Da sempre la nostra specie si ibrida con gli strumenti che foggia: in realtà homo sapiens è sempre stato homo technologicus, un ibrido di uomo e tecnologia in perpetua trasformazione. Il libro [ndr: “Il simbionte, prove di umanità futura” di Longo, Meltemi] narra l’avventura di questo simbionte: avviato a un futuro post-umano, forse superumano, è tuttavia lacerato dal disadattamento tra la componente biologica e quella tecnologica. Allora si volge al passato con nostalgia e ne vediamo il viso: “Un essere umano (più donna che uomo) che porta sulla fronte il simbolo di una piastrina di silicio o la piastrina stessa impiantata: un simbionte, che con la parte umana, specie con gli occhi (invisibili o meglio inaccessibili) e con l’inclinazione del capo, esprime una grande cieca tristezza, confermata e accentuata dalla lacrima che sgorga e cola lungo la gota, lungo il bellissimo naso greco: gli (anzi le) manca la bocca e questa sua impossiblità di gridare il proprio dolore me la rende ancora più cara: sembra guardare in giù, ma gli inaccessibili occhi contemplano due panorami diversi, proibiti agli umani: forse l’occhio destro, chiuso, vede un paesaggio di devastazione interiore, mentre il sinistro, appena abbozzato, contempla un paesaggio esterno di torri e cuspidi smaglianti attraverso il prisma caleidoscopico e multicolore di quella lacrima suprema.”
(Giuseppe O. Longo, 2003)