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(da: I testimoni dell’innovazione, “@tilab“, anno III, n°7, ottobre/novembre 2003)
"Il modello Italia ha finito il suo ciclo". L’allarme lanciato su "Affari e Finanza" di Repubblica da Gian Maria Gros Pietro, presidente di Autostrade e docente di Economia Manageriale all’Università di Torino, rischia di non essere più una voce isolata. Ordini in calo, contrazioni della domanda e del fatturato (i dati Istat relativi al mese di agosto parlano di un calo del 5,4% per il fatturato industriale e del 3,7% della produzione rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso) rallentamento della competitività sono tutti fattori negativi che non possono essere trascurati. La denuncia del manager, che è stato Presidente di ENI ed IRI, si concentra soprattutto su un dato: in Italia si fa poca ricerca e molta innovazione di prodotto, questo fa si che: "siamo dove non c’è molto futuro, ma non siamo dove il futuro è importante, ovvero nella microelettronica, nell’Information Technology, nelle biotecnologie, nelle nanotecnologie e nuovi materiali che sono i fattori chiave della prossima rivoluzione industriale".
Domanda: Prof. Panzarani la riflessione di Gros Pietro, che inquadra molto bene il momento attuale della nostra economia ci consente di entrare subito nell’argomento della nostra discussione: come si declina il rapporto tra innovazione e formazione nella società dell’informazione ?
Userei la felice definizione di Jonathan Low e Pam Cohen Kalafut che nel loro ultimo studio parlano di vantaggio invisibile riferendosi alla forza motrice dell’impresa moderna: la conoscenza. E’ sugli asset intangibili che corre il vantaggio competitivo, la possibilità di fare la differenza, in un contesto come quello dell’ICT che chiama i formatori a nuovi compiti e responsabilità. Il valore della triangolazione formazione, innovazione, ricerca è il fondamento da cui bisogna partire, un paradigma fatto da tre poli interdipendenti. Negli anni che hanno preceduto la grande euforia tecnologica, grazie anche ad una certa stabilità di mercato, le grandi società di formazione non avevano avvertito il bisogno di praticare un’attività di formazione di tipo avanzato, collegata ai laboratori di ricerca ed ai centri di sperimentazione. Oggi il quadro è radicalmente mutato, questa connessione ha assunto un peso strategico.
Domanda: La denuncia di Gros Pietro mette in luce un dato oggettivo: l’innovazione di prodotto che è stata per l’Italia fonte di successo e di crescita non basta per reggere la competitività a livello globale. E’ dunque il paradigma della crescita che deve cambiare?
E’ quasi impossibile avviare un’attività di formazione adeguata ai meccanismi che presiedono i processi decisionali del top management, se l’attività di studio non è agganciata alla ricerca scientifica, che è sicuramente il primo volano dell’innovazione. Il processo di obsolescenza, che investe inesorabilmente le tecnologie, coinvolge la formazione con una velocità sconosciuta in altre epoche.
Alcuni esempi storici ci dicono che anche le posizioni più consolidate possono sgretolarsi. Nell’Ottocento era l’Inghilterra il paese leader, era stato protagonista della prima rivoluzione industriale. Dopo il primo conflitto mondiale comincia l’ascesa inarrestabile dell’America, si impone una diversa filosofia e una diversa organizzazione del lavoro. Sta avvenendo la stessa cosa, nell’universo della net economy. Paesi come la Cina stanno avanzando, non solo per il basso costo della mano d’opera come molti credono, ma piuttosto per la capacità che queste realtà stanno dimostrando di sapere investire in formazione, know-how, conoscenza. Il capitale delle idee, il capitale intellettuale è velocissimo nei suoi spostamenti. Il formatore deve intercettare questi spostamenti, decodificarli, traducendo i segni del cambiamento, in significati chiari per il management, che si misura giornalmente con le insidie del mercato.
Domanda: In una società complessa alla ricerca costante di nuovi equilibri, dominata dall’incertezza e dal conflitto tra global e local, tra identità e differenza, quali modelli di formazione possono risultare vincenti?
Durante la mia attività alla presidenza dell’Associazione Italiana Formatori ho insistito molto sull’identità del nostro ruolo, che ho sempre pensato dovesse essere prima di tutto quello di fare da cerniera per far dialogare i vari "attori" che operano nell’impresa. L’attività d’aula, i corsi di addestramento, i percorsi di studio devono essere il prodotto finale di un processo che non deve mai rimanere avulso dalla catena del valore. In questi ultimi mesi sono venuto a contatto con tutto il mondo della formazione che opera in Italia, bisogna ammettere che c’è stato un aumento generale, in termini di qualità delle risorse impegnate. Si sta sviluppando una consapevolezza nella dimensione professionale del formatore, che al di là dei compiti specifici che non voglio certo sottovalutare, è sempre più impegnato ad affinare gli strumenti della decisione manageriale, in contesti difficili dove sono tante le incognite e le criticità.
