INTERVENTI al forum di Giuseppe O. Longo
“Progresso e responsabilità: il passaggio dalla scienza alla tecnologia“
(4 febbraio – 28 febbraio 2003)
(per spostarsi all’interno di questo lunghissimo documento, consigliamo di utilizzare gli indici degli interventi e degli argomenti posti nella colonna sinistra di questa pagina)
1 From:
Corrado Del Bo’ <delbo@f…>
Date: Sun Feb 9, 2003 7:48pm
Subject: Si comincia!
Cari tutti,
non appena il discussant Andrea Rossetti avra’ inviato i suoi
commenti (il che avverra’ al piu’ tardi domattina verso le 10), avra’
inizio il seminario on line della Fondazione Bassetti, nel corso del
quale verra’ discussa la relazione del professor Giuseppe O. Longo
(Universita’ di Trieste) *Progresso e responsabilità: il passaggio
dalla scienza alla tecnologia* (il testo, lo ricordo, e’ disponibile
sul sito della Fondazione: <https://www.fondazionebassetti.org/>) .
Da quel momento, e fino alle 16 di sabato 15 febbraio, potrete
inviare i vostri commenti (possibilmente nel corpo del messaggio e
*non* in allegato) scrivendo una email a:
<fgb-forum@yahoogroups.com>
Qualora facciate reply a un messaggio precedente (il che capitera’
sicuramente, trattandosi di una discussione), vi ricordo di
controllare che il vostro messaggio abbia come destinatario il
suddetto indirizzo, in modo che possa arrivare a tutti gli iscritti
al seminario.
Per qualsiasi problema, in quanto coordinatore del seminario, resto
naturalmente a vostra disposizione e vi prego percio’ di non esitare
a scrivermi in privato all’indirizzo <delbo@f…>.
Nel ringraziare, a nome della Fondazione, relatore e discussant per
la loro disponibilita’, auguro a tutti voi una buona discussione.
Per la Fondazione Bassetti,
Corrado Del Bo’
2 From:
Andrea Rossetti <andrea.rossetti@u…>
Date: Mon Feb 10, 2003 7:24am
Subject: primo intervento
*****La conoscenza tecnologica del mondo e il controllo democratico
della scienza.***
Ogni tecnologia sufficientemente avanzata e’ indistinguibile dalla
magia. Arthur C. Clarke
0. Io sono un tecnofilo. Sono tecnofilo nel senso che, se potessi,
comprerei anche gli oggetti tecnologici piu’ inutili e complicati.
Sono tecnofilo nel senso che credo che la tecnologia abbia permesso,
negli ultimi 100 anni, in occidente, un miglioramento radicale delle
condizioni di vita della maggior parte della popolazione. Entrate in
un qualunque centro commerciale: la maggior parte degli oggetti che
vi troverete erano completamente inaccessibili al mio bisnonno,
bracciante della bassa pianura padana, costretto ad un lavoro
estenuante per 12 ore al giorno, e soggetto ai capricci del padrone
che poteva in ogni momento decidere di non rinnovargli il contratto
ed di fargli fare “San Michele” (ossia il giorno di San Michele,
caricare tutti i suoi poveri oggetti su di un carretto e mettersi a
cercare un nuovo padrone; che difficilmente avrebbe trovato perché il
padrone avrebbe provveduto ad informare gli altri padroni del suo
misfatto, vero o presunto che fosse). La tecnologia, secondo me,
fonda le condizioni essenziali affinché la nostra societa’ possa
essere democratica. E’ forse un paragone azzardato, ma cosi’ come la
democrazia ateniense ha avuto tra i suoi presupposti la schiavitu’,
cosi’ le moderne forme di governo occidentale hanno tra i loro
presupposti lo sviluppo tecnologico.
Ma essere tecnofili non significa essere ciechi: e’ molto probabile
che il nostro attuale modello di sviluppo, di progresso, non sia
esportabile al di fuori dell’occidente; e che, quindi, l’idea di
progresso che noi, oggi, in occidente abbiamo debba modificarsi.
Sono due le tesi di Giuseppe O. Longo che vorrei mettere in evidenza
in questa mia breve e preliminare discussione. La prima e’ la
possibilita’ dello sviluppo di un intelligenza collettiva. La seconda
che il criterio di maggioranza possa essere uno strumento razionale
per il controllo dell’uso della tecnica.
[L’intelligenza collettiva e l’ “open source”]
1. Sinceramente non capisco, ma forse manco solo di immaginazione,
che cosa significhi che la rete e’ anticipatrice di una “creatura
planetaria” o che “la rete possa diventare sede di fenomeni inediti
di intelligenza”. Sicuramente la rete ha favorito la creazione o
forse, meglio, l’amplificazione di dinamiche sociali che prima non
potevano che avere una dimensione locale. Penso, ovviamente, al
movimento del software open source. I suoi principi fondamentali
erano gia’ stati pensati a meta’ degli anni ’80 da Richard Stallman,
e circolavano da tempo nell’ambiente dei programmatori, ma la Free
Software Foundation (http://www.gnu.org) ha iniziato ad essere un
attore importante nella diffusione del software solo negli anni ’90.
La comunita’ e la produzione di free software sono cresciute solo con
l’avvento della diffusione della rete a livello planetario, e hanno
rivoluzionato alcune delle idee fondamentali sulla produzione dei
programmi: si e’ mostrato che dei dilettanti (ossia, persone che
lavorano non per denaro, ma per il puro piacere di lavorare) sono in
grado di produrre software di qualita’ uguale (se non superiore) a
quella di programmatori professionisti (l’esempio paradigmatico e’ il
sistema operativo Linux); si e’ mostrato che l’aumento del numero dei
programmatori non e’ direttamente proporzionale all’aumento del
numero degli errori nel codice sorgente (errori che possono rendere
instabile un programma). La comunita’ dell’open source, che conta
ormai migliaia di aderenti in tutto il mondo, agisce, all’interno di
ogni singolo progetto di sviluppo, come un’unica entita’. Ma
l’organizzazione della comunita’ dell’open source e’ una struttura
completamente esplicita, il cui funzionamento non ha nessuna analogia
biologica specifica (la metafora usata dagli studiosi dei programmi
open source e’ quella del bazar, contrapposto alla cattedrale della
produzione commerciale del software; cfr. Eric S. Raymond, La
cattedrale e il bazaar, http://www.apogeonline.com/openpress/doc/cathedral.html).
[Criterio di maggioranza e controllo dell’uso della tecnica]
2. Il nostro problema e’ il fatto che ogni nuova scoperta
scientifica, banalmente, porta con sé usi buoni ed usi cattivi.
Proprio perché la tecnologia e’ distaccata dalla ricerca non e’
possibile prevedere le ricadute tecnologie di una particolare
scoperta. Non tutti i casi sono semplici, dal punto di vista morale,
come il caso degli scienziati di Los Alamos.
Inoltre, come rileva nel suo scritto Giuseppe O. Longo, anche i
prodotti tecnologici sono diventati cosi’ complessi internamente e
semplici esternamente, che degli utensili, delle protasi, degli
artefatti di ultima generazione alla maggior parte degli utilizzatori
sfugge non solo il funzionamento, ma anche gli scopi e gli usi
essenziali. Si pensi all’esempio della rete Internet: essa puo’
essere sia il mezzo della diffusione del sapere (il mezzo per la
creazione di una Nuova Atlantide globale) sia il mezzo di controllo
sociale totale (si veda il controllo che l’apparato tecnico-giuridico
voluto dal governo inglese impone ai sudditi di sua maesta’: www.statewatch.org/news/2003/jan/11ukteltap.htm); ma qual e’
lo scopo essenziale per il quale e’ stata progettata? (un esempio per
chiarire l’idea di scopo essenziale: anche se posso usare un martello
come un’arma, e’ chiaro che il martello e’ stato progettato come
strumento per piantare chiodi.)
Se, da una parte, siamo tutti d’accordo che la scienza e la
tecnologia sono troppo importanti nella quotidiana vita di ciascuno
di noi per lasciare tutte le decisioni esclusivamente in mano agli
scienziati, l’alternativa proposta da Giuseppe O. Longo non mi
convince fino in fondo. Non mi sembra che l’introduzione di sistemi
di decisione maggioritaria possa in effetti risolvere il problema.
Intendo mostrare due esempi in cui, secondo me, i meccanismi di
decisione maggioritaria sull’uso di tecnologie mature, ha portato, in
un caso, e portera’, in un altro, a decisioni fondate su di un
insieme di credenze insufficiente.
2.1. Il primo esempio che vorrei portare, e’ il referendum
sull’abolizione del nucleare, approvato in Italia all’indomani
dell’incidente di Chernobyl: il 26 aprile 1986 durante un intervento
di manutenzione ordinaria esplode il reattore numero 4 della centrale
nucleare di Chernobyl. L’8 e il 9 novembre del 1987 si svolge in
Italia il referendum per l’abolizione del nucleare. Il risultato,
sull’onda di quanto successo poco piu’ di un anno, prima e’ scontato
e quasi plebiscitario: va a votare il 65,1 % degli italiani; l’ 80,6
% dice no alla costruzione di centrali nucleari in Italia; il 71,9 %
vota per il divieto di partecipazioni dell’Enel a impianti nucleari
all’estero; il 79,7 dice no ai contributi verso gli enti locali che
ospitano centrali nucleari. Come conseguenza vengono chiuse tutte le
centrali nucleari italiane ed inizia il loro smantellamento (che
durera’ circa altri 20 anni, durante i quali continueremo a corre un
rischio di inquinamento radioattivo : cfr. l’articolo della
giornalista Milena Gabanelli, Radioattivita’ di stato: www.report.rai.it/2liv.asp?s=52 )
La centrale di Crey Malville, si trova in Francia, a poche centinaia
di chilometri dal confine con l’Italia (in Francia sono attivi 58
reattori nucleari, funzionanti in 19 diverse localita’: Societé
Française d’Énergie Nucléaire, www.sfen.org ). Il reattore di Crey
Malville non e’ un semplice reattore raffreddato ad acqua, ma un
“superphenix”, ossia e’ raffreddato con sodio (qui http://isnwww.in2p3.fr/reacteurs-hybrides/sfp/superphenix.html, a
cura dell’Institut de Sciences Nucléaires di Grenoble, potete trovare
una spiegazione tecnica di come funzioni un reattore Superphenix).
Dall’angolo di mondo che e’ l’Italia, e’ paradossale che spesso
usiamo l’energia elettrica importata da impianti nucleari francesi.
La Francia produce il 74% dell’energia elettrica con il nucleare e,
dei 355.874 milioni di kWh prodotti, ne esporta 58.533 milioni. In
Italia, importiamo il 10% del nostro fabbisogno di energia elettrica
dalla Francia.
Secondo gli ecologisti francesi ( www.greenpeace.fr ), un guasto, non
gia’ al reattore, ma all’impianto di raffreddamento con la diffusione
nell’ambiente del sodio avrebbe conseguenze disastrose per l’ambiente
e per gli esseri umani. E le Alpi non servirebbero da scudo alla
popolazione del Nord Italia.
[Bioetica e calcolo del rischio]
2.2. Il secondo esempio che vorrei portare e’ diverso. Nel primo
esempio, credo si possa sostenere che il calcolo del rischio
dell’elettore italiano sia stato quantomeno falsato in parte
dall’emotivita’, in parte dalla scarsa informazione. Nel secondo
esempio, vorrei mettere in evidenza la difficolta’ anche per i
rappresenti legittimamente eletti (e che quindi hanno ben studiato
una questione prima di proporre una sua regolamentazione giuridica),
ad affrontare un problema in modo corretto dal punto di vista
semplicemente metodologico.
Si legge nella relazione sul disegno di legge del Senato n. 1837,
“Norme in materia di procreazione medicalmente assistita”: (il cui
testo completo potete trovarlo qui:
www.senato.it/bgt/ShowDoc.asp?leg=14&id=00050708&tipodoc=Ddlpres&modo=PRO
DUZIONE ):
… dopo decenni di ricorso su vasta scala alle pratiche di
fecondazione assistita eterologa, nessuna ricerca empirica ha potuto
mettere in evidenza danni o anche solo problemi apprezzabili, vuoi di
natura fisiologica, vuoi di natura psicologica, a carico dei nati
mediante il ricorso a tali tecniche.
Date queste premesse quale potra’ essere secondo voi la proposta?
Ecco la risposta del legislatore:
La facolta’ di ricorrere a tecniche di fecondazione assistita di tipo
eterologo e’ peraltro consentita nel presente disegno di legge solo
quando essa rappresenti l’unico trattamento possibile, nel rispetto
del principio di gradualita’ e di adeguatezza degli interventi
terapeutici nella cura della sterilita’.
La domanda che, penso, ciascuno di noi vorrebbe porgere ai promotori
di questa legge e’ questa: perché se nessuna ricerca empirica ha
potuto rilevare l’insorgenza di qualche genere di problemi a bimbi
nati con la fecondazione assistita, essa deve in ogni caso essere
considerata esclusivamente una cura alla sterilita’? (Una domanda che
mi sono sempre posto: perché se un individuo e’, “per natura”,
sterile deve avere comunque il diritto di trasmettere il proprio
patrimonio genetico? Ma mi rendo conto che questo e’ un altro
problema.)
Io sinceramente non so come sia possibile regolare le delicate
questioni bioetica; quello che pero’ mi sento tranquillamente di
poter affermare e’ che un progetto di legge come il S.1837, dietro
una apparente rispetto della pluralita’ della posizioni, veicola una
ben precisa idea di uomo e di societa’.
[L’uso invalso del termine “scienza”]
3. Vorrei concludere riprendendo un’osservazione di Giuseppe Longo
sull’uso del termine ‘scienza’ e conferma la sua tesi secondo la
quale la scienza tende ad avere sempre piu’ spesso venature
messianiche. La parola ‘scienza’ imperversa nell’Universita’: non si
studia piu’ “giurisprudenza”, ma “scienze giuridiche” o “scienze per
operatori dei servizi giuridici”; e poi: “scienze antropologiche ed
etnologiche”, “scienze della formazione”, “scienza dalla
comunicazione”, “scienza dell’educazione”, “scienze e tecniche
psicologiche”, “scienze del turismo e comunita’ locale”. Fino a
quello che hai tempi in cui mi sono laureato io (e, anche se e’
successo nel secolo scorso, non sono passati neppure dieci anni)
sarebbe stato, se non inconcepibile, quanto meno strano: non si
studia piu’ “filosofia”, ma “scienze filosofiche”.
3 From:
Giovanni Maria Borrello <borrello@f…>
Date: Mon Feb 10, 2003 2:43pm
Subject: Alcune informazioni
A tutti gli iscritti al Seminario e al Forum on-line “Progresso e responsabilità…”
———————–
Gentile iscritto/a al
Seminario e al Forum on-line su “Progresso e responsabilità: il passaggio
dalla scienza alla tecnologia”,
se desidera che i prossimi interventi NON vengano più recapitati nella Sua
casella di posta elettronica, è sufficiente che invii un’email, anche
vuota, a fgb-forum-nomail@yahoogroups.com usando come mittente l’indirizzo
email con cui è iscritto/a.
Fino al 15 febbraio (data di chiusura del Seminario e del Forum) potrà
comunque leggere gli interventi sul Web, all’indirizzo:
<http://groups.yahoo.com/messages/fgb-forum>.
Dopo il 15 febbraio tutti gli interventi saranno pubblicati nel sito della
Fondazione (<http://www.fondazionebassetti.org>).
Tengo a precisarLe che la Sua iscrizione si riferisce soltanto al periodo
di apertura del Seminario e del Forum, dopodiché il Suo indirizzo email
sarà cancellato.
Come già sa, per intervenire alla discussione basta che Lei usi il Suo
programma di posta elettronica o la Sua Web Mail, spedendo l’intervento a:
fgb-forum@yahoogroups.com
(e ricordando di usare come mittente l’indirizzo email con il quale è
iscritto/a)
Il coordinatore del dibattito, Corrado Del Bò, può essere contattato
all’indirizzo delbo@f…
Lei può comunque controllare la Sua iscrizione e personalizzarne il
funzionamento in modo completo e autonomo anche via email:
To unsubscribe from fgb-forum, send a blank message to:
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Cordiali saluti
Gian Maria Borrello
4 From:
sylvie coyaud <scoyaud@p…>
Date: Mon Feb 10, 2003 11:09pm
Subject: Un quiz per G.O.Longo
A Giuseppe Longo professore, vorrei fare da bastian contrario con un quiz,
e prego Giuseppe Longo romanziere, di non prenderlo troppo sul serio.
Il progresso è più contestato negli ultimi tempi che nei penultimi? O la
sua frase iniziale avrebbe potuto essere scritta in un giorno qualsiasi
degli ultimi quattro secoli (quattro, per convenzione occidentale)?
Nel primo Novecento la scienza era una? La crisi della fisica era condivisa
dalla biologia o dall’astronomia? La fede in leggi universali e stabili era
diffusa, o propagata da alcuni, mentre altri, al corrente della storia
della propria disciplina, le usavano come strumenti, comodi ma temporanei?
Meno studenti si iscrivono alle facoltà di scienze teoriche o applicate in
numero assoluto, come percentuale, rispetto a una moltiplicazione
dell’offerta? Forse vogliono un lavoro sicuro e redditizio e quello di
ricercatore non lo è?
(A proposito di ricerca pura, applicata, e rispettivi finanziamenti, deve
esserci un errore. La fisica e l’astrofisica sono esigenti. L’Istituto
nazionale di fisica nucleare si mangia il 70% del budget italiano per la
ricerca. Il telescopio spaziale Hubble è costato due volte il Genoma umano,
e, con la manutenzione, cinquecento volte la pecora Dolly. Al contrario
delle pecore clonate dopo, Hubble II costerà il doppio del primo. Viene sui
dieci miliardi di euro il collisore in cantiere al CERN di Ginevra, che
dovrebbe acchiappare l’ipotetico bosone di Higgs. Sui cinquanta il progetto
ITER. E neanche un brevetto in vista, accidenti.)
Riprendo col quiz.
Italia a parte, l’aumento dei finanziamenti statali è dovuto al lobbying
degli scienziati? O anche a guerre calde e fredde che li hanno resi
dipendenti dagli stati, invece che di accademie e università, per cui hanno
imparato a contrattare come altre categorie?
L’intelligenza artificiale è un prodotto – inteso anche come il risultato
di una somma o moltiplicazione – dell’intelligenza naturale? Esiste
qualcosa di artificiale? Oppure ogni artefatto è un prodotto della materia
che già si trova in natura (come noi, d’altronde)?
Bisogna opporsi all’insegnamento del creazionismo in nome di Darwin? O
perché la scelta di una pratica religiosa è un diritto individuale mentre
le scuole sono collettive? E se sono statali, non conviene che uno stato,
se democratico, eviti di privilegiare la Bibbia, interferendo con la
libertà di culto che riconosce ai cittadini?
L’impresa scientifica non è democratica; quella automobilistica lo è? E
quella artistica? Le teorie e le pratiche scientifiche sono per pochi; e le
altre produzioni intellettuali? Basta la bocca per rifarsi il Parsifal a casa?
E’ escluso che le innovazioni materiali e concettuali soddisfino desideri
comuni: di sapere, per esempio, o di potere o di libertà? Che i desideri ci
muovano e siano ribelli al principio di Jonas? L’auto uccide 8000 persone
all’anno in Italia, ne ferisce 50 mila: secondo lui, ci
rinunciamo?
Perché non provare a pensare che scienza e tecnologia sono del mondo così
come ce lo facciamo, non un mondo a sé con addetti simili a una casta
sacerdotale? Vogliono per sé ciò che vogliamo tutti: più bellezza, più
salute, ricchezza, fama, comfort, mobilità, sicurezza, libertà, piacere
ecc. costi quel che costi, o quasi. O c’è gente che non si auspica nulla
del genere?
—
sylvie coyaud
5 From:
sylvie coyaud <scoyaud@p…>
Date: Mon Feb 10, 2003 10:57pm
Subject: nota per Andrea Rossetti
At 07.24 10/02/03 +0100, you wrote:
3. Vorrei concludere riprendendo un’osservazione di Giuseppe Longo
>sull’uso del termine ‘scienza’ e conferma la sua tesi secondo la
>quale la scienza tende ad avere sempre piu’ spesso venature
>messianiche.
Se un idraulico si atteggia a messia su questioni che esulano dal
lavandino, non ci bada, vero? Quindi, mi dia retta che potrei essere sua
madre, non ci badi se lo fa un genetista, o qualunque autorità non fondata.
Uno scienziato può essere competente, e autorevole nel suo campo, e una
bestia per tutto il resto: Konrad Lorenz è stato filonazista.
Mi sa che quelle venature sono attribuite alla scienza da chi se l’immagina
disincarnata o ha interesse a spacciarla per tale o a vietarne l’ingresso.
E le sue incarnazioni disoneste ne approfittano.
sylvie c.
