione e elaborazione della conoscenza. Il ragionamento non deve essere vissuto dagli stessi manager come un imperativo, quanto come una commodities. Ciascuno deve avere una solida base di conoscenza per fare bene il proprio lavoro, per prendere decisioni, per essere parte attiva della realtà in cui si muove.
Esiste inoltre, un’attitudine all’innovazione. Spesso dimentichiamo che il processo educativo della specie umana è molto lungo in virtù della complessa struttura neuronale, che caratterizza ogni individuo. La riflessione non è solo di natura fisiologica, perché ha delle implicazioni economiche semplici e immediate: riesco, infatti, a fare economia nella misura in cui possiedo la moneta della conoscenza. Ci troviamo in una dimensione emozionale, in cui termini quali paura, coraggio, "forma mentale", motivazione hanno un senso. Non è importante l’aspetto nozionistico nell’analisi della "rivoluzione digitale", né il dosaggio delle "quantità", quanto la definizione della qualità e la focalizzazione del metodo che guida i processi e le scelte manageriali.
Esiste un orizzonte fondamentale e delicato che dobbiamo curare come manager e formatori: quello della psiche. Se nell’universo del lavoro riuscissimo, perciò, a privilegiare una dimensione organicistica anziché meccanicistica, certamente più aderente a quella che è la dimensione umana, questa azione potrà rendere ogni attività imprenditoriale più gratificante e produttiva. Se al contrario la dimensione dell’"adattamento" non troverà spazio, sarà difficile, per non dire impossibile reggere i ritmi del cambiamento.
Tutto ciò avveniva anche nel passato, come ad esempio nell’era postindustriale, che è stata segnata da tanti cambiamenti. La differenza profonda sta nel fatto che adesso la velocità del divenire cresce in misura esponenziale. Per questo è difficile riuscire a creare un sistema di governance dei processi. Un punto rimane ben saldo: la persona è di fatto al centro.
Alla ricerca di un universo policentrico
Oggi ogni organizzazione per muoversi all’interno di un contesto dominato dalla globalizzazione, deve imparare a presidiare una serie di aspetti. Prima di tutto la "varietà", che va intesa come una precisa attitudine a reagire ad ogni forma di omologazione, poi la "permeabilità", che deve tradursi in un’abilità specifica di fare network, di comunicare, di scambiare esperienze e know-how. Terzo elemento è l’"instabilità", che vuol dire sapersi mantenere vicini alla soglia del caos, senza farsi inghiottire, senza farsi schiacciare da gerarchie e percorsi precostituiti. Queste qualità non reggono se il management non dimostra elasticità, se non riesce a sconfiggere le definizioni rigide.
Il rapporto globale locale riguarda ormai tutto il mondo. Da una parte abbiamo la tendenza molto forte ad omologare, dall’altro lato una serie di storie e dimensioni locali che si "difendono". Chiunque ha bisogno di rinforzare la propria identità in un momento di globalizzazione pervasiva e da questa realtà possono nascere minacce e opportunità.
Ogni anno scompaiono centinaia di lingue, nell’indifferenza più completa dei governi e degli stati nazione. Questo dovrebbe bastare a farci capire che la dimensione glocale diventa la dimensione più importante, lo possiamo vedere dall’economia più semplice, come il diffondersi dello stile etnico nella moda, alla rivitalizzazione dei prodotti locali, che con Internet possono conquistare il mercato globale, ai fenomeni più complessi che caratterizzano lo sviluppo dei mercati finanziari.
Una delle conseguenze del dominio della cultura occidentale nel mondo è che spesso altre culture e tradizioni vengono identificate e definite per contrasto con la cultura occidentale contemporanea. Diverse culture vengono così interpretate in una maniera che sembra rinforzare la convinzione politica che la civiltà occidentale sia in qualche maniera la principale, forse l’unica fondata su risorse di idee razionali e liberali. L’Occidente è visto, da una certa tradizione, come l’area che ha esclusivo accesso ai valori che stanno alla base della razionalità e del pensiero, della scienza e della verificabilità, della libertà e della tolleranza, oltre che del diritto e della giustizia. Una volta radicata questa visione dell’Occidente, tende a giustificare se stessa negando il confronto con altri mondi, altre culture. Dal momento che ogni civiltà contiene diversi elementi, una cultura non Occidentale può essere caratterizzata in base a quelle tendenze ritenute più distanti dai valori e dalle tradizioni "altre" rispetto alla nostra. Questi elementi selezionati tendono ad essere considerati più "autentici" o più genuinamente "endogeni" rispetto ad altri relativamente simili a quelli che si possono rintracciare in Occidente. In questo senso le idee hanno sicuramente viaggiato più veloci di una politica ancora vittima di vecchi retaggi, ancora troppo soffocata da stereotipi e pregiudizi. E’ diventato improrogabile imparare a vivere l’unità nella diversità. Si tratta di creare una nuova dimensione mondiale, mettendo all’ordine del giorno il problema della convivenza di popoli e culture diversissime. Parlare di governance significa sottolineare questa esigenza, improrogabile, di ripensare gli equilibri di un Pianeta, che ha un profilo intriso di complessità e interdipendenza e di ancorarli a dei saldi principi etici.
La chiave della coesione sociale è la comunità forte, e non le singole istituzioni al suo interno. Con lo sfaldarsi dei legami di gruppo, è la stessa comunità che deve fare da collante sociale, così come è già il collante economico che lega insieme persone e opportunità, e le imprese alle persone. Quando tutto il resto è fluttuante – le imprese, le carriere, perfino le famiglie- le nostre comunità sono spesso la sola vera costante dell’equazione sociale. Ciascuno di noi vive in una comunità anche solo temporaneamente. E se sono le comunità a svolgere questo ruolo chiave, ci conviene renderle più forti e coese possibili, ma allo stesso tempo, paradossalmente, più aperte ad accogliere la mobilità e il cambiamento che definiscono tanta parte della nostra vita sociale.
Conclusioni
Oggi, il nostro obiettivo è quello di porre l’accento sulle relazioni comunitarie più che sull’autonomia individuale, sulla diversità culturale più che sull’assimilazione, sulla qualità della vita più che sull’accumulazione di ricchezza, sullo sviluppo sostenibile più che sull’illimitata crescita materiale, sul "gioco profondo" più che sull’incessante fatica, sui diritti umani universali e su quelli della natura più che sui diritti di proprietà, sulla cooperazione globale più che sull’esercizio unilaterale del potere.
E’ necessario creare un nuovo schema storico di riferimento, che liberi l’individuo dal vecchio gioco dell’ideologia occidentale e, nello stesso tempo, leghi l’umanità a una nuova storia condivisa, fatta di diritti umani universali e di diritti intrinseci della natura.
Nella nuova visione del futuro, l’evoluzione personale diventa più importante dell’accumulazione individuale di ricchezza. E’ necessario riservare attenzione ad aspetti come: la qualità della vita, la sostenibilità, la pace e l’armonia.
L’accento si sposta dall’avere beni materiali al vivere una vita spiritualmente piena.