Domanda: Quali punti forti deve avere la formazione in un centro di ricerca come TILAB?
In TILAB è possibile dare vita ad una sintesi aurea. Una grande struttura di ricerca che ha come mission l’innovazione, controlla per definizione e con piena padronanza i tre fattori di cui parlavamo all’inizio. La formazione a questi livelli significa innanzi tutto lavorare in profondità, instaurando un collegamento continuo con le Università e gli altri centri di eccellenza, attraverso cui si può attuare un training efficace e continuo, volto alla cura del "saper essere dell’innovatore", che si caratterizza per apertura, elasticità mentale, flessibilità. Coltivare il "management della Rete", è questa la parola chiave tanto più valida in una grande realtà come TILAB, dove formare significa lavorare fianco a fianco con i ricercatori per decriptare e usare al meglio il flusso di conoscenze che passano attraverso il web. Sviluppare l’attitudine a saper essere innovatori è una forma mentale, una componente psicologica, che ci porta a pensare alla grande, che deve alimentarsi continuamente di tutte le fonti che l’Information Society mette oggi a disposizione. Formazione significa anche seguire il processo della scienza e delle tecnologie, capire l’onda che segue il mercato ed aggiornare di conseguenza saperi e know-how, che altrimenti rischierebbero di diventare obsoleti.
Domanda: Claudio Dematté nel volume "e-business" sostiene che Internet è ormai dentro tutti i nuovi modelli dell’impresa in modo imprescindibile. Per chi opera nella formazione cosa significa questo?
In generale sono d’accordo con questa affermazione. Capiamoci: il caso Enron non significa la fine di Internet come da qualche parte si era in una primissima fase sostenuto. L’economia "internettiana" è un dato strutturale imprescindibile. Dal punto di vista del rapporto formazione e innovazione l’apporto delle nuove tecnologie risulta addirittura fondamentale. Internet è una porta di accesso importante alla conoscenza. Per questo si avverte in molti ambienti la necessità di avviare dei corsi per imparare ad usare le informazioni che corrono sulla rete.
Quello che manca è una dimensione culturale della consultazione della rete, i cyber navigatori in alcuni casi non vanno in profondità, non hanno la padronanza dei codici linguistici, non conoscono per esempio l’inglese che, va ribadito, è la lingua della rete.
Domanda: Lo strumento della divulgazione culturale e scientifica, che passa attraverso l’editoria ma anche attraverso di alcuni eventi mirati viene sempre più usato come strumento di formazione. Il "Progetto Italia" promosso da Telecom risponde a questa logica, di cui la recente mostra della scienza di Genova è stata una espressione. Che tipo di impatto possono avere queste attività sui tradizionali compiti del formatore?
La risposta è semplice, i binari attraverso cui si fa formazione sono i più svariati, la molteplicità dei canali di comunicazione ha moltiplicato anche i canali delle nostre attività. La mia esperienza mi ha portato ad un contatto costante con il Center for Business Innovation di Boston. Proporre in Italia i loro studi è stato per me una opportunità di crescita, che ha avuto lo scopo di sprovincializzare l’approccio all’impresa del "sistema Italia", tradizionalmente poco impermeabile rispetto alle tematiche dell’innovazione.
Ho così avviato un’opera di cross fertilization, che ha avvicinato il mondo accademico, imprenditoriale e giornalistico attorno alle voci di Chris Meyer, Stan Davis, Thomas Petzinger. Creare un "vivaio delle idee", un terreno di cultura, operando sul campo con centinaia di conferenze, seminari, workshop, organizzati direttamente presso le aziende, è stato un lavoro di frontiera che oltre alla valenza culturale e formativa, ha avuto un impatto molto concreto sui modi di "fare e concepire" l’azienda. In tutto questo non trascurerei la parte emozionale.
Dalla diversità nasce innovazione, è dal confronto che, si sa, nascono le idee. La conoscenza viaggia a 360 gradi sulla rete dunque il confronto che dobbiamo animare non ha confini. Il contadino boliviano collegato ad Internet che vediamo sui teleschermi, diversi popoli dell’Africa che parlano con il cellulare, vogliamo continuare ad ignorarli e a sentirci al centro del mondo ? Credo possa essere l’integrazione il nuovo orizzonte della formazione, il nuovo areopago, l’orizzonte del futuro.