—
sylvie coyaud
6 From:
Dr. Saro Cola <sarocola@m…>
Date: Mon Feb 11, 2003 0:44am
Subject: Re: primo intervento
>Ma essere tecnofili non significa essere ciechi
No. Ma c’è il rischio di diventarlo…
>e’ molto probabile
>che il nostro attuale modello di sviluppo, di progresso, non sia
>esportabile al di fuori dell’occidente; e che, quindi, l’idea di
>progresso che noi, oggi, in occidente abbiamo debba modificarsi.
E’ molto probabile. Ma anche senza il ‘quindi’. Ci facciamo già benissimo del
male da soli, senza problemi di difficoltà di esportazione.
Non credo proprio che il professor Longo pensasse al fenomeno dell’open
source quando ha parlato di ‘creatura planetaria’. Il modello dell’open source
: quello sì che è difficilmente ‘esportabile’ . Checché ne vogliano pensare i
suoi sostenitori e i suoi elogiatori che ce lo raccontano come il modello di
sviluppo tecnologico futuro, non è affatto scontato che esso porti al ‘migliore
dei mondi possibili’, così comoe non è affatto inoppugnabile (anzi) che il
modello di sviluppo proprietario (Microsoft, per intenderci) sia destinato a
irrimediabilmente a soccombere perché porta in sè i germi della sconfitta.
Si potrebbero fornire ottimi esempi di come le cose funzionino più che bene
proprio all’interno dei lavori in equipe che comprendono piena segretezza
industriale (modello Venter, per capirci).
Le vere ragioni per sostenere il modello open source sarebbero altre: io dico
che la possibilità di analizzare il sorgente è il primo di questi. Chi ne
capisce l’importanza capisce anche perché è da considerarsi come motivo
primario. La capito molto bene, infatti, anche la stessa Microsoft, che infatti
sta cambiando policy in merito (‘disclosure’ dei sorgenti). A questo punto,
finiremmo off topic, anzi ci siamo già finiti. Quindi torno nei ranghi.
Riguardo alle fascinazioni generate dalla metafora del ‘bazar’ come modello
organizzativo… no comment. Basti pensare che, guarda un po, le
organizzazioni sul modello militare e verticistico appaiono vincenti a molti di
coloro che se ne intendono davvero di queste cose. Sono mica paglia migliaia di
anni spesi dall’uomo in analisi strategica del conflitto e nella messa a punto
di organizzazioni strutturate. Quanti esempi si potrebbero fare in proposito…
da Alessando Magno in poi, per non parlare dei Cinesi. Ma lasciamo perdere.
Nella stessa ottica il seguito del ragionamento di Rossetti (internet, il
martello)è di un’ ingenuità disarmante (probabilmente finge)
Saro Cola
—
Dr. Saro Cola
ML 1
sarocola@m…
7 From:
Giovanni Maria Borrello <borrello@f…>
Date: Tue Feb 11, 2003 10:37am
Subject: Tra scienza e libero arbitrio
A me questo articolo di Scalfari è piaciuto (L’Espresso attualmente in
edicola: n. 7, 13 febbraio 2003, p. 178).
GM Borrello
—————–
Nella versione on-line:
www.espressonline.it/ESW_articolo/0,2393,40490,00.html
—————–
[Articolo di Eugenio Scalfari]
IL VETRO SOFFIATO
Tra scienza e libero arbitrio
Eugenio Scalfari
Domenica 2 febbraio è stato pubblicato sulla “Repubblica” un mio articolo
che prendeva spunto dall’esplosione dello “Shuttle” in rientro dalla sua
missione nello spazio. Nell’articolo si parla del dominio che la tecnologia
esercita sulla conoscenza e dei condizionamenti ai quali quel dominio dà
luogo, anche con riferimento alle cosiddette “guerre tecnologiche” oggi più
che mai di attualità. Molte lettere mi sono arrivate in merito a quanto ho
scritto. Ne pubblico qui una di aperto dissenso che offre l’occasione per
tornare su un tema a mio avviso di grande peso nella storia delle idee e
che definirei nel “rapporto tra la tecnologia e il libero arbitrio”.
—
‘Mi lasci dire, egregio Scalfari, che ho trovato il suo articolo veramente
deprimente. Ne riporto la frase secondo me centrale. “L’esplosione dello
Shuttle ha colpito in pieno volto le certezze tecnologiche dell’Impero. Da
ieri pesa su tutti noi una nuova insicurezza, un’insicurezza in più tra le
tante che il mondo globale porta con sé. Ma questa è di qualità diversa
dalle altre perché attacca alla radice la struttura mentale sulla quale
abbiamo eretto i miracoli della modernità e alla quale abbiamo sacrificato
gran parte della nostra libertà di scelta e del nostro sentimento morale’.
Mi potrebbe spiegare a quale libertà di scelta lei o io o chiunque altro ha
rinunciato a causa di questi miracoli della modernità?
Se lei intende dire che siamo schiavi della televisione, dell’automobile
(ma allora metta dentro corrente elettrica, riscaldamento per le
abitazioni, cure mediche…) fino a che punto tutto ciò interagisce con la
nostra libertà di scelta? Libertà di scelta è anche il fatto che possiamo
liberarcene quando vogliamo; conosco docenti universitari che non hanno
nemmeno la patente o che si sono sempre rifiutati di comprare televisori,
siamo liberi di scegliere se accettare o meno queste tecnologie.
Oppure lei si riferisce al fatto che per inseguire queste diavolerie siamo
disposti a scendere a compromessi con noi stessi? Allora la colpa, sempre
che possa essere definita una colpa, è nella natura umana perché l’uomo ha
sempre cercato di migliorare il suo benessere, dalla preistoria ad oggi e
continuerà a farlo.
Il fatto è che tanta gente ha una sensazione distorta della realtà; per
perfezione tecnologica si intende il livello di precisione e sicurezza; ad
ogni incidente di questo tipo si ripete che la sicurezza assoluta non
esisterà mai, possiamo alzarne il livello con sistemi di controllo
perfezionati, possiamo progettare oggetti che resisteranno a sforzi
quadrupli di quelli che dovranno sopportare normalmente, ma anche questo
non è sinonimo di sicurezza. Oppure lei intendeva dire qualcos’altro quando
ha parlato di libertà sacrificate per la modernità? In particolare mi
potrebbe fare un esempio di “sentimento morale” sacrificato? O forse per
sentimento morale sacrificato posso prendere come caso il suo? Lei parte
dalla morte di sette persone che stavano tornando dalle loro ricerche nello
spazio per parlare del mondo dei potenti contro un mondo dei poveri, del
terrorismo e fare la sua bella ramanzina politica sulle diseguaglianze
sociali e via dicendo. In questo incidente era evidente che il terrorismo
non c’entrava niente, non bisogna essere esperti militari per sapere che
non esistono missili terra-aria in grado di arrivare a quote e velocità da
Shuttle. Lei comunque se ne è proprio fregato e ha usato la morte di queste
persone per tirare fuori la sua bella “morale”. Ha usato questo incidente
mortale per fare una ramanzina su temi che su questo episodio non c’entrano
niente. Gente come lei si merita di avere Berlusconi come capo di governo,
Bush presidente degli Stati Uniti, Saddam Hussein in Iraq, persone che
hanno un calibro morale adeguato al suo. Spero di non aver scritto nulla di
realmente offensivo ma che lei abbia capito quanto il suo articolo mi abbia
estremamente indignato’.
Edoardo Sassone
—
Egregio signor Sassone,
lei spera di non aver scritto nulla di offensivo, in realtà non è così. Si
rilegga il suo testo e si accorgerà di essere stato molto pesante; la
divergenza dei pensieri non dovrebbe autorizzare l’insulto. Ma veniamo al
merito.
Il discorso sulla tecnologia è molto complesso. Nella storia delle idee
comincia in modo esplicito con Rousseau e poi, passando per Nietzsche e
Heidegger, arriva fino a Severino e a Umberto Galimberti.
Dico questo soltanto per rammentarle che è difficile affrontarlo e
liquidarlo in poche righe e ciò vale per la sua lettera e vale anche per il
mio articolo che dava – evidentemente sbagliando – come cosa nota una tesi
che evidentemente e legittimamente non tutti conoscono.
La tesi in breve è questa: l’idea di sottomettere la natura ai nostri
bisogni fa tutt’uno con una delle pulsioni più importanti della natura
umana, la pulsione verso la conoscenza. Di qui il mito di Prometeo che ruba
il fuoco agli dei o di Odisseo che varca le Colonne d’Ercole. La libertà di
scelta a questo punto non è ancora in questione.
Diventa invece una questione essenziale nel momento in cui la tecnologia,
per accumulazioni successive che cambiano la qualità del rapporto con
l’uomo, diventa da strumento dell’uomo a padrone dell’uomo. L’uomo cioè
degrada a strumento della tecnologia la quale gli impone comportamenti che
sfuggono alla stessa conoscenza individuale e si pongono inconsapevolmente
al servizio dello sviluppo tecnologico in quanto tale e indipendentemente
da finalità.
La storia della scoperta della scissione dell’atomo, della costruzione
della bomba atomica e del suo uso possono esemplificare molto bene questo
percorso. Da una teoria puramente conoscitiva come quella della relatività
generale di Einstein si arriva alla scissione dell’atomo e di qui alle
successive e tremende applicazioni indotte dal Potere in quanto tale.
Nonostante l’opposizione degli scienziati che erano arrivati a quelle
scoperte ma che si dichiararono quasi unanimemente contro la loro
applicazione, l’applicazione ci fu e fu pagata dalle centinaia di migliaia
di morti di Hiroshima e Nagasaki.
Lei potrà obiettare che anche in quel caso la libera scelta (di Truman) fu
all’origine di quanto avvenne. Certo, il dito che spinge il bottone è
sempre umano. Ma le opzioni tecnologiche condizionano quel dito e ne
determinano gli effetti. Questo è il senso che sta dietro al problema. Si
può ovviamente dissentire e sostenere l’autonomia della conoscenza.
Ma anche la conoscenza risulta sempre più guidata dalle opzioni che la
tecnologia le propone: lo scienziato che indaga sulla natura non affronta
il suo viaggio conoscitivo privo di pre-giudizi; ha in testa fin
dall’inizio una tesi che gli è stata offerta dalle scoperte precedenti, ne
cerca sperimentalmente la conferma e inevitabilmente la conferma la trova
nella soggettività della sua ricerca. Ne risulta che la teoria e le
successive applicazioni sono guidate da finalità pregiudiziali le quali si
trasmettono come ulteriori opzioni alle ricerche successive.
Anche questa mia lunga risposta è probabilmente insufficiente a rendere
chiaro il meccanismo attraverso il quale l’accumulazione di tecnologia ha
invertito il rapporto tra libero arbitrio e servo arbitrio; ma spero almeno
che le abbia insinuato il dubbio che io non sia propriamente un imbecille
come lei mi ritiene.
——-
8 From:
Giovanni Maria Borrello <borrello@f…>
Date: Tue Feb 11, 2003 10:46am
Subject: Re: Re: primo intervento
A: Dr. Saro Cola, via Forum FGB
——————————-
Scusi l’ardire, ma… Lei dove lavora?
GM Borrello
9 From:
Andrea Rossetti <andrea.rossetti@u…>
Date: Tue Feb 11, 2003 2:00pm
Subject: Re: nota per Andrea Rossetti
At 22:57 +0100 10-02-2003, sylvie coyaud ha scritto:
>Se un idraulico si atteggia a messia su questioni che esulano dal
>lavandino, non ci bada, vero? Quindi, mi dia retta che potrei essere sua
>madre, non ci badi se lo fa un genetista, o qualunque autorità non fondata.
>Uno scienziato può essere competente, e autorevole nel suo campo, e una
>bestia per tutto il resto: Konrad Lorenz è stato filonazista.
[Il “mi dia retta che sono uno scienziato”]
e’ un problema di credibilita’: se il mio idraulico vede la madonna
piangere in oltrepo’, la gente si mette a ridere e tira avanti. se la
madonna la vede un professore di fisica le cose cambiano e non poco:
finisce su qualche giornale come “oggi”, lo chiamano pure ad alcune
trasmissioni pseudo-scienfiche come “misteri”, e, se e’ fortunato, lo
invitano al ” mauriziocostanzoscio’ “, . l’essere uno scienziato gli
fornisce una sorta di aura di infallibita’, cio’ che dice (*tutto*
cio’ che dice) acquista il marchio della scientificita’ (il messaggio
implicito e’ “mi dia rette che sono uno scienziato – e so quello che
dico” 🙂
AR
10 From:
marta mura <marta_mura@y…>
Date: Tue Feb 11, 2003 2:55pm
Subject: re:primo intervento
premetto che sono ancora studente,
navigo nella mia inesperienza,
quindi prendete quello che scriverò come il pensiero
di chi non ha ancora un bagaglio culturale ardito come
il vostro…
[“Mezzanotte e cinque a Bohpal”]
tecnologia, inevitabile ormai scinderla dalla nostra
vita quotidiana, è ipocrita chi non ammette di esserne
“succube” almeno in parte. per me il problema si
riconduce a questioni di responsabilità. mi viene in
mente “mezzanotte e cinque a Bohpal”, saggio – romanzo
sull’esplosione, nel dicembre ottantaquattro, della
fabbrica più tecnolgica del momento, quella che
produceva Sevin, pesticida per la terra. l’esplosione
è stata causata sostanzialmente da “un taglio di
costi”, fu annunciata ben tre anni prima, ma nessuno
volle badarci. ora, che l’Italia ha il rifiutato il
nucleare e che la Francia ce lo propini sotto il naso,
è sicuramente qualcosa di inquietante. ma cosa avremmo
dovuto fare? fare finta di niente, tanto il rischio
c’è comunque? forse era il caso che si riconsiderasse
il problema energia e cercare alternative, più pulite,
meno pericolose. perchè non lo si fa? semplicemente
non conviene. sono anni che gli ingenieri del Mobil
girano l’Europa dimostrando che il motore delle auto
potenzialmente funziona persino ad acqua e noi ci
troviamo ancora a giocare alle targhe alterne durante
la settimana. mi rifiuto di credere che la tecnologia
di oggi non sia in grado di produrre senza
danneggiare. il problema lo ripeto, è una questione di
costi e di menefreghismo generale. purtroppo, gli
effetti che si producono con l’inquinamento ecc..
all’uomo medio appaiono lontani quindi, “non è
necessario porsi il problema”. “chi se ne frega se tra
duecento anni ci sarà un aumento del livello del mare
tale da comportare danni enormi, tanto non esisterò
più… ” la nostra civiltà si ritiene civile, e poi si
fa fatica a buttare il rifiuto nel cestino della
spazzatura. a Milano, la raccolta differenziata dei
rifiuti è stata un insuccesso enorme, perchè erano più
i costi relativi alla divisione dei rifiuti fatta dai
cittadini in modo sbagliato che i costi per il
riciclo. è l’educazione che è sbagliata. questo perchè
noi siamo la generazione dell’usa e getta, tipica del
nuovo ragionamento tecnologico.
ecco perchè , secondo
me la decisione maggioritaria non può essere
accolta.ci hanno abituato all’irresponsabilità.
per quanto riguarda la scienza, io nella mia modesta
opinione credo sia inscindibile dalla tecnologia nel
senso che ne’ è alla base. se oggi si studiano
“scienze giuridiche” è più vero che dire “studio
giurisprudenza”, in fondo io, più studio e più mi
rendo conto di non sapere, se mi laureerò non per
questo avrò finito di dovere apprendere. per ora
studiamo le basi, così come il cardiologo che ti
impianta il cuore d’acciaio deve prima averne capito
il funzionamento, e soprattutto deve saperlo fare
manualmente prima di operare guardando lo schermo del
televisore. prima la base, poi la tecnolgia. spero di
essere stata chiara…
due precisazioni:
credo che l’inseminazione eterologa venga considerata
solo come cura per la sterilità perchè è una questione
etica. il nostro Paese, evidentemente, non si ritiene
ancora “pronto” per questo tipo di pratiche ( ricordo
che la componente cattolica è ancora uno dei paletti
della nostra società). poi che questo sia discutibile
o meno, è un’altro discorso.
ancora, mi riesce difficile credere che la tecnolgia
sia alla base della democrazia. il tutto sta nel
chiedersi, forse, cosa sia la democrazia stessa.
per quanto riguarda infine Lorenz, cito la teoria del
Martello ( o quella della televisione di Macluhann, è
lo stesso..), non importa se Lorenz sia filonazista.
onestamente, quando ho letto il suo libro pensando a
un filonazista, piuttosto l’ho letto pensando allo
scopritore dell’imprinting. sta a noi fare dei
pensieri altrui qualcosa di utile per fare lavorare il
nostro di cervello, e quindi renderci coscienza
critica. anche Nietzche ( si scrive così?) ha dato
l’ispirazione a Hitler, eppure ciò non toglie che sia
stato un grande filosofo…
ciò che facciamo degli strumenti che abbiamo, secondo
me, dipende solo da noi.
mi scuso per la mia ingenuità ( o ignoranza, come
chiamarla si voglia)..
11 From:
longo@u…
Date: Tue Feb 11, 2003 6:23pm
Subject: seminario FGB
cari amici in rete,
ecco una prima risposta alle osservazioni di andrea rossetti: gli dò la
precedenza perché è il discussore ufficiale, ma ringrazio tutti quanti sono
intervenuti e nei prossimi giorni risponderò anche a loro
con viva cordialità
giuseppe o longo
Forum Fondazione Bassetti
11 febbraio 2003
Prima risposta ad Andrea Rossetti La perentoria dichiarazione iniziale di Andrea Rossetti (‘Io sono un
tecnofilo’) ha il merito di chiarire bene la sua posizione. Come il suo
bisnonno, anche mia nonna e prima di lei i suoi avi per molte generazioni
hanno vissuto una vita grama rispetto a quella che ci è concessa oggi. Ma
osservo che:
1) In un sistema complesso ogni variabile, anche la più benefica, oltre una
certa soglia diventa tossica (le soglie di tossicità delle diverse
variabili sono difficili da individuare, ma il sistema le conosce bene e le
rivela con il suo comportamento: come diceva Goethe, la natura è più
geniale del mio genio, e anche senza conoscere o usare le equazioni della
meccanica il sistema universo sa benissimo raggiungere con precisione il
suo stato successivo). Quindi anche la tecnologia, oltre una certa soglia,
diventa tossica e di questa sua tossicità molti (specie filosofi, ma non
solo) hanno parlato in modo eloquente: forse, si può obbiettare, il loro
parlare di tossicità tecnologica è un effetto perverso proprio di quella
tossicità, ma il fatto resta (come di chi parlasse male del vino si
dicesse: non ascoltatelo, tanto è ubriaco).
2) Le condizioni di vita vanno giudicate evitando gli anacronismi e le
semplificazioni eccessive: il giudizio che diamo noi delle condizioni di
vita dei nonni si basa sul presupposto
che noi conosciamo le loro condizioni come conosciamo le nostre, con la
stessa evidenza.
E’ difficile in realtà giudicare come un altro vive in prima persona la
propria situazione (inoltre la situazione è cointessuta e contestuale e non
può essere ridotta alle sue singole componenti: ricchezza, benessere
materiale, soddisfazioni sessuali, gratificazioni nel lavoro, stato di
salute…). La rassegnazione dei nonni davanti alle carestie, alla
mortalità infantile, alle malattie, al freddo, alla fatica fisica ecc
potrebbe indicare un diverso atteggiamento di fondo nei confronti di una
condizione umana che avvertivano quasi come fatale.
Quindi noi giudichiamo la loro situazione con i nostri parametri,
approfittando dell’inevitabile dissimmetria dovuta alla freccia del tempo.
Essi accettavano come “dati di fatto” molte situazioni che noi sappiamo
essere modificabili e di fatto essere state modificate nel corso del tempo.
Per noi quelle situazioni sarebbero intollerabili, proprio perché noi
veniamo dopo di loro. (Si pensi agli uomini di un prossimo futuro, come
potrebbero giudicare miserevoli le nostre condizioni, e per motivi che noi
neppure ci sogniamo, e viceversa come gli uomini delle caverne non
s’immaginavano neppure che potessero esistere l’acqua corrente o le
finestre coi vetri).
Insomma i nonni non conoscevano la nostra situazione, ed è proprio il
confronto che dà il senso dello star bene o dello star male (gli uomini non
vogliono guadagnare molto, vogliono guadagnare più del loro vicino di
casa). Solo un confronto consente di misurare la differenza: forse i nostri
nonni si sentivano già fortunati rispetto ai loro nonni, ma non potevano
confrontarsi con noi.
Nota: queste generalizzazioni (noi, i nostri antenati o nonni, la gente, si
crede, crediamo… ) sono insopportabili, fuorvianti, assurde ecc, ma non
vedo come le si possa evitare se non rendendo il discorso tanto pesante e
contorto da risultare ridicolo oltre che inefficace. Chiedo dunque scusa
delle semplificazioni brutali, dei colpi d’ascia e della scarsa cautela. Ma
questo vale più o meno per tutti quando si usa la lingua naturale (e non
vogliamo certo introdurre un formalismo per esclamare con Leibinz
calculemus!).
Il rapporto tra tecnologia e democrazia è molto delicato: la scienza si è
sempre dichiarata democratica, ma nell’articolo ho cercato di argomentare
come di fatto non lo sia. Oggi è la tecnologia che si propone come base
della democrazia: certo l’accesso ai dispositivi e strumenti tecnici è più
facile che l’accesso a una scienza che diventa sempre più astrusa e
specialistica. Ma questa è democrazia? Il rapporto tra democrazia,
paternalismo, istruzione, laissez-faire ecc. è troppo complesso, e non mi
sento di affrontarlo. Forse la democrazia ateniese è stata un unicum
storico e non possiamo illuderci di riprodurla solo perché usiamo la stessa
parola… Forse la schiavitù non ne è stato il presupposto ma solo
l’antecedente storico… Forse la tecnologia non porterà affatto a uno
sviluppo della democrazia, ma a una delega rappresentativa ancora più
spinta, addirittura oligrachica o tirannica, mediata dalla delega alle
macchine di molte nostre attività e responsabilità…
Forse è proprio la libertà di comunicazione e di informazione che la
tecnologia consente ad essere la peggior nemica della democrazia, perché
offre, con la libera palestra delle opinioni, un eccellente sostituto
all’azione… E poi quando la democrazia è usata per prendere qualche
decisione a maggioranza si pretende che la decisione sia anche razionale!
Forse democrazioa e razionalità fanno a pugni: in genere le persone non
sono razionali.
Il nostro tempo, rispetto a un passato anche recente, si caratterizza per
una smodata propensione alle previsioni più che alle commemorazioni: arte
difficile, ma utile in tempi di grande accelerazione. I tecnofili (e i loro
cantori) ci presentano un futuro invariabilmente migliore del presente
(tanto che in questo presente non ci vuol vivere nessuno, e si tende a
bruciare la vita in un’attessa spasmodica di un futuro che diventa subito
passato, bruciandosi anch’esso). Che questa visione migliorativa sia una
tendenza umana lo conferma il venditore di almanacchi leopardiano: ‘credete
voi che l’anno prossimo sarà migliore del passato?’ ‘illustrissimo sì, e di
molto’ (parafraso, non ho il testo sotto mano). E’ in questa costante
tensione verso il miglioramento progressivo si manifesta l’aspetto
miracolistico e mitopoietico della tecnologia: cadute le ideologie terrene
e ultraterrene, bisogna pure che qualcuno ci prometta qualcosa e ci illuda,
pena l’angoscia.
Ecco che, se gli scienziati sono troppo cauti e non vogliono rilasciare
indulgenti promesse (ma oggi tendono a farlo, anche per fare quattrini),
volgiamo loro le spalle e corriamo dai tecnologi, oppure dai cartomanti,
dai ciarlatani, dagli imbonitori (il programma ‘mi manda Rai3’ è un
campionario delle conseguenze tragicomiche di questa tendenza).
Veniamo ora all’intelligenza collettiva o connettiva della Rete. Si tratta
di un fenomeno assai più vasto, sfumato e sfuggente di quanto non sia il
fenomeno del software ‘open source’ (come ha intuito Saro Cola). Per
chiarire (sempre a colpi d’ascia): ritengo che l’intelligenza sia un
fenomeno sistemico e diacronico, cioè che nasca, si sviluppi e si manifesti
in un sistema articolato, costituito da varie componenti in grado di
comunicare tra loro e con altri sistemi; inoltre ha uno sviluppo storico
(evolutivo) che si sovrappone allo sviluppo storico del suo sistema
supporto. Sono proprio queste caratteristiche diacroniche e sistemiche
dell’intelligenza umana (si fa per approssimare: di che uomo? ecc) che
costituiscono la base per le critiche più interessanti all’intelligenza
artificiale di tipo funzionalistico, che nella sua versione forte,
considera la macchina intelligente di per sé, in autonomia rispetto al
programmatore e quindi al resto del mondo (non si può parlare
d’intelligenza della macchina se non con riferimento al sistema
macchina-programmatore-resto del mondo, come non si può parlare
d’intelligenza del cervello, ma solo del complesso cervello-titolare del
cervello-mondo).
Se si accetta questo punto di vista (io l’accetto), allora non vi è luogo
più plausibile della Rete per la nascita di un’intelligenza basata sui
processi sistemici ed evolutivi della comunicazione: con in più la
caratteristica che alcune delle sue componenti (gli esseri umani) sono già
di per sé intelligenti. I modi e le forme di questa intelligenza emergente
sono per ora oggetto di congettura. Del resto questa tendenza alla
formazione di un’intelligenza connettiva fa parte di quel grande processo
di simbiosi tra l’uomo e la tecnologia di cui ormai parecchi si occupano e
che ci offre molti episodi di emergenza funzionale. Per offrire un
parallelo: Marvin Minsky ha tentato di dimostrare (con abilità, ma
riuscendovi solo in parte) che l’intelligenza potrebbe scaturire
dall’interazione comunicativa gerarchica e organizzata tra componenti non
intelligenti (se poi qualche componente, come nella Rete, fosse già di per
sé intelligente, forse ciò aumenterebbe le probabilità di riuscita).
Quanto all’uso ‘improprio’ della tecnologia: oggi i dispositivi tecnologici
non sono semplici strumenti o macchine ben definite, sono veri e propri
sistemi articolati e tentacolari, che spesso interagiscono in modo fine con
altri sistemi (naturali o costruiti), co-evolvendosi con quelli (vedi i
prodotti delle biotecnologie). Dunque la complessità sistemica ed evolutiva
è una caratteristica di questi dispositivi. Ciò comporta che la nozione di
‘progettazione finalistica’ indirizzata a un uso perda un po’ della sua
evidenza. Se il fine del martello è abbastanza chiaro (bisognerebbe vederne
però le forme e gli usi storici o preistorici, anche se sono quasi certo
che i martelli hanno piantato più chiodi di quanto non abbiano ammaccato
crani), meno chiaro è il fine della radio. E anche qui l’analisi storica ci
può aiutare. Marconi l’aveva costruita senza avere in mente, all’inizio, un
uso specifico: solo in corso d’opera definì quest’uso e immaginò il suo
apparecchio come un ‘telegrafo senza fili’.
Ma il suo inconveniente era che chiunque avesse un ricevitore poteva
sentire la conversazione tra i due interlocutori: questo grave ‘difetto’
fece pronosticare ad alcuni esperti che la radio non avrebbe mai avuto una
grande diffusione. La storia dimostrò che il fine progettuale era
inadeguato alle caratteristiche del dispositivo, e la radio s’impose come
mezzo di diffusione ‘circolare’. La complessità dei sistemi tecnologici ha
un peso cospicuo sulla loro progettabilità d’uso: gli usi possono essere
molteplici e diversi da quelli voluti (è una sorta di ex-attamento). Ciò
vale pin particolare per un sistema complesso e poliedrico come Internet, i
cui usi sono difficili da prescrivere (e da proscrivere). Nell’interazione
con la società che l’adotta, una tecnologia sviluppa tutte le sue
potenzialità, che dunque si vedono solo a posteriori. E ciò nel bene e nel
male (con riferimento a un insieme di valori particolari): chi predica che
la televisione è una cattiva maestra e che bisognerebbe usarla ‘meglio’
forse non ha capito che “questa è la televisione, baby: signori, la
televisione è questa (spazzatura), e gli usi ‘nobili’ sono minoritari”
(purtroppo, dico io e non solo io, ma non lo dicono tutti).
Un’osservazione a proposito delle decisioni maggioritarie. Andrea Rossetti
lamenta che certe decisioni vengono prese sulla base dell’emotività e con
un bagaglio di informazione troppo scarso. Quanto al bagaglio:
l’informazione è infinita e le decisioni vanno prese in tempi finiti
(spesso brevi). Perciò a un certo punto la raccolta delle informazioni va
troncata: quando, a che punto, chi lo decide? E poi l’informazione sta
nell’orecchio del ricevente, non nella bocca dell’emittente: ciascuno
interpreta la ‘stessa’ informazione a suo modo (in base alle sue capacità,
conoscenze, storia personale, convinzioni ideologiche, scopi, interessi…
ma anche supponendo in tutti una buona fede totale e assoluta le
interpretazioni possono differire e di fatto differiscono). Perciò ciascuno
sulla base delle ‘stesse’ informazioni prende decisioni che possono
differire dalle decisioni degli altri. Ciò accade anche fra i tecnici più
preparati e onesti. Se si aggiunge che il sistema società è molto complesso
e variegato, si capisce che l’applicazione del metodo maggioritario porti
di sicuro a decisioni discutibili (ma quando si dice ‘discutibili’ si
sottindende un soggetto capace o in diritto di metterle in discussione: si
faccia il nome di questo soggetto). E quale sarebbe l’alternativa? La
delega ai tecnici, agli esperti: che proprio perché sono tali darebbero
alla soluzione un’impronta esclusivamente (e forse tragicamente) tecnica.
Quanto all’emozione: le emozioni sono un fatto e come tutti i fatti vanno
accettate e introdotte nel quadro, altrimenti il quadro s’impoverisce
troppo e fornisce un ‘modello di gente’ assolutamente lontano dalla gente.
Del resto senza emozioni il mondo sarebbe ben diverso da quello che è,
forse meno attraente… certo più monotono.
E’ vero: di fronte a certi episodi è forte la tentazione di esclamare: come
sarebbe bella la società se non ci fossero le persone (l’università senza
gli studenti, gli ospedali senza i pazienti…)! Ma v’immaginate la noia di
aver a che fare con i giocatori razionali di von Neumann o con i
calcolatori leibinziani?
Mi cito:
‘Nello stesso momento molti uomini e molte donne camminano, mangiano
qualcosa, bevono, parlano. Alcuni, pochi vista l’ora, fanno l’amore o
dormono, altri sono a letto ammalati, parecchi sono al mare dove nuotano,
si bagnano o semplicemente prendono il sole. Altri ancora sono in macchina
o in autobus, o salgono in treno, vendono o comprano qualcosa, leggono
libri o giornali, s’incontrano per strada e si salutano, fermandosi a
scambiare qualche parola o impegni di prossime visite e telefonate,
esplicano insomma una vasta e differenziata attività, difficile da
esprimere con una formula riassuntiva e altrettanto difficile forse da
giustificare razionalmente, un’attività in gran parte gratuita e superflua,
che fornisce benefici e soddisfazioni marginali e certo non proporzionati
all’impegno profuso, ma che non si potrebbe interrompere e neppure ridurre
di tanto se non con grave nocumento di qualcosa di imponderabile ma
sostanziale. Questo qualcosa si potrebbe, senza esagerare troppo,
identificare con la natura umana, o meglio con il funzionamento
dell’umanità. Come se questa complicata ed eterogenea macchina, l’umanità,
per produrre quel po’ che produce, avesse bisogno di sperperare una gran
quantità di energia in una sorta di attrito fatto di piccole azioni
ripetute, di chiacchiere, di futili contese, di cavilli, di letture
inutili, di scritture ancora più inutili, una sorta di pulviscolo
sonnolento e disordinato che inviluppasse una gracile ossatura navigante
verso un dubitoso e generico progresso. Ma se, animato dalle migliori
intenzioni, un rivoluzionario ingegnere sociale tentasse di aumentare il
rendimento della macchina eliminando in tutto o in parte quel polverino di
azioni in apparenza inutili per conservare solo le più pratiche, le più
solide, quelle capaci di aumentare il valore di qualche grandezza
importante, la ricchezza, per esempio, o il prodotto nazionale lordo, o
l’erogazione di energia elettrica, o altro di ben tangibile, la macchina,
pur accelerando a dismisura il suo movimento, perderebbe, con l’attrito, il
suo carattere più profondamente umano, quello appunto di girare a vuoto,
per mettersi a girare a vuoto in un senso molto più sinistro e spaventoso,
nel senso cioè dell’efficienza meccanica. Strappata al regno del disordine
ed entrata in quello dell’esattezza, la macchina compirebbe progressi molto
più rapidi, ma verso una meta disumana, nella quale solo l’ingegnere
sociale si riconoscerebbe. Tutto ciò ha forse a che fare con la natura del
nostro corpo, fatto di carne, di sangue, di grassi, e composto in massima
parte di acqua: un corpo semiliquido, sfuggente, deteriorabile, un corpo
insomma impreciso, anzi casuale, nella forma e nelle funzioni. Un corpo che
può concepire l’esattezza e aspirarvi soltanto con la fantasia più inesatta
perché, nella pratica, questa famosa e vagheggiata esattezza, esattezza
comunque concepita da un cervello sfumato e assai poco esatto, si stempera
pur sempre in una serie di gesti sfocati, di parole imprecise, di atti
involontari, nella tranquillizzante palude di una relatività senza contorni
e senza drammi.’
Chiudo con un’osservazione sulle centrali francesi (che riprende quanto ha
scritto Marta Mura): è vero che a due passi da noi ci sono centrali
nucleari che in caso d’incidente potrebbero danneggiare anche noi. Quindi,
si dice, tanto valeva fare le nostre senza dover comprare l’energia dai
Galli! Con lo stesso argomento, visto che l’aria delle città è inquinata,
tanto vale che i cittadini fumino cinquanta sigarette al giorno (mentre chi
vive in campagna è meglio che non fumi). Con questo ragionamento ogni
centrale nucleare autorizza la costruzione di altre centrali lì accanto,
tanto ormai il danno è fatto… mentre dove non ce ne sono non bisogna
assolutamente costruirne perché il rischio d’incidente, di fatto, non è
nullo.
Ma i rischi si sommano, e non c’è solo il rischio calcolato (ammesso che il
calcolo dei rischi abbia qualche senso pratico), c’è anche la percezione
del rischio, che è il fattore più importante in vista delle decisioni (ma
accanto al rischio, per dare un quadro completo che giustifica anche gli
aspetti emotivi, bisogna tener conto anche delle conseguenze del rischio,
sia materiali sia psicologiche…).
Quanto al calcolo del rischio: supponiamo che la probablità di un incidente
grave (lasciando da parte le conseguenze) sia di un miliardesimo. In
termini pratici, ciò significa che se costruiamo un miliardo di centrali di
quel tipo, c’è una probabilità assai elevata (diciamo prossima a uno) che
prima o poi una di esse abbia un incidente grave. Bene, rassicurati da
questo calcolo, cominciamo a costruire le nostre centrali: costruiamo la
prima, poi la seconda… la prima entra in funzione e dopo un po’
l’incidente grave si presenta propio nella prima centrale che abbiamo
costruito. A posteriori il calcolo del rischio subisce un ridimensionamento
drastico… Chi mi trova un difetto in questo ragionamento?
Per oggi basta, un cordiale saluto a tutti.
Giuseppe O. Longo
12 From:
sylvie coyaud <scoyaud@p…>
Date: Tue Feb 11, 2003 5:03pm
Subject: Re: Dr Saro Cola sul modello Venter
At 23.44 10/02/03 +0000, you wrote:
Caro Dott. Cola, lei scrive:
>non è affatto inoppugnabile (anzi) che il modello di sviluppo proprietario
>(Microsoft, per intenderci) sia destinato a irrimediabilmente a soccombere
>perché porta in sè i germi della sconfitta. Si potrebbero fornire ottimi
>esempi di come le cose funzionino più che bene proprio all’interno dei
>lavori in equipe che comprendono piena segretezza industriale (modello
>Venter, per capirci).
Con fondi di Wall Street e della P/E, Craig Venter ha fondato nel 1998
Celera Inc. che avrebbe venduto informazioni genetiche su abbonamento, e ha
dimostrato nel 2001 che il suo metodo era adatto a sequenziare grandi
genomi (il suo in particolare). Sul piano scientifico è andata bene, su
quello finanziario male ed è stato licenziato all’inizio del 2002. Pochi
mesi dopo, sul modello di TIGR da lui fondato nel 1992, ha creato TCAG, un
istituto no-profit che fa ricerca per conto di enti pubblici, l’IBEA, idem,
e la fondazione Craig Venter dedita all’outreach.
Non capisco a quale “modello Venter” lei si riferisca. Mi spiega?
Grazie
mille,
Sylvie Coyaud
13 From:
Alessandra Grazia <agrazia@o…>
Date: Tue Feb 11, 2003 9:05pm
Subject: Retroazione positiva
Mi sembra proficuo il concetto di “retroazione positiva” che si incontra più
volte nel testo del Professor Longo. Purtroppo non mi riesce di comprenderlo in
modo soddisfacente nelle sue implicazioni.
Mi rivolgo quindi al Professor Longo per chiedergli se potrebbe per cortesia
fornirmene una spiegazione (nel Suo testo non l’ho trovata).
Grazie da…
Alessandra Grazia
——————–
Dr.ssa Alessandra Grazia
——————–
14 From:
sylvie coyaud <scoyaud@p…>
Date: Tue Feb 11, 2003 8:45pm
Subject: Re: nota per Andrea Rossetti
At 14.00 11/02/03 +0100, you wrote:
>At 22:57 +0100 10-02-2003, sylvie coyaud ha scritto:
>
> >Se un idraulico si atteggia a messia su questioni che esulano dal
> >lavandino, non ci bada, vero? Quindi, mi dia retta che potrei essere sua
> >madre, non ci badi se lo fa un genetista, o qualunque autorità non fondata.
> >Uno scienziato può essere competente, e autorevole nel suo campo, e una
> >bestia per tutto il resto: Konrad Lorenz è stato filonazista.
>
>e’ un problema di credibilita’: se il mio idraulico vede la madonna
>piangere in oltrepo’, la gente si mette a ridere e tira avanti. se la
>madonna la vede un professore di fisica le cose cambiano e non poco:
>finisce su qualche giornale come “oggi”, lo chiamano pure ad alcune
>trasmissioni pseudo-scienfiche come “misteri”, e, se e’ fortunato, lo
>invitano al ” mauriziocostanzoscio’ “, . l’essere uno scienziato gli
>fornisce una sorta di aura di infallibita’, cio’ che dice (*tutto*
>cio’ che dice) acquista il marchio della scientificita’ (il messaggio
>implicito e’ “mi dia rette che sono uno scienziato – e so quello che
>dico” 🙂
Giusto: mi vien in mente Di Bella e Bruno Vespa che ne vantava i miracoli.
Però siamo noi dei media a prendere, e far prendere, lucciole per lanterne,
no? Per mestiere, dovremmo praticare l’incredulità (come i ricercatori,
d’altronde).
15 From:
guido1936@i…
Date: Tue Feb 11, 2003 10:50pm
Subject: Sui sistemi complessi
[Il caso e la scienza ufficiale]
Alcune novità provenienti da qualche “minoranza” della scienza vengono di
fatto ignorate dalla cosiddetta scienza ufficiale. Nei sistemi complessi, ad
ogni biforcazione-instabilità il sistema prende “a caso” una via anzichè
un’altra: ma perchè a caso?? E’ solo il nostro sottofondo filosofico che conia
questa espressione: sarebbe più logico dire che il sistema “sceglie”. La
“novità” è che la mente non è più solo legata a un sistema nervoso, ma, come
già teorizzato da Gregory Bateson, si manifesta ovunque, non appena sia
presente una certa complessità: con un pizzico di libero arbitrio. Oltre al
tramonto del dominio del pensiero cartesiano, questo potrebbe significare una
sorta di animismo.
16 From:
Giorgio Schiavon <giorgioschiavon@h…>
Date: Tue Feb 11, 2003 10:54pm
Subject: Pensieri in libertà.
[Tecnologia, democrazia e interessi economici]
Ritengo che il progresso scientifico, quale mero accrescimento del sapere, non
possa essere considerato nè buono nè cattivo. La scienza in quanto tale non può
essere altro che un potenziale astratto. E’ l’uso che se ne fa che può
apparire buono o malvagio, giusto o ingiusto. Ma tali valutazioni non sono
altro che frutto di interpretazioni partigiane. Ciò che è bene per alcuni non
necessariamente dev’essere considerato positivo da altri. Tutto si basa su
scale di valori convenzionali che possono assumere gradazioni variabili a
seconda del punto di osservazione e del contesto sociale, ambientale e
temporale in cui si verifichino. E’ qui che allora possiamo parlare di
democrazia collegata alla tecnologia? Ma la democrazia cos’è? Il governo
esercitato dal popolo? E nello specifico è la possibilità di allargare al
popolo i frutti e le meraviglie della scienza tradotti in tecnologia?!?! come
il telofonino UMTS? o la macchina a tutti? o , (con tutti il rispetto per chi è
morto nello svolgimento del proprio compito, compito che non dimentichiamolo è
conseguenza di una scelta consapevole), l’esibizione di “grandeur” di nazioni
che spacciano l’esplorazione dello spazio come un “grande passo per l’umanità”,
grande passo che, giusto per ribadire il concetto di relatività tra buono e
cattivo, può invece essere letto quale sperimentazione di strumenti bellici e
di controllo e non, come invece pare si tenti contrabbandarlo, filantropica
ricerca a favore dell’umanità, su cui invece la possibile ricaduta positiva si
ottiene soltanto di riflesso o per esigenze di budget. Fin qui allora possiamo
tranquillamente affermare che, quanto meno nel mondo occidentale, la tecnologia
sia democratica, ma allargando l’ottica ad una panorama globale è palese come
la ineguale distribuzione delle risorse tecnologiche dimostri che
nell’esperienza fattuale la tecnologia è elitaria e tuttaltro che democratica.
Scienza come entità astratta e tecnologia come fatto concreto, esistono in
rapporto simbiotico e alimentandosi recipropocamente producono progresso la cui
valutazione di ordine etico e morale può essere riferita solo ed esclusivamente
al suo utilizzo. Mi appare ipocrita ipotizzare che la scienza, in un ottica
evolutiva (sia essa globale o individuale) in cui si evidenzia che lo scopo
ultimo è il profitto in senso lato, possa essersi sviluppata dagli albori del
genere umano e possa continuare in futuro, in assenza di un suo sfruttamento
tecnologico a favore di chi vi abbia investito risorse. La pura filantropia non
può essere sprone sufficiente all’evoluzione in quanto l’impiego di risorse
comporta necessariamente costi che richiedono un ritorno in termini di altre e
superiori risorse che consntano nuovi investimenti nell’ottica di una continua
evoluzione della specie.
Mi pare inoltre che interpretare il progresso e valutarlo soltanto alla luce
delle ultime eclatanti innovazioni possa esser riduttivo, la sua valutazione
e le aspettative al riguardo vanno rapportatate alle condizioni di volta prese
in esame, credo che in termini di profitto per il genere umano non possa
esservi una grande differenza, per esempio tra la scoperta del fuoco nella
presitoria e la penicillina nell’era moderna, entrambe hanno migliorato
notevolmente la qualità di vita preesitente alla loro scoperta.: Lo stesso
dicasi per la relatività ambientale e individuale, il progresso intellettivo e
scientifico dello scolaro non è meno importante della grande scoperta
scientifica in termini di evoluzione, in quanto ciò non è altro che il primo
tassello di una miriade di altri che costituiscono la piramide del progresso in
senso lato. L’umanità progredisce soltanto in quanto vi sia una generale spinta
avanti, che mi pare connaturata nell’indole umana, in cui ognuno sulla scorta
delle risorse di cui dispone, apporta il proprio contributo.
17 From:
Giuseppe Belleri <bellegi@i…>
Date: Tue Feb 11, 2003 11:03pm
Subject: Commento a G.O. Longo
[Applicazione alla medicina di alcune delle tesi “forti” dell’analisi di Longo]
Vorrei tentare di applicare alcune delle tesi “forti” dell’analisi del prof. Longo alla medicina, area che conosco meglio per professione.
Mi pare che il problema sia tentare di attivare meccanismi di stabilizzazione a feed-bacck negativo laddove prevalgono di gran lunga i circuiti di retroazione positiva che rischiano di sovraccaricare il sistema in modo pericoloso, facendo deviare una delle sue variabili oltre la sostenibilità fino a toccare le soglie di allarme ecologico, se non i livelli tossici.
La medicina, in questo senso, è davvero l’esempio emblematico di come la tecnoscienza riesca ad entrare in inter-retroazione di amplificazione con le istanze sociali e le aspettative della gente, anche grazie ad un’operazione di occultamento sitematico dei propri limiti. Non c’e’ niente di più provvisorio e scientificamente “debole”, dal punto di vista dei suoi fondamenti concettuali, come la medicina eppure, forse proprio per cio’, l’aura di scientificità assoluta le viene attribuita naturalmente e in modo elettivo. Come dice Daniel Callahan la legge ferrea che muove medici e pazienti in modo sinergico e’ qualla del “fare di più”. Quale migliore dimostrazione della pervasività dei meccanismi di retraozione positiva! Sia che i risultati pratici siano discreti, sia che le attese della gente vadano deluse, sia che sforzi immani producano effetti sproporzionalmente modesti, tutti chiedono in coro e a gran voce che si faccia sempre e comunque di più, costi quel che costi!
E’ un dato di fatto che ogni successo, tipo la sconfitta di una malattia acuta o l’allungamento della vita media, generi effetti contro-intuitivi, ad esempio una nuova malatia cronica che, a sua volta, richiedera’ altre cure, altri interventi sanitari, altre urgenze per complicazioni etc.. Alcuni esempi empirici: la spesa sanitaria che nei decenni e’ crescitua in maniera spropositata rispetto al PIL, l’allungamento delle liste d’attesa che viene “curato” aumentando dell’offerta che genera ricorsivamente altra domanda, la continua richiesta di maggiori fondi per ogni settore, il susseguirsi di campagne sociali e mediatiche per il finanziamento alle inizative di ricerca, le proteste per l’introduzione dei ticket, meccanismi di retroazione negativa rispetto ad una spesa cresciuta a dismisura nell’ultimo biennio (il parametro andato fuori controllo che mette in crisi gli equilibri) etc.. Da pochi mesi se n’e’ andato Ivan Illich, che quasi trent’anni fa’ aveva preconizzato l’avvento della nemesi medica: nell’ultimo decennio la vendetta si è lentamente scatenata tra gli operatori sanitari ed ha un nome moderno: burn-out.
In sostanza la spinta propulsiva del mercato sanitario privato-assicurativo USA detta le regole del gioco – tramite l’automatico riallinealemnto delle polize in risposta all’aumento dei costi, formidabile volano di retroazione positiva – e i sistemi europei, a finanziamento fiscale-solidaristico, non riescono a tenere il passo inarrestabile della tecnoscienza di punta. La medicina quindi e’ l’esempio emblematico di come diversi attori sociali coinvolti nel net-work (ricerca di base, tecnologia della saluta, industria, sistema finanziario-assicurativo, sistema professionale, media etc..) si saldino e si rafforzino vicendevolmente nella spirale della crescita illimitata (e nella speculare negazione dei limiti) a cui timidamente si oppone una sparuta minoranza professionale in nome dell’etica e della deontologia.
In sostanza l’amplificazione della deviazione trova un supporto sociale nella dinamica di reciproco infleunzamento e di sinregia di interessi dei vari sotto-sistemi, a cui ho fatto riferimento sopra, e purtroppo la politica può solo fungere da mediatore dei conflitti e degli squilibri che insorgono tra i diversi protagonisti (quando non vi partecipa in prima persona e attivamente). Servirebbe un congegno di retroazione negativa, altrettanto articolato e pervasivo, che punti a ripristinare e mantenese una etero-omeostasi del siatem, ma temo che la soluzione prospettata dal prof. Longo (il controllo democratico sulle decisioni degli esperti, già propugnato a suo tempo da Illich e da Feyerabend, abbinato all’etica della responsabilità) possa rivelarsi fragile.
Grazie per l’attenzione
G.Belleri
Flero (BS)
18 From:
Dr. Saro Cola <sarocola@m…>
Date: Wed Feb 12, 2003 1:49am
Subject: Re: Re: primo intervento
Sono chimico
—
Dr. Saro Cola
ML 1
sarocola@m…
19 From:
Dr. Saro Cola <sarocola@m…>
Date: Wed Feb 12, 2003 2:02am
Subject: Re: Re: Dr Saro Cola sul modello Venter
Signora,
grazie a lei
E’ molto attenta ai fenotipi. Non se ne faccia distrarre.
Il senso della mia frase era chiaro, riferendomi a un modello che è appunto quello che ho detto : proprietario. Agli antipodi degli innocenti radical chic che enfatizzano i benefici dell’intelligenza collettiva vulgata versio .
Sul piano scientifico Celera ha dato, come lei ha detto, risultati ineguagliabili. Sul piano finanziario il discorso è più complesso da come lei lo ha rappresentato.
—
Dr. Saro Cola
ML 1
sarocola@m…
20 From:
Margherita Bologna <marghe@i…>
Date: Wed Feb 12, 2003 2:25pm
Subject: Domanda per Andrea Rossetti
Quando Lei si chiede se il criterio di maggioranza piò essere uno strumento “razionale” per il controllo dell’uso della tecnica che significato attribuisce a questo termine?
In quanto filosofo (del diritto) condivide l’analisi del concetto di razionalità esplicata nella breve citazione del libro del prof. Gargani Crisi della ragione che il prof. Longo riporta nella sua relazione? (paragrafo: di fronte alla tecnologia)
dott.ssa Margherita Bologna
21 From:
marlenedicostanzo@t…
Date: Wed Feb 12, 2003 2:27pm
Subject: progresso e retroazione
Se ho capito bene il saggio del prof. Longo è ispirato dalla preoccupazione che le implicazioni del progresso tecnico scientifico sfuggano alla responsabilità dell’uomo. Che cioè la retroazione positiva che alimenta il progresso conduca alla fine ad un processo autodistruttivo. Un po’ come se un regolatore che controlla la velocità di un motore, invece di diminuire l’immissione di combustibile quando il motore aumenta di velocità, la aumentasse.
Vorrei però osservare che il concetto di progresso non è esogeno alla cultura che produce il progresso. Diciamo che uno stato B è progredito rispetto ad uno stato A se nello stato B si verificano situazioni che la nostra percezione stima migliori di quelle che abbiamo nello stato A; per es. migliori chances di vita, teorie scientifiche maggiormente esplicative e così via. Ovviamente la valutazione dell’utilità marginale dello stato B rispetto allo stato, non può essere determinata autoreferenzialmente dal sapere degli esperti della tecnoscienza, ma dipende dal come l’opinione comune percepisce il mutamento. Ad esempio mentre i biotecnologi reputano senz’altro un progresso gli ogm, per gran parte dell’opinione pubblica, visto che non ne percepisce l’utilità immediata (non hanno costi inferiori, sul piano organolettico non presentano particolari vantaggi anzi) viene enfatizzato il possibile, anche se improbabile, rischio.
Comunque se lo stato B viene percepito come un progresso, si determina un modo nuovo di percepire il mutamento. L’uomo con una prospettiva media di vita di 80 anni guarda ai progressi della medicina in modo diverso di quello con una prospettiva media di 50 anni. E’ come se la nostra macchina a retroazione
positiva venisse tarata in modo nuovo.
Il problema è che la velocità con cui la tecnoscienza opera molte volte non consente e la verifica del progresso e l’adeguamento della prospettiva con cui guardiamo ad esso. Il talidomide insegna.
Che fare allora? Forse, come il prof. Longo altre volte ha detto, che la tecnoscienza ci dia il tempo di adeguare le nostre percezioni ai suo mutamenti.
Ma è realistico?
22 From:
marta mura <marta_mura@y…>
Date: Wed Feb 12, 2003 2:58pm
Subject: Re: progresso e retroazione
marlenedicostanzo@t… ha scritto:
> Se ho capito bene il saggio del prof. Longo è
> ispirato dalla preoccupazione
> che le implicazioni del progresso tecnico
> scientifico sfuggano alla responsabilità
> dell’uomo. Che cioè la retroazione positiva che
> alimenta il progresso conduca
> alla fine ad un processo autodistruttivo. Un po’
> come se un regolatore che
> controlla la velocità di un motore, invece di
> diminuire l’immissione di
> combustibile quando il motore aumenta di velocità,
> la aumentasse.
> Vorrei però osservare che il concetto di progresso
> non è esogeno alla cultura
> che produce il progresso. Diciamo che uno stato B è
> progredito rispetto
> ad uno stato A se nello stato B si verificano
> situazioni che la nostra percezione
> stima migliori di quelle che abbiamo nello stato A;
> per es. migliori chances
> di vita, teorie scientifiche maggiormente
> esplicative e così via. Ovviamente
> la valutazione dell’utilità marginale dello stato B
> rispetto allo stato,
> non può essere determinata autoreferenzialmente dal
> sapere degli esperti
> della tecnoscienza, ma dipende dal come l’opinione
> comune percepisce il
> mutamento. Ad esempio mentre i biotecnologi reputano
> senz’altro un progresso
> gli ogm, per gran parte dell’opinione pubblica,
> visto che non ne percepisce
> l’utilità immediata (non hanno costi inferiori, sul
> piano organolettico
> non presentano particolari vantaggi anzi) viene
> enfatizzato il possibile,
> anche se improbabile, rischio.
> Comunque se lo stato B viene percepito come un
> progresso, si determina un
> modo nuovo di percepire il mutamento. L’uomo con una
> prospettiva media di
> vita di 80 anni guarda ai progressi della medicina
> in modo diverso di quello
> con una prospettiva media di 50 anni. E’ come se la
> nostra macchina a retroazione
> positiva venisse tarata in modo nuovo.
> Il problema è che la velocità con cui la
> tecnoscienza opera molte volte
> non consente e la verifica del progresso e
> l’adeguamento della prospettiva
> con cui guardiamo ad esso. Il talidomide insegna.
> Che fare allora? Forse, come il prof. Longo altre
> volte ha detto, che la
> tecnoscienza ci dia il tempo di adeguare le nostre
> percezioni ai suo mutamenti.
> Ma è realistico?
[Il fumo, gli OGM e il rischio]
tento di riflettere su quanto detto: per me dovrebbe essere realistico.
es. la sigaretta: fino a dieci anni fa, l’effetto negativo della sigaretta non era nacora ben conosciuto, tant’è che una volta ho visto un documentario degli anni settanta in cui si cercava di dissuadere dal fumare per ragioni del tutto opinabili sulle conseguenze del fumo. tutto è stato detto, tranne la possibilità del cancro ( dimostrazione che ancora non se ne conoscevanpo bene gli effetti). oggi, decine di persone in America fanno causa alla Philip Morris per i tumori contratti a causa delle sigarette, perchè, al tempo, non si conoscevano ancora quegli effetti devastanti che si conoscono oggi, e vincono.
spuntano gli OMG. è logico che, date le esperienze passate, che la persona media diffida. prima ci vengono propinati i prodotti, poi ad un certo punto qualcuno mette in dubbio l’innoquità di tali. l’uomo medio a questo punto pretende chiarezza e quindi non si fida. non è questione secondo me, di percepire l’utilità o meno del prodotto tecnologico, ma il porsi il dubbio della salutarità di quello che mangiamo.
condivido l’dea della graduale distuzione dell’uomo, ribadisco che per me è un continuo regresso. se da una parte, infatti crediamo di vivere meglio, dall’altra stiamo distruggendo l’ambiente in cui viviamo, e le conseguenze le stiamo pagando tutt’ora (camminare per le strade di Milano durante l’ora di punta per 10 minuti, equivale a fumarsi 20 pacchetti di sigarette.
spesso la gente comune, rimanda la polemica perchè il “rischio”, o il “pericolo” sono diluiti nel tempo, quindi non si ritengono immediatamente coinvolti. es.
io fumo, pur sapendo che ho il rischio di cancro, ma poichè il rischio è rimandato a un lontano futuro continuo a farlo. se mi venisse il cancro, mi pentirei amaramente della scelta stupida che ho fatto e probabilmente pagherei oro per tornare indietro. lo stesso ragionamento va visto in funzione delle conseguenze di una tecnologia che sballa completamente i ritmi biologici. ed a questi non si sfugge. quindi.
ben consapevoli di tutto ciò, perchè non si mettono in atto politiche che ci salvaguardino meglio, invece di scoprire l’acqua calda a distanza di tempo?
23 From:
sylvie coyaud <scoyaud@p…>
Date: Wed Feb 12, 2003 6:06pm
Subject: Re: Re: Dr Saro Cola sul modello Venter
At 01.02 12/02/03 +0000, you wrote:
>Signora,
>
>grazie a lei
>
>E’ molto attenta ai fenotipi. Non se ne faccia distrarre.
Difficile: non so lei, ma io nella vita incontro solo fenotipi. s.c.
>Il senso della mia frase era chiaro, riferendomi a un modello che è
>appunto quello che ho detto : proprietario. Agli antipodi degli innocenti
>radical chic che enfatizzano i benefici dell’intelligenza collettiva
>vulgata versio .
>Sul piano scientifico Celera ha dato, come lei ha detto,
> risultati ineguagliabili. Sul piano finanziario il discorso è più
> complesso da come lei lo ha rappresentato.
In che senso?
24 From:
sarmont@m…
Date: Wed Feb 12, 2003 6:29pm
Subject: democrazia della scienza
=======
Non possono essere i rappresentanti di quelle componenti: non possono essere i ricercatori a pretendere di conservare la ricerca, o gli innovatori l’innovazione tecnologica. La decisione spetterebbe alla politica, intesa come attività di mediazione tra le varie istanze sociali.
(Longo, Relazione)
=======
— Non serve molto che mi dichiari d’accordo col professor Longo. E’ – credo – piu’ utile che indichi i punti di disaccordo.
Voglio pero’ subito dire che mi sembra molto valida la sua affernazione “se la scienza non vuole aver nulla a che fare con il resto del mondo (cosa di cui si puo’ dubitare) e’ il resto del mondo che vuole aver a che fare con la scienza.“
(Relazione)
Uno dei punti di disaccordo riguarda invece la presunta antidemocraticita’ della scienza. Si deve distinguere – a me pare – tra mezzi e fini. I fini potranno anche essere quelli di raggiungere una Verita’ (ma in realta’ io non lo credo), ma la tensione verso una Verita’ non esclude che i metodi siano tutt’ altro che dogmatici. La scienza e’ democratica come metodo – o se non altro dovrebbe esserlo.
Del resto anche Longo giunge ad affermare che “se i singoli non possono ripetere gli esperimenti compiuti nei grandi laboratori, li possono ripetere altri grandi laboratori. La democrazia a questo livello garantisce un certo controllo dei risultati.”
Un secondo punto su cui non mi trovo concorde e’ ……. ma piu’ che un argomento riguarda una forma di atteggiamento. E’ mia impressione (dalla lettura della sua Relazione pper questo seminario) che Longo sia dibattuto tra un malcelato fascino che la tecnologia esercita su di lui e il rifiuto della stessa. Una sorta di odio-amore.
Volevo chiedergli la sua opinione anche su quest’ ultima mia impressione.
Con molti cordiali saluti e complimenti per il bel seminario.
alphonse vajo
————————
25 From:
longo@u…
Date: Wed Feb 12, 2003 7:21pm
Subject: Longo risponde
12 febbraio 2003
cari amici in rete
A Marta Mura vorrei confermare che secondo molti tecnologi (almeno nell’industria informatica e microelettronica) i limiti posti alle innovazioni sono di natura economica più che tenica. E sono limiti economici interni all’azienda (costi di ricerca e sviluppo e costi di commercializzazione) oppure esterni (costi legati alla perturbazione del sistema esistente). Per cui molte tecnologie mature o fattibili sotto ilprofilo tecnico non vengono lanciate per motivi economici. Ma i limiti economici sono pur sempre limiti. Forse il “menefreghismo” e la miopia sono caratteristiche ereditarie del genere umano (Dante: “perché l’uom in cui pensier sovra pensier rampolla di sé dilunga il segno, perché la foga l’un dell’altro insolla”, cioè chi pensa troppo e si preoccupa finisce che non fa nulla: e, oggi soprattutto, fare è più importante che riflettere). Il genere umano sta distruggendo a grande velocità le altre specie viventi, anzi è autore di una delle più grandi estinzioni di massa che si conoscano.
Non per questo la vita scomparirà: il biota si assesterà su altri livelli di equilibrio, ma può darsi che il nuovo equilibrio non contempli più la presenza di questo catastrofico Homo sapiens. Del resto sono scomparsi i dinosauri, che per centinaia di milioni di anni avevano dominato tutte le nicchie biologiche…
La spazzatura che produciamo non rientra nei cicli della natura: il nostro “riciclo” è un surrogato di quei cicli, ma spesso fallisce percé è sostenuto da motivazioni econoichepiù che ecologiche, cioè di equilibrio sistemico: i rifiuti sono diventati un affare colossale, specie per la “criminalità organizzata”. E’ sensazione diffusa che ovunque l’uomo penetri, introducendo la sua azione finalistica cosciente, sostenuta da una tecnologia sempre più potente, si producano dei guasti sistemici. Sugli sconquassi provocati da questo tipo di intervento Gregory Bateson ha scritto pagine fondamentali, che ho avuto il privilegio di tradurre (Verso un’ecologia della mente, Mente e natura, Dove gi angeli esitano, Un’unità sacra, tutti per Adelphi, Milano). E’ la finalità cosciente dell’uomo (basata su un’epistemologia sbagliata secondo Bateson) che apre alcuni cicli chiusi della natura e che (attraversol’attiuvazioen dei circuiti di retroazione positiva) tende a far crescere oltre ogni limite il valore di alcune variabili (di cui il denaro è la quintessenza) rendendole pericolose per la salute e l’integrità del sistema. E’ vero peraltro che la lettura di Bateson, che raccomando a tutti, resta il privilegio di pochi e non so quanto le sue idee potrebbero cambiare il mondo anche se tutti le conoscessero…
Vorre ringraziare Giuseppe Belleri per la sua lucida e sintetica descrizionedi un caso emblematico d’intreccio di retroazioni positive in un sistema complesso e di enorme importanza come quello della medicina, tra i più significativi perché, in varia misura, riguarda tutti.
Pur sostenendolo, sono io stesso convinto – lo dichiaro con franchezza – che il controllo democratico delle decisioni sia uno strumento farraginoso e inefficace: molto meglio sarebbe un monarca illuminato (ma illuminato da chi? per chi non crede in una divinità trascendente si prospetta un ricorso all’infinito?…). Stiamo toccando i limiti della democrazia? Ci stiamo rendendo conto che la democrazia, oltre un certo limite di popolazione e una certa sogli adi complessità della società somiglia a un caos ingovernabile in cui si manifestano proprietà e fenomeni emergenti di tipo sinergetico? In cui “ordinatori” o attrattori eterogenei e inediti prendono il posto delle decisioni meditate di un tempo (se mai ci furono)? Heidegger diceva che da questo destino (la tecnologia, che snatura l’uomo) solo un Dio ci può salvare. Io, forse più cinico, dico che solo una catastrofe economica ci può salvare dalla catastrofe tout court. Dovrebbero mancare i soldi: la gran macchina dell’apparato rallenterebbe subito, e avremmo il tempo e il modo di pensare. Molte cose che oggi ci sembrano gratuite riacquisterebbero il loro valore in termini di fatica, dilavoro investito, di risorse naturali… (a questo proposito la mia posizione è molto distante da quella tecnofila di Rossetti).
Il fisico inglese Ernest Rutherford ricevette la visita di colleghi tedeschi che gli chiesero come avesse fatto, con le poche risorse che aveva, a conseguire risultati tanto brillanti. Rispose: “Ci sono venuti a mancare i soldi, allora abbiamo cominciato a pensare…”
(Qualcuno potrebbe ribattere con sarcasmo: vista la riduzione dei finanziamenti che si prospettano, chissà quali meravigliosi risultati conseguiranno i nostri ricercatori!…)
Per Alessandra Grazia ecco una brevissima nota sulla retroazione: La retroazione (feedback) è uno dei concetti fondamentali della cibernetica e si applica a una classe vastissima di sistemi, caratterizzati dalla presenza di un “anello di retroazione”. Si consideri un sistema che operi una trasformazione su una certa variabile: la variabile su cui il sistema agisce si chiama ingresso, la variabile trasformata si chiama uscita.
L’anello di retroazione riporta all’ingresso informazioni sull’uscita: quindi l’ingresso è costituito dalla variabile da trasformare più i dati sull’esito della trasformazione avvenuta in precedenza. Se questi dati facilitano o accelerano la trasformazione nella direzione dei risultati precedenti, la retroazione si chiama positiva. Se si oppongono alla trasformazione, la retroazione si chiama negativa. Nel primo caso un aumento dell’uscita provoca un aumento dell’ingresso, che a sua volta provoca un aumento dell’uscita: il comportamento del sistema è divergente, cioè si ha un’espansione verso l’infinito. Oppure una diminuzione dell’uscita provoca una diminuzione dell’ingresso, che a sua volta provoca una diminuzione dell’uscita e si ha una riduzione progressiva dell’attività. La crescita indefinita si presenta nelle reazioni a catena, nell’esplosione demografica, nell’inflazione, nella proliferazione delle cellule cancerose. Poiché un sistema non può sostenere una crescita oltre una certa soglia, questo tipo di retroazione positiva porta al collasso del sistema. L’altro caso di retroazione positiva, che porta al blocco del sistema, si ha per esempio nella depressione economica. Anche in questo caso il sistema entra in una crisi che comporta l’annullamento delle sue attività. Perché il sistema non giunga al collasso o alla morte, la retroazione positiva dev’essere controbilanciata da uno o più meccanismi di retroazione negativa.
La retroazione negativa infatti porta (benché non sempre) il sistema all’equilibrio. Tutti i sistemi di regolazione (di temperatura, di velocità, di direzione e così via) sono basati su questo tipo di retroazione, in cui un aumento dell’ingresso provoca una diminuzione dell’uscita, che a sua volta provoca una diminuzione dell’ingresso; invece una diminuzione dell’ingresso provoca un aumento dell’uscita, che provoca un aumento dell’ingresso: in sostanza un aumento dell’ingresso provoca, dopo un certo tempo, una diminuzione dell’ingresso e una diminuzione dell’ingresso provoca, dopo un certo tempo, un suo aumento.
Si tratta di un tipico meccanismo di controllo: il sistema si porta via via all’equilibrio stabile, oppure oscilla intorno a un punto di equilibrio senza mai fermarvisi (si pensi al termostato, che fa oscillare la temperatura di un ambiente intorno al valore di riferimento fissato).
Gregory Bateson riconobbe la presenza della retroazione positiva (interazione simmetrica) e di quella negativa (interazione complementare) in certi meccanismi sociali. Se per esempio il comportamento aggressivo di una componente sociale A provoca aggressività in un’altra componente B e l’aggressività di B scatena ulteriore aggressività in A, questa interazione simmetrica (retroazione positiva), attraverso un crescendo di aggressività, può portare al collasso della società. Se invece l’aggressività di A provoca in B un atteggiamento di sottomissione e la sottomissione di B provoca un calo di aggressività in A (interazione complementare, cioè retroazione negativa), la crisi può essere superata e la società si riporta in equilibrio.
Quanto scritto da Giuseppe Belleri mi sembra un’ottima illustrazione di questi concetti (ripresi anche nelle primissime righe del contributo di Marlene Di Costanzo).
A Marlene Di Costanzo direi che bisogna distinguere tra un fenomeno o sistema e lapercezione ch ene abbiamo. La posizione generale dicerti meccanismi di retroazione positiva è positiva (scusi il bisticcio) anche quando il sistema che ne è sede si avvia al collasso (chi abbia fretta vede nell’aumento contintuo della velocità della sua macchina un fatto positivo anche se il motore sta per scoppiare – del resto è un motore a scoppio). E’ vero che la percezione che abbiamo dei fenomeni dipende dalla nostra storia precedente e collocazione temporale (secndo auqnto ho scritto ieri all’inizio dell amia glossa al commento di Rossetti), ma è anche vero che questa nuova “taratura” della macchina a retaroazione riguarda poco o punto il processo “in sé” (scusi questo abuso di realismo).
Come nota anche lei nelle ultime righe del suo contributo, uno degli inconvenienti più gravi a questo riguardo è la diversa velocità con cui si sviluppano la tencologia, la nostra capacità di adattamento e le interfacce tra uomo e tecnologia (si tratta di direttrici evolutive spaiate, veda il primo paragrafo dell’articolo). Insomma il simbionte Homo technologicus fatica ad armonizzare le proprie componenti eterogenee e l’una rischia di soffocare l’altra. Gli antichi meccanismi del corpo (fisiopsicologici) sofforno per il contatto, anzi l’invasione, della tecnologia: la tecnologia è sempr eun filtro, nel senso che potenzia (o addirittura rivela) certe capacità, ma ne indebolisce o sopprime altre, che magari sentiamo intimamente nostre e indispensabili.
Ma la tecnoscienza è disposta a darci il tempo di cui avremmo bisogno per adattarci? O magari per rifiutarla? Ne dubito, proprio per l’accelerazione (da retroazione positiva) che animal’innovazione: è proprio quest’accelerazione che a volte dà l’impressione che la tecnologia sia una componente autonoma o quasi del sistema complessivo, e questa autonomia percepita preoccupa molto chi vede nella tecnologia una minaccia all’identità dell’uomo.
Ma l’identità dell’uomo è un concetto quanto maiproblematico e forse fallace: da sempre l’homo sapiens, ibridandosi con le vari componenti dell’ambiente (animali, piante, virus) e con gli strumenti che via via costruiva è venuto modificandosi. Oggi questa modificazione (in passato poco più che latente) è quanto mai manifesta: basti pensare che i bambini che hanno un’esposizioneprolungata e precoce all aTv o al computer tendono a sviluppare connessioni cerebrali diverse dai bambini abituati alla lettura e scrittura o ad altri svaghi. Anche se la plasticità cerebralepermane a lungo, dove può portare tutto ciò? Certo porterà a unuomo diverso da noi (o meglio a un “simbionte” diverso), che giudicherà il suo presente (il nostro futuro) in modo diverso da noi.
Non dobbiamo perciò cedere alla tentazione di giudicare coi nostri parametri e metri di giudizio ciò che sperimenterà questa creatura del futuro (copme non dobbiamo commettere l’ingenuità di giudicare col nostro metro ciò che provavano i nostri avi). Tutto ciò non mi esime tuttavia dal credere che il simbinte futuro soffrirà come e più di noi per il progressivo disadattamento tra biologia e tecnologia (ci sono molti segni che la nostra è una civiltà che soffre: per esempio negli Stati Unitipare che il 56 % della popolazione ricorra agli psicofarmaci…).
Forse il corpo (Marta Mura) coi suoi ritmi ci salverà dalla trasformazione totale (anche se non so bene come possa configurarsi questa trasformazione totale, sembra una battuta di Joneso)? Se il corpo continuerà a rappresentare un baluardo di resistenza contro l’invasine della tecnologia, contro la riduzione a codice, se le sue esigenze ancestrale opporranno un ostacolo inbvalicabile… Ma quale saràil prezzo dapagare in termini di sofferenza? O sono tutte metafore? Preoccupazioni fuori luogo? E in questa prospettiva, l’adeguamento psicofisico che invochiamo non sarebbe piuttosto dannoso che vantaggioso, perché curerebbe i sintomi e non la patologia: creerebbe una vsata zona di anestesia in cui la tecnologia potrebbe finalmente insinuarsi senza resistenze…
A proposito dello scambio tra Sylvie Coyaoud e Andrea Rossetti: appena uno vince un oremio Nobel (specie in fisica o in biologia) lo si intervista ad ogni piè sospinto su tuttii temi possibili immaginabili. Il sistema delle credenze fideistiche è forte, ma più forte ancora è il sistema delle autocredenze narcisistiche: il Nobel si lascia intervistare e, titillato, rilascia le sue pillole di saggezza a tutto campo, manifestando un godimento epidermico e interiore molto simile all’orgasmo trattenuto. Un po’ come sto facendo io, pontificando come un oracolo (cerco di prepararmi al Nobel…)
Giusta la distinzione che fa Sylvie Coyoaud tra scienza e sue incarnazioni: purtroppo anch’io incontro sempre fenotipi. La scienza è lontana e inaccessibile, simostra solo per i suoi ministri, che si lasciano toccare e guardare: un po’ come Dio, che manda avanti i sacerdoti…
A Guido direi che trovo giusta la sua osservazione, ma non la spinge fino in fondo. Proprioperché un sistema abbastanza complesso è una mente nel senso di Bateson (vedi anche Internet e la sua possibile intelligenza connettiva) esso può “decidere” quale strada imboccare. Ma proprio perché il sistema-mente è complesso possiamo descriverlo in vari modi e a vari livelli. Un sistema complesso non può essere esaurito con una sola descrizione (quella “vera”), che privilegi un determinato livello, ma è suscettibile di più descrizioni a diversi livelli di finezza. Queste descrizioni sono tra lor complementari e talvolta in parte anche contraddittorie. Non si è autorizzati a dire che una descrizione è più vera di un’altra, semmai, a seconda dei nostri scopi del momento, di volta in volta una descrizione è più “adeguata” di altre. Allora a un livello di descrizione il sistema imbocca una strada “a caso” e a un altro livello di descrizione “decide” la propria strada.
Del restola nozione di “caso” è tra le più ingarbugliate e oscure: pensi alla meccanica quantistica, dove la domanda fondamentale è: il caso è un modo per dichiarare (o nascondere) la nostra ignoranza dei “veri” meccanismi, oppure i “veri” meccanismi sono soggetti al caso? La meccanica quantistica propende per la seconda ipotesi, che tuttavia alla nostra mente sembra difficile da digerire: siamo irrimediabili realisti (come Einstein, scusate…).
Adesso vado a casa: il seguito a domani, grazie a tutti.
Giuseppe O. Longo
26 From:
Andrea Rossetti <andrea.rossetti@u…>
Date: Wed Feb 12, 2003 7:58pm
Subject: Re: seminario FGB
inizio ringraziando il professor Longo per la lunga risposta e tutti gli altri per gli interventi e l’attenzione che stanno prestando alle mie parole.
Giuseppe Longo, come di consueto, fornisce una serie formidabile di spunti di riflessione. Io mi concentrero’ sui due che ritengo piu’ importanti: l’idea di progresso e l’idea di intelligenza legata alla rete.
At 18:23 +0100 11-02-2003, longo@u… ha scritto:
>Insomma i nonni non conoscevano la nostra situazione, ed è proprio il
>confronto che dà il senso dello star bene o dello star male (gli uomini non
>vogliono guadagnare molto, vogliono guadagnare più del loro vicino di
>casa). Solo un confronto consente di misurare la differenza: forse i nostri
>nonni si sentivano già fortunati rispetto ai loro nonni, ma non potevano
>confrontarsi con noi.
[L’idea di “progresso” è relativa e valutativa]
ovviamente, sono d’accordo con lei e con l’intervento di marlene di costanzo che mi pare sostenere una tesi simile: l’idea di progresso e’ un’idea relativa e valutativa. lo stato di cose B e’ un progesso rispetto allo stato di cose A, se A e’ “meglio” B; il “meglio” e’ relativo ad una serie di valori e di criteri che definiscono una particolare visione del mondo. detto questo, non riesco proprio a credere che il mio bisnonno, che pure aveva sicuramente un sistema di valori e credenze diverso dal mio (e che, forse, ha anche avuto una vita felice), possa considerare la societa’ in cui lui e’ nato, migliore della mia: abbiamo praticamente debellato la fame, la mortalita’ infantile, l’analfabetismo, allungato la speranza di vita e migliorato la qualita’ della vecchiaia.
il problema attuale, secondo me, e’ che, molto probabilmente, il nostro modello di sviluppo (tecnico, ma anche etico), *purtroppo*, non e’ esportabile, *purtroppo*, si fonda su pratiche spesso immorali nei confronti dei non occidentali. credo che, nel futuro, dovremo renderci conto che, per il bene di tutti, il progresso tecnologico non puo’ essere disgiunto un progresso dell’estensione dei diritti fondamentali (e probabilmente dalla tematizzazione di diritti delle generazioni future).
>Ecco che, se gli scienziati sono troppo cauti e non vogliono rilasciare
>indulgenti promesse (ma oggi tendono a farlo, anche per fare quattrini),
>volgiamo loro le spalle e corriamo dai tecnologi, oppure dai cartomanti,
>dai ciarlatani, dagli imbonitori (il programma ‘mi manda Rai3’ è un
>campionario delle conseguenze tragicomiche di questa tendenza).
l’accostamento di tecnologi e cartomanti di pare davvero ingeneroso: io credo che, nella maggior parte casi, ingegneri, scienziati, gli innovatori in senso piu’ lato, cerchino davvero di rendere il mondo un posto migliore (buona fede che, invece, non si deve accordare ai maghi nessuna specie). anche se, altrettanto spesso, non tutti siamo d’accordo su come sia un mondo migliore.
>Veniamo ora all’intelligenza collettiva o connettiva della Rete.
>>>>>zip<<<<
mi ostino a non capire 🙂 questo non significa ridurre l’intelligenza a un insieme di relazioni organizzate indipendente dal supporto fisico? l’idea che l’intelligenza sia un insieme di relazioni organizzate non implica che l’intelligenza esclusivamente sia algoritmica? (questo implicherebbe che anche l’intelligenza degli essere umani e’ algoritmica?) poiche’ intelligenza dipende anche dalla corporeita’, allora un’intelligenza che si sviluppasse su di un “supporto” diverso dal corpo umano, non ci sarebbe completamente aliena?
chiudo con questa raffica di domande (che spero non spazientiscano il prof. Longo 🙂 : non voglio annoiare troppo coloro che hanno avuto la bonta’ di leggere sino a qui 🙂
a domani,
AR
—
ø¤º°`°º¤ø,¸¸,ø¤º°`°º¤ø, ,ø¤º°`°º¤ø,¸¸,ø¤º°`°º¤ø,
dr. Andrea Rossetti
SWIF co-ordinator
SWIF – Sito Web Italiano Filosofia
Periodico elettronico – registrazione n. ISSN 1126-4780
Rubrica di recensioni: http://www.swif.uniba.it/lei/recensioni/index.htm
27 From:
Leone Montagnini <leonemontagnini@k…>
Date: Wed Feb 12, 2003 8:10pm
Subject: Per una critica delle tecnologie dell’informazione
[Tecnofobi e tecnofili (apocalittici e integrati)]
Tecnofobi o tecnofili, o forse ancor meglio – riprendendo le fortunateespressioni di Eco – apocalittici o integrati. Mi ha sempre colpito che si tratta di due atteggiamenti mentali che sembrano scontrarsi in maniera totale, senza compromessi e, mi sembra, questo si registra tutto sommato anche nelle discussioni che finora si sono avute in questo forum.
Paradigmatico in questo senso è l’articolo di Scalfari che ci ha proposto Giovanni Maria Borrello, dove si assiste ad una posizione classicamente apocalittica di Scalfaro che ha destato l’ira del suo meno noto interlocutore “integrato”.
Tra l’altro nella mia esperienza personale ho conosciuto molti acerrimi nemici del nuovo tecnologico che si sono poi convertiti ad un autentico tecnoentusiasmo. Negli anni 80 prendevo simpaticamente in giro un mio caro amico perché si ostinava ad usare la matita (di quelle con la gomma sull’altro estremo) invece del computer per scrivere: così almeno posso cancellare, diceva. Poi ha scoperto che col word processor cancellare era ancora più semplcie edè diventato un altro. Adesso senza la mail è un uomo morto! Personalmente preferirei però che si trovasse una mediazione: la possibilità di criticare le tecnologie senza essere accusati di esserne dei detrattori per partito preso.
Ringrazio Marta Mura per aver preso le difese di chi, come me, votò per il sì contro le centrali atomiche. Ritengo estremamente importante l’accostamento della questione nucleare all’episodio di Bohpal, e per l’indicazione dell’aspetto dei costi di produzione dell’energia. Il rischio si può contenere, ma purtroppo aumenta i costi del chilowattora. Attualmente abbiamo le centrali sulle alpi, in caso contrario ne avremmo avuta una alle porte della più grande città italiana, Roma. Immaginate che avrebbe significato evacuare in tempi rapidi 3 milioni di persone. Purtroppo però temo che, oggi, non avendo centrali nucleari dislocate sul nostro territorio, abbiamo consequentemente anche pochi tecnici attivi sul territorio a compiere icontrolli sistematici sulle scorie che qualcuno potrebbe gettare in discariche abusive.
Non so se in questo modo finisco per passare per quel “critico progressista del progresso” cui fa riferimento Giuseppe O. Longo nell’introduzione della sua relazione, ma ritengo che sarebbe utile si formasse una posizione intermedia di consapevole critica della tecnica.
Ritengo che di un tipo di critica di questo tipo, senza eccessi, ma seria e puntuale, siano esempio le molte riflessioni, ricerche, iniziative circa le tematiche ambientali, dove possediamo molte serie analisi – in sociologia, economia, ecologia, geologia ecc. – che rappresentano un esempio effettivo di scienza e tecnologia effettivamente applicate per retroagire (retroazione negativa) in maniera tale che si possano riuscire a gestire in maniera meno traumatica le ricadute negative delle attività economiche umane (si ricordi che tutti i settori economici inquinano: agricoltura, industria e terziario; nonché il consumo). Ciò non garantisce dalle catastrofi ma, come suol dirsi, aiuta.
Ritengo però che quel che è stato fatto per i rischi legati alle tecnologie della materia e dell’energia, non sia stato fatto a sufficienza per le tecnologie dell’informazione e che sarebbe necessario esercitare il pensiero critico su di esse molto più di quanto sia stato fatto fino ad oggi.
Le cose che da anni scrive Giuseppe O. Longo, mi sembra, rispondono a questa esigenza di un pensiero critico sulle tecnologie e in particolare su quelle dell’informazione (tra le quali includo in qualche modo anche la biologia molecolare).
Molte delle cose che ho letto nella sua relazione sono vivaci e stimolanti, ma mi lasciano dubbioso. Vorrei soffermarmi solo su un aspetto tra i tanti nient’affatto banali che egli toccca.
Egli nota una mutazione epistemologica che starebbe avvenendo dalla metà del Novecento e che riguarda alcuni settori trainanti della tecnologia. Ma c’è una cosa che nel suo discorso mi lascia fortemente perplesso: In particolare egli scrive che “a cominciare dalla metà del Novecento, la tecnologia ha assunto una velocità tale da non permettere, spesso, neppure le sistemazioni e le spiegazioni scientifiche a posteriori” “non esiste una teoria del software, […] di Internet, […] dell’ingegneria genetica.”
“Delegando, come stiamo facendo, l’uso della nostra razionalità agli strumenti, acceleriamo la scomparsa della scienza a favore della tecnica.
D’altra parte questa delega appare inevitabile. Dal declino della scienza così come la conosciamo naturalmente non seguirebbe la scomparsa dell’attività mentale e conoscitiva: essa potrebbe assumere forme inedite, legate soprattutto allo sviluppo tecnologico.”
Si noti qui si tratta di una problematica che rappresenta oggi, a mio parere, un’importante frontiera della ricerca epistemologica, e l’insistenza di Longo su questo punto ha un grande merito.
Sono d’accordo in gran parte con la sua diagnosi, ma ho difficoltà a condividere il suo ottimismo.
[Creatura planetaria, intelligenza collettiva, laisser faire, liberismo]
In particolare a me sembra che la teoria della creatura planetaria, avanzata nei termini in cui ne parla Longo credo tra i primi da Pierre Levy in Francia, non sia altro che l’applicazione al mondo dell’informazione della logica del laisser faire e della mano invisibile di Smith. E il liberismo è un’ottima ideologia soprattutto per chi occupa posizioni di predominio.
Francamente il quadro prospetatto da Giuseppe O. Longo di una scienza che si estingue di fronte a una tecnologia che se ne va per conto suo mi preoccupa molto e da molti anni. Diciamo da anni che stiamo vivendo nella “società dell’informazione” ma, ironia della sorte, fuori del contesto strettamente tecnico, non abbiamo nessuno straccio di definizione affidabile del concetto di informazione, che anche lontanamente paragonabile a quelli di energia, massa, materia, quantità di moto, carica elettrica ecc.
elaborati nel quadro della scienza tipica della fase che precede la seconda guerra mondiale. Questo io lo ritengo un serio problema.
Credo che la scienza sia necessaria. Quando guido la macchina in situazioni di routine è meglio inserire il pilota automatico ipotalamico. Questo è vero: esso agisce in maniera istintiva e precisa, rapida, come un bravo esecutore. Ma di fronte a situazioni impreviste è la corteccia cerebrale che deve prendere il comando e scattano meccanismi endocrini che portano la coscienza al livello massimo.
[L’uso invalso del termine “scienza”]
Giustamente Andrea Rossetti nota che ormai la parola scienza sta dappertutto nelle università. La facolta di pedagogia è diventata di scienze dell’informazione, quella di lettere di scienze umanistiche, addirittura l’Ospedale S.Camillo di Roma ha cambiato il nome ai vecchi reparti di cardiologia: ora si chiamano di Istituto di Cardioscienze. Ma non penso che questo sia segno di vitalità da parte della scienza: il fatto che la “Scienza” lasci il posto alle “scienzE” è un segno della mutazione epistemologica di cui sopra; indica che la scienza tende sempre più a tecnicizzarsi, che vince la profezia di Weber sul trionfo del pensiero strumentale ed ho paura che così facendo perdiamo tutti anche quella capacità critica (accanto pure ad un sano conservatorismo, non lo nego) che sono tipiche della scienza e di cui avremmo bisogno oggi più che mai.
28 From:
marta mura <marta_mura@y…>
Date: Wed Feb 12, 2003 8:45pm
Subject: Re: (unknown)
una riflessione personale che non c’entra nulla:
prof. Longo, la ammiro molto, perchè con il suo ultimo
intervento,di ognuno dei partecipanti ha saputo
cogliere l’aspetto positivo, nonostante le numerose
critiche, e nonostante la discussione si facesse
sempre più animata…
29 From:
Alessandra Grazia <agrazia@o…>
Date: Wed Feb 12, 2003 9:38pm
Subject: Re: democrazia della scienza
—– Original Message —–
From: sarmont@m…
Date: Wed, 12 Feb 2003 12:29:16 -0500
To: <fgb-forum@yahoogroups.com
>
Subject: [fgb-forum] democrazia della scienza
> Un secondo punto su cui non mi trovo concorde e’ ……. ma piu’ che un argomento riguarda una forma di atteggiamento. E’ mia impressione (dalla lettura della sua Relazione pper questo seminario) che Longo sia dibattuto tra un malcelato fascino che la tecnologia esercita su di lui e il rifiuto della stessa. Una sorta di odio-amore.
>
Volevo dirlo io, mi sono state rubate le parole di bocca.
🙂
Anche a me interessa l’opinione del Prof. Longo su questa osservazione che lo riguarda.
—————
Dr.ssa Alessandra Grazia
—————
30 From:
Giuseppe Belleri <bellegi@i…>
Date: Wed Feb 12, 2003 11:26pm
Subject: Re: (unknown)
> —– Original Message —–
> From:
<longo@u…
>
> Dovrebbero mancare i
> soldi: la gran macchina dell’apparato rallenterebbe subito, e avremmo il
> tempo e il modo di pensare. Molte cose che oggi ci sembrano gratuite
> riacquisterebbero il loro valore in termini di fatica, di lavoro investito,
> di risorse naturali… (a questo proposito la mia posizione è molto
> distante da quella tecnofila di Rossetti).
> Il fisico inglese Ernest Rutherford ricevette la visita di colleghi
> tedeschi che gli chiesero come avesse fatto, con le poche risorse che
> aveva, a conseguire risultati tanto brillanti. Rispose: “Ci sono venuti a
> mancare i soldi, allora abbiamo cominciato a pensare…”
[Retroazione e sviluppo sostenibile]
Penso anch’io che una possibile fonte di retroazione negativa possa venire dalla triste scienza, anche se una drastico rallentamento della macchina economica potrebbe avere altri effetti negativi in altri punti del sistema, soprattutto a livello di anelli deboli. La sostenibilità econ-eco-logica della produzione mi pare pero’ uno slogan che per ora resta confinato nei discorsi degli ecologisti, per il semplice e solido argomento che senza il continuo aumento della produzione mancherebbe la materia prima per la re-distribuzione della ricchezza a favore dei meno fortunati. La nostra economia è imbrigliata in una fittissima rete di inter-retroazioni di interessi che paralizzano vie d’uscita alternative rispetto alla soluzione classica del “sempre di più”. Riprendo l’esempio del traffico da lei più volte citato: che senso ha incentivare ulteriormente, con misure “ecologiche”, il mercato automobilistico quando strade, parcheggi e autostrade sono perennemente intasate al limite del collasso? La retroazione negativa logica – il ridimensionamento del parco automobilistico circolante – è tuttavia impraticabile per una congerie di circostanze e potenziali effetti. Una drastica riduzione delle immatricolazioni avrebbe pesanti conseguenze sull’occupazione, che ridurrebbe la domanda interna, che farebbe ulteriormente contrarre i consumi in una spirale perversa verso l’implosione del sistema, foriera di altra disoccupazione, povertà, crisi sociale etc.. Probabilmente le retroazioni più efficace potrebbero arrivare in modo imprevisto da sviluppi tecnologici in settori che oggi non possiamo valutare con precisione, ad esempio dall’ipotesi di economia all’idrogeno avanzata da Rifkin, che ha tuttavia un retrogusto da albero della cuccagna o di paese di bengodi. Sarebbe una ristrutturazione epocale, in senso democratico e re-distributivo, dell’attuale cornice “entropica” del sistema.
Certo che svanirebbero d’incanto le guerre “giuste” e umanitarie, finalizzate in realtà a mettere le mani sul petrolio. Che ne pensano, in proposito, il Prof. Longo e Sylvie Coyaud?
> Si tratta di un tipico meccanismo di controllo: il sistema si porta via via
> all’equilibrio stabile, oppure oscilla intorno a un punto di equilibrio
> senza mai fermarvisi (si pensi al termostato, che fa oscillare la
> temperatura di un ambiente intorno al valore di riferimento fissato).
> Gregory Bateson riconobbe la presenza della retroazione positiva
> (interazione simmetrica) e di quella negativa (interazione complementare)
> in certi meccanismi sociali. Se per esempio il comportamento aggressivo di
> una componente sociale A provoca aggressività in un’altra componente B e
> l’aggressività di B scatena ulteriore aggressività in A, questa interazione
> simmetrica (retroazione positiva), attraverso un crescendo di aggressività,
> può portare al collasso della società. Se invece l’aggressività di A
> provoca in B un atteggiamento di sottomissione e la sottomissione di B
> provoca un calo di aggressività in A (interazione complementare, cioè
> retroazione negativa), la crisi può essere superata e la società si riporta
> in equilibrio.
In questi mesi abbiamo assistito ad una notevole conferma empirica delle ipotesi batesoniane di “cibernetica sociale” e all’emergere di una nuova forma di interazione, accanto a quella complementare e simmetrica, che chiamerei a complementarietà inversa.
Nel senso che alle minacce di guerra di B hanno corrisposto atti di collaborazione-sottomissione di S. Tuttavia l’aggressività del primo non è affatto calata, come vuole la teoria, ma si è sempre più acuita, abbracciando la logica del sempre di più, del rilancio continuo, del gioco “ti ho beccato figlio di p..” à la Berne, della vendetta a tutti i costi in stile favola di Esopo “il lupo e l’agnello”. Fin’ora le retroazioni negative della vecchia e infida Europa hanno trattenuto l’esplosione di aggressività a lungo covata. Ora aspettiamo le prossime mosse. A proposito, qual’e’ il ruolo e la sensibilità verso il principio di responsabilità dei pianificatori tecno-bellici che hanno orchestrato la prossima tempesta di ordigni intelligenti nel Golfo? Personalmente sogno questo genere di finale a sorpresa: S convoca una conferenza stampa mostrando alle TV di tutto il mondo gli arsenali di armi di distruzione di massa e chidendo pubblicamente scusa alla comunità internazionale – dopo tutto l’hanno fatto in tanti negli ultimi anni e sono stati sempre perdonati – per l’inganno perpetrato da alcuni apparati deviati dello stato e delle forze armate, prontamente arrestati e assicurati alla giustizia.
> Il sistema delle
> credenze fideistiche è forte, ma più forte ancora è il sistema delle
> autocredenze narcisistiche: il Nobel si lascia intervistare e, titillato,
> rilascia le sue pillole di saggezza a tutto campo, manifestando un
> godimento epidermico e interiore molto simile all’orgasmo trattenuto. Un
> po’ come sto facendo io, pontificando come un oracolo (cerco di prepararmi
> al Nobel…)
> Giusta la distinzione che fa Sylvie Coyoaud tra scienza e sue incarnazioni:
> purtroppo anch’io incontro sempre fenotipi. La scienza è lontana e
> inaccessibile, simostra solo per i suoi ministri, che si lasciano toccare e
> guardare: un po’ come Dio, che manda avanti i sacerdoti…
[L’exploit dei raeliani: un sorprendente esempio di connubio tra tecnologia e soprannaturale]
Sempre la recentre cronaca bio-giornalistica ci ha fornito un sorprendente esempio di connubio tra tecnologia e soprannaturale: l’explout dei raeliani che sono riusciti a coniugare manipolazione genetica ed escatologia, businness biotecnologico e fede nell’immortalità. Quale migliore esempio di a-teoria della tecnica (riproduttiva) e di plateale sorpasso-divaricazione tra scienza classica ed uso “cieco” delle tecnologie in stile scatola nera?
Ce’ solo un piccolo particolare.
Può bastare il semplice trasferimento di un nucleo per creare un vero clone-copia? La croni-storia socioculturale della persona è un semplice epifenomeno delle vicende biologiche, come vorrebbe il determinismo genetico? In realtà vi è un legame stretto tra varietà biologica e storia, nel senso che solo i percorsi bio-grafici conferiscono identità ed autonomia ad ogni organismo. Bio-logia e bio-grafia non sono affatto antitetiche ma sono due facce della stessa medaglia. La clonazione del patrimonio genetico non equivale ad un omologa riproduzione dell’identità personale, perché nessun essere può sfuggire (o replicare) una traiettoria di vita contingente ed irripetibile.
Per realizzare una copia perfetta sia dell’identità genetica sia di quella personale servirebbe, in parallelo alla clonazione, una CRON-azione vale a dire una ripetizione per filo e per segno dello sviluppo individuale, una replica in tutto e per tutto delle condizioni ecologiche di crescita, delle interazioni organismo-ambiente, delle scelte di vita, dei valori, delle preferenze personali etc…
Buona notte
G.Belleri
31 From:
vittorio bertolini <vittorio.bertolini@t…>
Date: Wed Feb 13, 2003 0:50am
Subject: diacronia scienza e tecnica
[Gli agrimensori egiziani hanno preceduto Euclide]
Nel discorso del prof. Longo emerge la diacronia, che col tempo si accentua sempre di più, fra scienza e tecnica. In particolare che la tecnica progredisce più rapidamente della scienza. Lasciando da parte, considerazione irrilevante, che senza la tecnica la ricerca scientifica non potrebbe sussistere, osservo solo che gran parte della storia ci insegna che la sistemazione scientifica è sempre avvenuta dopo. La geometria euclidea è nata dopo che gli agrimensori egiziani avevano già imparato a triangolare i campi dopo le piene del Nilo, e venendo a tempi più recenti Carnot ha fondato la termodinamica quando la macchina a vapore di Watt era già in funzione, e con la teoria delle onde elettromagnetiche del tempo la radio di Marconi non avrebbe dovuto funzionare.
[La sistemazione scientifica è sempre avvenuta “ex post”]
La stessa realizzazione della pila atomica di Fermi, che è il paradigma di una applicazione tecnica derivata dalla scienza, presenta alcuni elementi di empirismo. Se perciò è un dato che spesso la ricerca scientifica è una sistemazione ex post dei risultati delle invenzioni tecnologiche il problema si presenta del come giustificare una tecnica dalle conseguenze intrinsecamente imprevedibili. In questa situazione lo stesso concetto di responsabilità si appanna. Non credo però che questo ci autorizzi a pensare che dalla tecnica ci debba salvare un dio. Frankestein e Mabuse fanno parte della storia della letteratura e non della tecnica, mentre tutti i casi in cui la tecnica si è dimostrata contro l’uomo la colpa è da addebitare o alla cattiva politica o alla cattiva economia. Auschwitz è il prodotto del nazismo e non della tecnica, così come Chernobyl è stata la conseguenza del fallimento dell’economia sovietica. Smith ci ha insegnato che il nostro pane quotidiano lo dobbiamo più all’interesse del fornaio che al suo buon cuore. Così se la nostra tecnica sarà pro o contro l’uomo dipenderà dal sistema politico ed economico in cui scienza e tecnica sono chiamati ad operare.
32 From:
Domenico Lanfranchi <dolanf@l…>
Date: Thu Feb 13, 2003 1:07am
Subject: Adelante con juicio
I miei saluti a tutti i partecipanti al forum e le mie scuse perchè non scriverò nulla di originale, ma mi limiterò a richiamare alla memoria qualcosa che tutti sappiamo.
1. In generale l’operare ha preceduto il sapere.
I paleoantropologi ci dicono che l’homo abilis ha preceduto l’homo sapiens, qualcuno arriva a dire che l’abnorme sviluppo del cervello degli ominidi sarebbe dipeso dal fatto che l’acquisizione della stazione eretta avrebbe reso disponibile la mano per compiti operativi diversi dal puro sostegno; la conoscenza nasce per tentativo ed errore, solo dopo millenni di esperienze l’umanità arriva a qualche generalizzazione, cui negli ultimi secoli si è ritenuto di poter dare il nome di scienza. Pur con tutti i suoi progressi però la scienza non è nemmeno in grado di dirci a priori che cosa è commestibile e che cosa non lo è: ci sono voluti più di dieci anni di studi e tre casi di avvelenamento mortale per riconoscere che un fungo ritenuto commestibile dalla notte dei tempi è invece tossico (tricholoma equestre, cfr. Ordinanza Min. della Salute 20/08/2002; ma gli esempi si potrebbero moltiplicare).
2. La scienza ha sempre seguito la tecnica (almeno fino a qualche secolo fa): che si trattasse della conservazione dei cibi o del lancio delle frecce, delle erbe medicinali o della rotazione agricola, la spiegazione scientifica è arrivata molto tempo (secoli o millenni) dopo che le relative tecniche si erano affermate.
3. Anche la scienza moderna dipende al suo nascere dallo sviluppo tecnico, la tecnica infatti le fornisce non solo gli strumenti per effettuare le misure e compiere gli esperimenti, ma anche i modelli esplicativi per interpretare la realtà (andrebbe rivalutata la lezione di Vico sul “verum ipsum factum”).
[Una scienza ideale che ci consenta di evitare gli errori]
4. Ben presto si matura l’esigenza di una scienza che ci permetta di formulare a priori giudizi che estendano le nostre conoscenze o che si estendano al di là delle nostre attuali conoscenze. Si vagheggia una scienza che ci affranchi una volta per tutte dalla sequenza “tentativo-errore”, che ci consenta di scartare gli errori prima ancora di commetterli.
5. Tale scienza oggi non c’è se non molto grossolanamente, la scienza attuale ci consente di scartare alcuni errori (per lo più sulla base dell’esperienza, non so quanto a priori), ma non certo tutti.
Qualcuno forse crede che in passato una scienza simile ci sia stata ed allora immagina che certi problemi di divaricazione tra scienza e tecnica siano solo problemi di oggi, mentre sono problemi di sempre; oggi tali problemi sono più avvertiti per il livello cui è giunto il progresso tecnologico e scientifico.
6. Che fare? “Adelante con juicio” diceva Ferrer a Pedro nel tumulto di San Martino. Siccome tutto sommato continuiamo a procedere per tentativo ed errore, cerchiamo di analizzare a fondo gli errori per cercare di evitare di commettere quelli irreparabili.
7. Qualche domanda su scienza e democrazia: se invece che dall’Inquisizione Galilei fosse stato condannato da un’assemblea popolare, la condanna sarebbe stata democratica? se un’associazione neotolemaica rivendicasse l’insegnamento della teoria geocentrica nelle scuole con pari dignità rispetto a quella eliocentrica, possiamo rifiutarglielo? e se un referendum popolare dichiarasse efficace la cura Di Bella?
Saluti a tutti
Domenico Lanfranchi
33 From:
marlenedicostanzo@t…
Date: Thu Feb 13, 2003 9:39am
Subject: postilla a Bertolini
[“Solo un dio ci può salvare dalla tecnica” (Heidegger)]
su Auschwitz ha influito maggiormente la tecnologia della Farben Chemie (la ditta che produceva i gas) o il discorso di rettorato di Heidegger.
Forse dobbiamo pregare un dio che ci salvi dagli Heidegger?
34 From:
Massimiano Bucchi <mbucchi@g…>
Date: Thu Feb 13, 2003 9:55am
Subject: Re: Progresso e responsabilità: il passaggio dalla scienza alla
tecnologia
Trovo che il paper di Longo contenga diversi spunti interessanti.
Come sociologo non saprei valutare (e sinceramente non mi interessa più di tanto) se effettivamente siamo in presenza di una transizione dalla scienza alla tecnologia.
Credo che il dato sociologico fondamentale sia invece una trasformazione in termini di immagine pubblica della scienza e di strategie discorsive disponibili.
Che scienza, tecnologia (nonché politica, società e cultura) siano state intimamente legate sia dai tempi di Hobbes e Boyle è sostenuto da molti storici della scienza (per esempio Shapin e Shaffer, 1985). Ciò che è cambiato radicalmente è la possibilità di sostenere pubblicamente, da parte degli scienziati (ma non solo) la separazione di queste sfere.
[Scienza, tecnologia e politica: una sorta di gioco delle tre carte]
A lungo gli scienziati hanno fatto una sorta di gioco delle tre carte (sia
detto, vi prego, sine ira ac studio, poiché ho profonda ripulsa dei critici della scienza per partito preso), incassando al tavolo della tecnologia (o a quello della politica) e spendendo su quello della scienza ‘pura’, ‘neutrale’ e ‘disinteressata’.
Per vari motivi, non ultimo il ruolo dei media e dell’opinione pubblica (che a mio modo di vedere però ha radici storiche e sostanza più profonda per essere ridotto all’avvento di internet) questo gioco non è più possibile. Di qui varie conseguenze di questi anni in termini di crisi di legittimità e dello stesso concetto di responsabilità.
Finché il discorso ‘separatorio’ era argomentabile, infatti, la scienza poteva presentarsi coem sostanzialmente irresponsabile.
[Scienza: la responsabilità non può più essere spostata “altrove”]
Oggi, di fronte all’inestricabile connubio pubblico tra scienza,
tecnologia, politica ed economia la responsabilità non può più essere
spostata altrove.
35 From:
Matteo Merzagora <merzagora@l…>
Date: Thu Feb 13, 2003 11:54am
Subject: Re: Progresso e responsabilità : il passaggio dalla scienza alla tecnologia
Stimolato dall’intervento di Bucchi, vorrei contribuire riportando un passo dall’introduzione de “Il golem tecnologico“, di Harry Collins e Trevor Pinch, Edizioni di Comunità, 1998, con prefazione dello stesso Bucchi (ricordo che il libro è una seconda puntata, il primo si intitolava “Il Golem” e fu pubblicato da Dedalo nel 1995).
Ovviamente tutti i partecipanti a questo Forum conoscono il lavoro di Collins e Pinch, ma ricordare le cose buone è sempre un piacere. I due Golem sono una lettura illuminante, perché gli autori, in tutte le loro considerazioni, cercano di far riferimento a delle realtà: non certo LA realtà, ma almeno delle realtà. E’ già molto, ed è una delle cose belle del modo di fare (termine più ricco, ma più sfortunato, rispetto a “metodo”) della scienza.
[Da “Il Golem tecnologico” di Collins e Pinch]
“Mentre gli esperti di tecnologia sognano di raggiungere la perfezione propria della scienza, è proprio sull’affidabilità della tecnologia quotidiana che si fa spesso affidamento per dimostrare la durevole infallibilità della scienza: i razzi vanno sulla luna, gli aeroplani volano a 10 000 metri di altezza e lo stesso programma di videoscrittura con cui questo libro è stato composto sembra essere un tributo alla irrevocabilità delle teorie utilizzate nella sua progettazione. Ma c’è anche qualcosa di poco chiaro in questo ragionamento. […] Se è vero che la tecnologia è il sostegno della scienza, perché i fallimenti della tecnologia, quali la fusione del nocciolo a Chernobyl o l’esplosione della navetta spaziale americana, non sono considerati fallimenti della scienza? Dalla discussione sull’affidabilità della tecnologia deriva una clausola di “sconfitta non ammessa”: Chernobyl e lo Shuttle possono servire a verificare la scienza se funzionano correttamente, ma non possono danneggiarla se non funzionano. La clausola si rafforza ulteriormente in quanto i fallimenti della tecnologia sono presentati come fallimenti dell’organizzazione umana, e non della scienza.
Quando la scienza sembra poco sicura, la tecnologia è citata in sua difesa, e quando la tecnologia sembra poco sicura, la scienza è chiamata in soccorso; la responsabilità viene passata da una parte all’altra come la proverbiale patata bollente. Se poi la patata cade, si dice sempre che sono gli esseri umani ad averla fatta cadere.”
Matteo Merzagora
36 From:
Margherita Bologna <marghe@i…>
Date: Thu Feb 13, 2003 12:07pm
Subject: Caro prof. Longo
(ho il piacere di conoscerla in quanto sono romagnola ed ho frequentato un luogo chiamato Sissa). Inutile dire che sono d’accordo con buona parte della sua relazione.
Vorrei fare invece una breve osservazione sul punto in cui Lei afferma che la scienza tradizionale, rappresentata in particolare dalla fisica, ha subito un indebolimento in seguito alle scoperte fatte dalla meccanica quantistica A questo proposito Lei osserva che in conseguenza di ciò la scienza non può più perseguire l’ideale di una descrizione del mondo sempre più precisa e il grande sogno dell’Occidente di spiegare o di ricostruire il mondo per via razionale o formale non si è avverrato.
E conclude questa parte dicendo:”E’ un po’ come se l’attività scientifica e la spiegazione razionale si stessero avviando al tramonto e cedessero il passo ad una ragione pratica robusta e tracotante”.
[“Res cogitans” e “res extensa”]
Fine della scienza, dunque? O inizio di un nuovo paradigma filosofico-scientifico non più fondato sulla separazione cartesiana tra “res cogitans” e “res extensa” sulla quale poggia la visione della scienza che si va esaurendo? Forse il limite di questo paradigma sta proprio nel fatto di pensare che la mente, la res cogitans possa ordinare la molteplicità della natura (res extensa) dal di fuori, senza appartenervi, in quanto ragione disincarnata.
Le premesse per un cambiamento dei nostri schemi concettuali sono contenute nelle conclusioni alle quali è giunta la scienza attraverso un suo processo interno. Si potrebbe prendere l’avvio proprio dalla constatazione che più ci inoltriamo nelle profondità del mondo di cui facciamo parte più ci troviamo di fronte, come Lei dice, a massicce dosi di incertezza e disordine.
Se c’è la disponibilità a rivedere quella verità provvisoria della quale una scienza non dogmatica e conservatrice ma fedele ad un atteggiamento euristico è portatrice, è proprio la meccanica quantistica che ci permette di capire che non è più possibile pensare il soggetto e l’oggetto secondo i presupposti della separatezza cartesiana.
Ora sappiamo che il mondo fisico e la nostra storia biologica non sono regolati dalla causalità deterministica ma dalla probabilità, dalla possibilità evolutiva e non dalla necessità. Dalla storia, quindi e dal fluire irreversibile del tempo.
D’altra parte le neuroscienze (mi riferisco a Francisco Varela e ad Antonio Damasio) ci hanno mostrato che siamo un corpo che pensa ed in questa mente incorporata le emozioni ed i sentimenti, che erano stati banditi dalla ricerca scientifica in un secolo iperrazionale, hanno invece una funzione regolativi della razionalità stessa. Già perché la logica e la conoscenza hanno necessità di essere temprate dalle esperienze che abbiamo acquisito nel mondo reale. Essere logici e razionali non è di per sé una garanzia di essere in grado di prendere la migliore delle decisioni per noi e per gli altri.
E poi senza emozioni si depaupera la stessa abilità di ragionare. E allora perché dire che il corpo è uno “strumento”? Se lo concepiamo solo come res extensa, come una macchina, sarà facile addizionargli tutte le protesi possibili e immaginabili. Ma diciamo “sono stanco” e non “ho un corpo stanco” ed il linguaggio ci testimonia questa nostra imprescindibile unità.
Se prendiamo atto di questi presupposti forse le novità future potrebbero scaturire non solo dalla simbiosi tra umano e tecnologico ma anche dalla riconsiderazione della nostra collocazione all’interno della natura di cui siamo parte e non solo ordinatori. A meno che la tecnoscienza nella quale siamo immersi non ci abbia già interamente trasformati.
Grazie per l’ascolto
Margherita Bologna
37 From:
Giovanni Maria Borrello <borrello@f…>
Date: Thu Feb 13, 2003 5:28pm
Subject: Re: progresso e retroazione
Marta MURA wrote:
>ben consapevoli di tutto ciò, perchè non si mettono in
>atto politiche che ci salvaguardino meglio, invece di
>scoprire l’acqua calda a distanza di tempo?
Compriamo mai un ombrello in un giorno di sole?
38 From:
Giovanni Maria Borrello <borrello@f…>
Date: Thu Feb 13, 2003 5:34pm
Subject: Un sottile strato di muschio
Giuseppe O. LONGO wrote:
>Il genere umano sta distruggendo a grande velocità le altre specie viventi,
>anzi è autore di una delle più grandi estinzioni di massa che si conoscano.
>Non per questo la vita scomparirà: il biota si assesterà su altri livelli
>di equilibrio, ma può darsi che il nuovo equilibrio non contempli più l
>presenza di questo catastrofico Homo sapiens. Del resto sono scomparsi i
>dinosauri, che per centinaia di milioni di anni avevano dominato tutte le
>nicchie biologiche…
[Hybris]
I greci parlavano di “hybris” quando qualcuno decideva che poteva essere lui, e non gli dei, a controllare la propria vita, o il tempo, o qualcosa di altrettanto impossibile da controllare.
E, ancora, qualcuno ci ha convinto che, visto che la maggior parte delle religioni hanno perso il loro fascino, ci siamo improvvisamente trasformati in dei. Che siamo diventati i padroni del pianeta e i custodi dello “status
quo”.
A proposito della sicumera e della presunzione dell’homo sapiens, sentite un po’ che cosa dice quel pazzoide iconoclasta di Kary Mullis (Nobel per la Chimica nel 1993: ha inventato la più diffusa tecnica di replicazione del Dna):
“Mi ricordo una vignetta. Un uomo delle caverne sta dando in escandescenze di fronte alla sua grotta, fissando la luce di un lampo e puntando un dito accusatore contro il proprio compagno e il fuoco che arde all’imboccatura della caverna. “Non si era mai visto niente del genere, finché non hai cominciato a fare quella roba”.
(…)
Oggi viviamo in un’epoca interglaciale, una vacanza per l’ “homo sapiens”.
Possiamo sederci fuori dalla caverna su una poltrona da giardino, o tagliare il prato invece di spalare la neve.
(…)
Noi siamo un sottile strato di muschio su un masso voluminoso. Siamo un piccolo fenomeno biologico che produce parole, pensieri, bambini, ma non arriviamo neanche a solleticare le piante dei piedi al pianeta. Picconiamo e scaviamo la sua superficie più esterna, e la dividiamo in quadratini a nostro uso e consumo. Guardiamo le stelle, e pensiamo che anche quelle siano lì per noi. Nonostante l’immensità di ciò che abbiamo di fronte, continuiamo a farci su noi stessi le idee più bizzarre.
(…)
Anche con tutti gli strumenti di cui disponiamo, lunghi tubi piazzati sulle montagne, e un telescopio Hubble nello spazio, siamo ciechi alla miriade di complesse energie che ruotano, vibrano e pulsano intorno a noi giorno e notte, anno dopo anno, millennio dopo millennio. Il comportamento più adeguato per un essere umano è quello di sentirsi fortunato di essere vivo, umile di fronte all’immensità del tutto. Magari facendosi una birra.”
E, riguardo alla Scienza e al suo edipico rapporto con i soldi e con i media:
“Le leggi scientifiche non sono credenze: per il semplice fatto di essere dimostrabili. Quando esperimenti realizzati nel nostro secolo hanno dimostrato che le leggi di Newton sulla gravitazione universale non erano sufficientemente accurate, esse sono state cambiate, nonostante la buona reputazione di Newton e il fatto che è sepolto a Cambridge.”
(questo richiama alla mente anche il discorso su Scienza e Democrazia…)
E poi:
“La relatività si adatta di più alla realtà. E’ così che funziona la scienza da almeno quattro secoli, ed è grazie alla scienza –non alla religione e alla politica– che anche gente come voi o me può possedere cose per cui solo un secolo fa i re avrebbero fatto la guerra.”
(discorso dei nonni… v. precedenti interventi di ROSSETTI, LONGO e ALTRI, anche se lì si parlava di tecnica… ma ormai sappiamo che l’una o l’altra pari sono)
E continua:
“Il metodo scientifico non dovrebbe essere preso alla leggera.
Le mura della torre di avorio della scienza sono crollate quando i burocrati si sono resi conto che era possibile ottenere denari e posti di lavoro gestendo e promuovendo la ricerca.
(…)
Gli scienziati hanno dimostrato di non essere solo un branco di pazzoidi che non avevano niente a che vedere con il mondo. Non erano –e non sono mai stati– dei tizi assolutamente inutili che se ne stanno nei loro laboratori a giocare con i regoli calcolatori. Sono bastati alcuni di loro, con qualche strumento e una valida motivazione, per fare una bomba che avrebbe instillato il timor di Dio nel cuore di Attila.
Nella società del dopoguerra, sarebbe stata la scienza a determinare l’equilibrio dei poteri. E i governi hanno cominciato a investirci seriamente.
(…)
I fondi disponibili sono molto contesi. Ma quello che dovremmo chiederci è: ‘Che cosa state facendo –che sia utile a noi– con in nostri soldi?’
(…)
Seguite il rivolo di denaro che scorre dalle vostre tasche ai laboratori, e vedrete che passa attraverso i politici che hanno bisogno di voi, e i gruppi di interesse che vi indottrinano attraverso i mezzi di comunicazione.
(…)
La gente crede a queste e a molte altre cose non perché ne abbia le prove, ma perché è ingenua: si tratta di convinzioni basate sulla fede. Ma qui non si tratta di questioni trascendentali che hanno a che vedere con un credo. E’ difficile indagare su alcuni di questi problemi, perché non è agevole fare esperimenti con la vita quotidiana delle persone, ma si tratta comunque di affermazioni che possono essere confermate o smentite. In caso contrario gli scienziati non avrebbero motivo di occuparsene.”
E –ma in modo intenzionalmente ironico e provocatorio– a proposito della debolezza scientifica della medicina (v. primo intervento di BELLERI):
“Newton non avrebbe permesso che qualcuno arrivasse alla Royal Society a parlare di grassi saturi e attacchi di cuore, perché queste teorie, come molte delle sciocchezze dalle quali veniamo quotidianamente travolti sono solo ipotesi, in attesa di ulteriori studi che probabilmente non saranno mai realizzati.”
Infine, naturalmente ce n’è anche gli scienziati come casta sacerdotale:
“Gli scienziati che fanno affermazioni categoriche su futuri disastri ecologici e sostengono che gli uomini sono responsabili di tutti i cambiamenti in corso sono fortemente sospetti. Dovete sapere che intenzioni hanno. E dovete riuscirci da soli: ognuno per sé, come sempre. Ringraziate la sorte che non abbiano cambiato vesti né abitudini: continuano a indossare abiti bianchi, come sacerdoti, e a evitare i lavori pesanti. In questo modo è più facile identificarli.”
🙂
(Kary Mullis, “Ballando nudi nel campo della mente“, Baldini & Castoldi, 2000, Milano, pp. 222)
Date un’occhiata PERO’ anche a cosa ne disse Yurij Castelfranchi nella recensione che fece per il Manifesto: è citata nelle News del 10 gennaio 2001 (in fondo), nel sito della Fondazione Bassetti, in
<https://www.fondazionebassetti.org/02/archivio-news/news06-doc.htm#010110>)
Gian Maria Borrello
39 From:
marta mura <marta_mura@y…>
Date: Thu Feb 13, 2003 6:18pm
Subject: Re: progresso e retroazione
Giovanni Maria Borrello <borrello@f…>
ha scritto:
> Marta MURA wrote:
>
> >ben consapevoli di tutto ciò, perchè non si
> mettono in
> >atto politiche che ci salvaguardino meglio, invece
> di
> >scoprire l’acqua calda a distanza di tempo?
>
> Compriamo mai un ombrello in un giorno di sole?
>
dopo due volte che ho preso l’acqua, io l’ombrello ce l’ho sempre dietro, anche se al meteo mi dicono che non pioverà, ed anche se la mia borsa pesa di più…:-)
40 From:
longo@u…
Date: Thu Feb 13, 2003 6:27pm
Subject: sole 24 ore
terza replica:Longo risponde 13 febbraio 2003
cari amici del seminario,
vorrei concludere la mia replica a Guido. La questione del libero arbitrio è spinosa quanto quella del “caso” e anch’essa è legata all’opposizione determinismo/casualità. Secondo alcuni il libero arbitrio è una sensazione soggettiva, derivante dall’ignoranza di molte delle condizioni che stanno alla base della decisione presa. Chi conoscesse a fondo tutte le circostanze sarebbe costretto a una scelta deterministica. E’ chiaro che la locuzione “tutte le circostanze” invoca un’onniscienza che possiamo solo attribuire a entità superumane. Dunque di fatto il libero arbitrio esisterebbe (non esisterebbe per Dio, che, vista la sua onniscienza, sarebbe obbligato alle scelte che fa: ma qui si entra in un campo molto sdrucciolevole…). Un osservatore A che osservi B prendere una decisione ma conosca più circostanze di quante ne conosca B potrebbe dichiarare che la scelta di B è “obbligata” da quelle circostanze che B ignora. Ma a sua volta un osservatore C che osservi A e B e conosca più circostanze di A potrebbe concludere che A ha torto e che B sta davveroesercitando il suo libero arbitrio… Così argomentando il libero arbitrio, che per tradizione fa parte del territorio etico o morale, si trasferirebbe nel territorio empirico-conoscitivo. Le nozioni di responsabilità, di colpa, di peccato, di redenzione e via elencando, che sono intimamente legate al libero arbitrio, si collocherebbero in una prospettiva diversa (si ricordi Socrate: chi conosce il bene non può non farlo; e il codice afferma che l’ignoranza della legge non cancella la colpa…). E’ forse una forma di riduzionismo della morale alla cognizione?
Quanto all’animismo cui accenna Guido alla fine, non ho ben capito la sua osservazione: vorrei che me la chiarisse.
A Schiavon farei notare che la sua opinione sulla neutralità dell’accrescimento del sapere (che costituirebbe solo una “potenza” o potenzialità) urta contro molte opinioni correnti, in particolare contro molte delle posizioni implicite o esplicite espresse dai partecipanti a questo seminario (ai quali tutti va il mio rinngraziamento perché mi offrono un’esperienza davvero bella!). In particolare mi riferisco all’intervento di Massimiano Bucchi, che offre un quadro sintetico ma incisivo della transizione tra la separabilità e la non-separabilità di scienza, tecnologia e “altro” (politica ecc) (tutto ciò sa molto di meccanica quantistica, dove alla fine fine si scopre che ogni fenomeno pare inseparabile da ogni altro e che solo la nostra volonterosa tassonomia elencatoria introduce nelmondo separazioni, confini e barriere…). Secondo l’ideologia progressista, di tutto si può parlar male (ma solo a posteriori, sì, purtroppo, come sottolinea Marta Mura, una volta accertati gli effetti negativi, ma, come osserva Giovanni Maria Borrello, chi compera un ombrello quando c’è il sole?…), ma non si può parlar male dell’accumulo del sapere, che di per sé è sempre e comunque positivo.
Peccato però che questo sapere non possa fare a meno di interagire con una realtà ben più materiale e, in particolare, accoppiarsi fortemente con la tecnologia (e sono grato ad Alphonse vajo per aver sottolineato il passaggio della relazione in cui sotolineo questo legame inscindibile anche se forse, ancora, asimmetrico.
Conoscere e agire sono due facce della stessa medaglia, il legame tra informazione e supporto è primario e inscindibile, non esiste conoscenza (scienza) disincarnata (vedi Sylvie Coyaud), e in senso molto lato. Nella fase di acquisizione del sapere la tecnologia ha avuto e ha una funzione importante (e col tempo forse sempre più importante), e qui concordo con Vittorio Bertolini: separare la scienza dala tecnica è un’operazione mentale (ma serve anche a moltiplicare i saperi, gli specialismi, le cattedre: quindi ha anche dei risvolti pratici cospicui…). Tanto che anche i saperi che sembrano più astratti sono in effetti tributari degli strumenti: basta pensare all’influenza che ha avuto il calcolatore sulla matematica. Solo un manipolo di idealisti ritiene che la matematica sia una creatura iperurania, immutabile, incorruttibile e via -ibilando. In effetti il calcolatore sta modificando la nozione di dimostrazione euclidea! Cioè sta modificando quello che pareva il pilastro intangibile della costruzione matematica…
Quando il sapere è in fase di accumulo dunque la tecnologia è importantissima (del resto, se vogliamo essere cinici, anche il nostro corpo è una sorta di “macchina da sapere” e non se ne può fare a meno, per ora almeno). Quando poi le conoscenze sono lì, accumulate nei cervelli, nei libri, nelle formule, nelle memorie elettroniche, ecco che sprigiona una tensione, una pressione, una “volontà” di uscire nel mondo e incorporarsi, brama di uscire: allora solleticato da abili dita prorompe e si trasforma in strumenti, in prodotti, aiutato in ciò sempre più, e condizionato, dal tintinnare delle monete (vedi Schiavon). E’ una caricatura molto riduttiva di un quadro ben più complicato, come molti dei contributi testimoniano (in particolare di Vittorio Bertolini e di Domenico lanfranchi, ma anche di altri).
Il punto che vorrei sottolineare è che sta venendo meno una sorta di paradigma (a forti tinte ideologiche, vedi anche Domenico Lanfranchi, specie il punto 5) basato su una tradizione filosofica risalente a Platone, per il quale la razionalità teorica è superiore alla conoscenza empirica (vedi Cartesio e i suoi figli e nipoti). L’intelligenza che ci consente di dimostrare un teorema è superiore a quella che ci consente di attraversare una strada piena di traffico o di mangiare per molti decenni senza infilarci quasi mai la forchetta in un occhio invece che in bocca. Credo che questo pregiudizio sia dovuto alla consapevolezza dell’attività di tipo razionale (fare un teorema richiede l’intervento della corteccia), mentrele attività di tipo corporeo sono “cablate” molto in profondità e sono quasi inconsapevoli. Siamo molto più fieri della nostra cpacità argomentativa che della nostra (ovvia) destrezza demabulativa (tranne casi atletici eccezionali, su cui molti fanno pesanti ironie: tutto muscoli e niente cervello…). Questa preminenza ha portato a identificare l’attività scientifica con una sorta di angelica e disincarnata produzione teorico-astratta, meglio se simbolico-matematica. E’ questa concezione che secondo me sta tramontando, sta cedendo il posto a una maggior consapevolezza dell'”intelligenza del corpo”, a una rivalutazione esplicita della tecnologia (tecnologia che è coeva alla nascita dell’uomo, mentre la scienza “astratta” è una creatura molto tarda). In questo senso, come sottolinea Massimiliano Bucchi, è una questione anche di “strategie discorsive”, cioè di immagine, di rappresentazione pubblica.
Per inciso: è vero che la geometria nasce dalla pratica degli agrimensori egizi, ma il salto di qualità dovuto ai Greci, il valore aggiunto fornito da Euclide e f.lli è tale che la matematica comincia a diventare altro che una stenografia o una tabella di ricette mensurali. Basta leggere qualche volume di analisi matematica (diciamo di Bourbaki) per rendersi conto che da un certomomento in poi il formalismo procede per la sua strada come una macchina (semi)automatica che ad alcuni procura veri brividi di piacere intellettuale (sì, ci sono le endomorfine da matematica…). E’ anche chiaro che questo tentativo di astrarre l’attività scientifica (penso alla fisica-matematica) da tutto il resto (dal corpo) è destinato la fallimento, tuttavia a lungo l’uomo ha accarezzato la possibilità di fornire una descrizione linguistica (astratta) totale del mondo e l’impresa dell’intelligenza artificiale funzionalistica è, in questo senso, il culmine del tentativo: il “fallimento” delle sue pretese, dovuto forse a una mancanza di chiarezza nella formulazione dei fini, ha ulteriormente indebolito la pretesa di tradurre il mondo in linguaggio formale.
Sollecitato dal punto 7 di Lanfranchi, apro una parentesi sulla democrazia: sono sempre più incerto, le mie idee sulla democrazia sono sempre più confuse, non so come rimediare a questo sgretolamento progressivo non di certezze (non credo di aver mai avuto certezze, men che meno sulla democrazia) ma di capacità empiriche d’uso e di riconoscimento… Chi mi aiuta?
Altra parentesi (sempre il punto 7): la teoria geocentrica non è “sbagliata”, le sfere armillari con la terra al centro sono macchine meravigliose che riproducono con grande precisione i moti degli astri intorno a noi; è solo più complicata, perché l’assunzione del sole come punto di riferimento (origine delle coordinate) semplifica di molto calcoli, rappresntazioni e così via.
Il caso Di Bella: che cosa significa dire che la “cura Di Bella” (o qulunque altra terapia) è efficace? Efficace rispetto a quale parametro (guarigione clinica accertata coi mezzi diagnostici del 2003; mantenimento dello stato di salute per un’ora, un giorno, un mese, un anno, un decennio…; miglioramento delle condizioni psicologiche del paziente, stato di serenità nel momento del trapasso inevitabile, alleviamento dei dolori… ecc)? Sulla nozione di efficacia in medicina si dovrebbe riflettere molto. Prego esplicitamente tutti i miei interlocutori di non prendere questa come una difesa del metodo Di Bella, ma come un invito a una riflessione che superi i luoghi comuni, le frasi fatte, la virtus dormitiva, i presupposti dogmatici. In fondo il problema, formidabile, di ogni medico è: che cosa posso fare per il “mio” paziente?
Non posso che concordare con Giuseppe Belleri sulla sua disincantata analisi dei guai che provocherebbe un’inversione volontaria e repentina delle tendenze del nostro sistema economico e produttivo. Come concordo perfettamente con l’insufficienza del codice genetico nella costruzione di un individuo: ci vorrebbe proprio la cron-azione (bello!) per riprodurre o replicare un essere vivente (anche molto meno complesso di un umano): ma il fascino della semplificazione riduzionistica si allea con i persistenti sogni demiurgici dell’uomo. Dopo aver creato un Dio onnipotente e creatore, l’uomo occidentale (religione monoteista giudeo-cristiana) ha tentato di adeguarsi alla sua creatura prentendendo di essere lui stesso creatore di sé stesso… Insomma, un bel guazzabuglio. E l’ingegneria genetica più di qualunque altra tecnologia o bricolage (non scienza nel senso classico, teorico, greco-platonico) sembra autorizzare questi sogni. C’è una provincia del post-umano abitata non da fenotipi bensì da codici larvali e fantasmatici.
La domanda che Marlene Di Costanzo rivolge a Vittorio Bertolini è cruciale e si presta
1) a un’osservazione banale ma doverosa: le cause degli eventi sono sempre molteplici (se non nei modelli semplificati della scienza): quindi Heidegger e la tecnologia ma anche la genetica e la storia dell’umanità… e
2) a un’altra autocitazione (scusate l’incontinenza): … spuntavano già come pallide ombre le foto che avrei visto di lì a qualche mese a casa di Sasha, frugando nella sezione proibita dell’immensa biblioteca di suo padre, le foto in bianco e nero della vergogna, le montagne di occhiali, o meglio di filiformi montature con le stanghette d’acciaio ricurve, ben visibili quelle prossime all’obbiettivo, con le loro tonde orbite vuote, confondendosi invece quelle lontane in un groviglio come di granchi ammassati in una convulsa agitazione di chele e di zampe fermata dall’istantanea, raccolti i granchi a palate su qualche fredda spiaggia del Baltico per essere cotti e mangiati e poi invece lasciati a imputridire sotto un pallido sole o nella neve già macchiata dalle liquide deiezioni brunastre della marcescenza, e in altre foto i forni, ma non per la cottura dei granchi bensì per la cremazione consunzione incinerazione dei cadaveri introdotti con operosa ininterrotta alacrità nelle bocche semicircolari chiuse da rugginosi sportelli, forni e sportelli e condutture per l’afflusso del combustibile costruiti da collaudate ditte del Terzo Reich, perché bisogna pure che qualcuno li abbia costruiti, quei forni, e collocati nelle armature di mattoni e calcina, dopo aver vinto un regolare appalto con offerte segrete, presentando progetti conformi alle specifiche richieste, capacità calorica e velocità di smaltimento e facilità di asportazione delle ceneri e delle parti incombuste e tutto, e vincere l’appalto significava assicurarsi una fortuna in marchi, vedi come tutto si trasforma in denaro, anche la carne macerata dai digiuni, levigata dai colpi, consumata, piallata, battuta, sforzata fino a ridurla a una sfilacciatura, a un guscio, a un cartone buono appunto da ardere in quei bassi e ridicoli forni, tanto più orribili in quanto bassi e tanto più tremendi in quanto ridicoli, con quei tozzi camini che per mesi e mesi avevano eruttato giorno e notte torridi miasmi su tutta la circostante pianura coperta di neve e di larici, neve e larici che non avevano impedito nulla di nulla, come se una legge obbligasse o almeno consentisse di far finire tante vite in quei forni, o meglio i segnacoli ultimi di tante vite, dopo il passaggio per le camere, corpi fra corpi, montagne di membra coperte di viscidi escrementi, e nel guardare quelle foto si faceva strada per la prima volta il senso dell’infamia dell’abiezione della gioiosa crudeltà del genere cui mi trovavo ad appartenere.
Sulla democraticità della scienza, Alphonse Vajo ha ragione: ma quello che intendo dire è che se il metodo scientifico, in linea di principio, è democratico perché non si nega a nessuno, tuttavia in pratica pochi possono praticare la scienza, così come pochi possono praticare l’atletica: occorrono muscoli, allenamento, scarpette e giubbini adatti, e non tutti posseggono questo corredo. Tutti possiamo fare scienza a livello di dilettanti, ma qui si parla d’altro. La situazione diventa ancora più asimmetrica quando la scienza esce dalla portata dell’individuo per riguardare gruppi e squadre ben attrezzati e finanziati. E’ un’ulteriore forma di delega tecnologica e specialistica, che mette ancora di più in crisi la nozione ingenua di democrazia.
Ringrazio Marta Mura per la sua generosità: ma la generosità è dei miei interlocutori che mi offrono tanti spunti e tante occasioni per correggere e precisare i miei troppi e troppo vaghi pensieri. Alessandra Grazia si allea ad Alphonse Vajo chiedendomi di precisare il mio atteggiamento verso la tecnologia: poiché, com’è stato colto, è un atteggiamento ancipite se non addirittura ambiguo, non mi è facile rispondere. Di fronte a un oggetto così multiforme e con radici così profonde in tanti aspetti della nostra cultura e società è difficile assumere un atteggiamento unitario, coerente e immutabile. Inoltre la mia inveterata abitudine all’analisi (cui ha contribuito anche la mia attività di ricerca) m’impedisce di prendere posizioni nette, perché subito vedo le obiezioni possibili. Non ho saltato nessuna tappa del tirocinio scientifico e della pratica di ricerca, ma proprio perché la conosco dall’interno non posso fermarmi alla razionalità: sento il bisogno di andare oltre, senza preoccuparmi troppo delle critiche di chi si sente già arrivato e sta bene nella casa del rigore scientifico.
E cerco di essere tollerante: non amo le crociate, le chiese, le sette, i dogmi, i partiti, il paternalismo, gli anatemi, i proclami e i manifesti, insomma non amo l’assolutismo, neanche quello che si fa scudo della ragione: e anche questa è una lezione che ho appreso dalla scienza. Credo che ciascuno abbia il diritto di cercare la propria strada, la propria felicità o pienezza, nei modi che meglio crede, vivendo anche nel paradosso e nella contraddizione. Perché il paradosso e la contraddizione vengono poi superati dal traguardo finale, dalla “livella” che pareggia comunque i conti per tutti. E’ una posizione individualista, la mia, nella quale tuttavia non mi rinchiudo: sono sempre disposto a comunicare, a dialogare, a rimettermi in discussione. E sono pronto a offrire agli altri ciò che ho conquistato, sia pure a fatica, ciò che ho appreso, sia pure in via provvisoria, ciò che ho scritto, sia pure con sofferenza e trepidazione.
Insomma, sì: odio e amore. La tecnologia rappresenta per l’uomo un “doppio vincolo” alla Bateson analogo al dilemma senza uscita di fronte al quale si sono trovate le culture tradizionali nei confronti della cultura occidentale: farsi fagocitare accettando una trasformazione snaturante richiesta dall’adattamento ai nuovi schemi, oppure resistere, mantenendo la propria natura, cosa che potrebbe portare alla morte per inedia culturale in seno a un più ampio sistema ostile e incompatibile?
Così l’uomo di fronte alla tecnologia: adattarsi ad essa (cioè all’evoluzione bioculturale) subendo un inevitabile snaturamento? Oppure resistere (e poi, a che livello: di singolo, di città, di comunità, di nazione, di specie?) e “morire” per l’inevitabile avanzata del progresso tecnologico alimentata dal denaro e dal mercato?
E quando dico “inevitabile” non sono ottimista, come ritiene l’amico Leone Montagnini, anzi inclino un po’ al pessimismo (prevale forse un tantino l’odio sull’amore, ma si sa che fra i due c’è un confine labilissimo…).
In molti miei scritti mi sono chiesto in modo esplicito perché molti umani s’ingegnino con tanto accanimento a costruire qualcosa che li trascende, li trasforma in altro e forse li assoggetterà a sé. Non ho risposte. Forse sentiamo che la nostra fine (castigo?) è imminente (residuo delle leggende bibliche prometeiche della mia infanzia) e desideriamo trasformarci in macchine per sopravvivere in qualche modo (ma non saremo certo “noi” a sopravvivere). Forse è una semplice deriva evolutiva: come si è passati dagli organismi unicellulari ai metazoi, così ora si sta passando alla creatura planetaria (molti mi hanno nominato Pierre Levy, ma non ho ancora avuto il tempo di leggerlo). Sono scenari pieni di fatalità, nei quali non c’è molto posto per il volontariato o per la solidarietà: anzi, conviene chiudere gli occhi per non soffrire (chi ancora soffre).
Anch’io sono preoccupato dal possibile tramonto della scienza che conosco e che ho coltivato, ma tento un’impresa impassibile e impossibile: di individuare i segni e le forme della cognizione prossima ventura, quando la nostra ibridazione con le macchine sarà ancora più spinta. Quand’ero studente, lo studio di una funzione poteva richiedere anche qualche ora (massimi, minimi, flessi, comportamento asintotico, discontinuità…): ora basta impostare i dati e premere un tasto e la nostra protesi mentale ci fornisce una risposta in pochi icrosecondi: che cosa si perde, che cosa si guadagna, che cosa significa tutto ciò? La macchina è lì, non possiamo disinventarla. Prima le macchinette per fare le quattro operazioni hanno “liberato” i ragazzini dalla noisa delle tabelline, poi i programmi più raffinati hanno liberato i ragazzoni dallo studio dell’analisi… Li hanno liberati perché possano fare… che cosa? Forse perché possano costruire macchine che liliberino dai professori… Certo è che i miei studenti non “sentono” più la necessità di una dimostrazione rigorosa… Insomma vorrei tentare di separare l’osservazione di certe tendenze dalla valutazione di queste tendenze.
Parentesi (Andrea Rossetti e Leone Montagnini): non solo la parola “scienza” ha invaso le università (concediamo qualcosa alla vanità e al senso di inferiorità che i colleghi delle discipline umanistiche provano nei confronti delle scienze esatte…) ma ha invaso ben altro: quando sento alla radio o allaTv che un prodotto è stato “scientificamente testato” un odio mi assale che si trasforma in rigurgiti impotenti di bile… Povera scienza (o scienze, a scelta)!
Parentesi: l’amico di Montagnini che scriveva con la matita è diventato un bell’esempio di simbinte tecnologico! Ma il simbionte è dentro di noi, non aspetta altro che la possibilità di manifestarsi gioiosamente e barbaricamente!
Ringrazio Andrea Rossetti per le sue repliche: sono d’accordo che il nostro “modello” di sviluppo non sia esportabile, ma credo che sia anche poco “sostenibile” perché si basa su una divaricazione quasi programmatica tra etica-estetica ed economia-tecnologia. E’ lo scollamento tra questi aspetti che sta alla radice di molti disadattamenti (crisi): individuale,urbano, ambientale. L’estensione dei diritti fondamentali pone un problema formidabile: quali sono questi diritti? Estendere a tutti i terrestri i diritti di consumare (che parola tremenda!) quanto gli Stati Uniti significherebbe la morte sicura dell’umanità. Ma, si obietterà, anche gli altri hanno diritto di godere dell’abbondanza di cui abbiamo goduto e godiamo noi. No: non esiste un teorema del genere, che assicuri un benessere materiale crescente per un numero crescente e pìotenzialmente illimitato di persone. La storia è irreversibile è caratterizzata dalla freccia del tempo: chi è arrivato prima a sedersi al tavolo dell’abbondanza è stato fortunato. Chi tardi arriva male alloggia. Le generazioni future hanno torto perché sono assenti. Può darsi che la cuccagna finisca, chi ha avuto ha avuto, ora spegniamo le luci e ce ne andiamo.
Come sono cinico! Ma la storia è ancora più cinica. Forse il nostro benessere è solo una fluttuazione statistica destinata a riassorbirsi: mettendoci in quest’ottica sapremo affrontare meglio la penuria che forse ci colpirà…
L’accostamento tra tecnologi e cartomanti era fatto considerando le aspettative dell’utente: volevo dire che pur di farsi cullare da attese miracolistiche molti ricorrono senza andar troppo per il sottile a chi promette i miracoli: quanti venditori e piazzisti imbrogliano il prossimo pur non essendo cartomanti! Tecnologi e cartomanti: non conosco direttamente questi ultimi, ma conosco molti dei primi. Non sempre lavorano per il “bene” dell’umanità. Spesso seguono l’impulso ormonale alla ricerca e all’innovazione e il miglioramento del mondo non li tocca. A volte seguono solo l’impulso ormonale al profitto. Non tutti sono così, certo, conosco uomini (e donne) esemplari per generosità e senso etico anche fra i tecnologi.
Intelligenza connettiva: no, non mi pare, almeno non è questa la mia intenzione, che considerare l’intelligenza come un fenomeno comunicativo comporti ridurla a un insieme di algoritmi. In effetti non mi pare di aver parlato di “un insieme di relazioni organizzate”, espressione che può dare un’impressione algoritmica, finitistica e discreta. La difficoltà, credo, sta nella definizione di intelligenza, che non è data (e forse non si può dare) in termini precisi. Sono convinto, ma non lo posso dimostrare, che ogni forma d’intelligenza è legata al suo supporto e alla sua storia.
Questo legame è molto intimo per l’intelligenza umana, che non si può trasferire (come pretende il funzionalismo) su un altro supporto senza perdere molte delle sue caratteristiche (per esempio il fondamentale legame tra il corpo e il resto del mondo). In altri casi questo legame è più debole: posso trasferire un’intelligenza di tipo algoritmico (ammesso che esista) da un calcolatore a un altro senza che ciò comporti gravi distorsioni. Sono convinto anche che l’intelligenza umana nonsia del tutto algoritmica (e non mi si chieda: che cos’altro potrebbe essere? perché la risposta viene implicitamente richiesta in termini algoritmici).
L’ipotetica intelligenza di Internet sarebbe certo condizionata dal supporto, ma la presenza nel supporto delle componenti umane le impedirebbe di essere del tutto algoritmica: certo, sarebbe aliena, ma non “completamente” se questo avverbio significa l’impossibilità di interazine comunicativa. Del resto anche con quelle macchine stupidissime che sono i calcolatori attuali noi riusciamo a comunicare nonostante la grande differenza delle nostre “intelligenze”. So di essermi spiegato male, ma su richiesta posso rinviare a un po’ di bibliografia.
Grazie a Matteo Merzagora per averci richiamato a Collins e Pinch.
Considero il loro un contributo importante: hanno saputo portare chiarezza nel delicato rapporto tra scienza, tecnologia e vita quotidiana mettendone in luce le complessità, mentre tanti lo intorbidano cercando di semplificarlo.
Sono ancora in debito:
– esplicitamente con Sylvie Coyaud (i suoi quiz!…), con Margherita Bologna e con Giovanni Maria Borrello
– e implicitamente con tutti: non salderò mai questo debito…
Parentesi (finale per oggi): mi scuso per la prolissità, per gli errori di battitura e per le stupidaggini. Non tutto è da imputare al mio Macintosh.
41 From:
vittorio bertolini <vittorio.bertolini@t…>
Date: Thu Feb 13, 2003 6:29pm
Subject: riflessionwe su merzagora
[Chernobyl e il controllo del rischio]
Nessuno, nemmeno il tecnofilo Rossetti, crede la scienza e la tecnologia siano fallibili. Non c’è scienziato oggi che voglia rifarsi alla teoria del flogisto. E il disastro di Chernobyl, anche se prima facie è un errore tecnologico, è più da addebitare alla mancanza di controllo del rischio. Nel medesimo periodo si è verificato qualcosa di analogo a Long Island e le conseguenze sono state infinitamente inferiori. Credo però che il prof. Longo non si voglia riferire tanto alla scienza normale o alla tecnologia normale, nel senso di Kuhn, il cui buon funzionamento dipendono dal sistema socio-economico in cui operano. Sono le nuove tecnologie della vita, comprese quelle informatiche che simulano alcune facoltà umana (sul supplemeto scienze del corriere di questa settimana vi è la notizia che in una università amricana è in progetto un umanoide che riesce a capire alcuni sentimenti umani, la tristezza ecc.). Siamo di fronte perciò a una una svolta nel percorso dell’evoluzione umana. Ed è su questo che si misura la responsabilità dello scienziato. E visto che domani è San Valentino, può darsi che il nuovo golem abbia la forma accattivante di …..
42 From:
Giuseppe Belleri <bellegi@i…>
Date: Thu Feb 13, 2003 7:46pm
Subject: Re: Caro prof. Longo
—– Original Message —–
From: “Matteo Merzagora” <merzagora@l…>
Stimolato dall’intervento di Bucchi, vorrei contribuire riportando un passo dall’introduzione de “Il golem tecnologico“, di Harry Collins e Trevor Pinch, Edizioni di Comunità, 1998…omissis…
“Ma c’è anche qualcosa di poco chiaro in questo ragionamento. […]
Se è vero che la tecnologia è il sostegno della scienza, perché i fallimenti della tecnologia, quali la fusione del nocciolo a Chernobyl o l’esplosione della navetta spaziale americana, non sono considerati fallimenti della scienza? Dalla discussione sull’affidabilità della tecnologia deriva una clausola di “sconfitta non ammessa“: Chernobyl e lo Shuttle possono servire a verificare la scienza se funzionano correttamente, ma non possono danneggiarla se non funzionano. La clausola si rafforza ulteriormente in quanto i fallimenti della tecnologia sono presentati come fallimenti dell’organizzazione umana, e non della scienza.
Quando la scienza sembra poco sicura, la tecnologia è citata in sua difesa, e quando la tecnologia sembra poco sicura, la scienza è chiamata in soccorso; la responsabilità viene passata da una parte all’altra come la proverbiale patata bollente. Se poi la patata cade, si dice sempre che sono gli esseri umani ad averla fatta cadere.”
——–
[La scienza, la tecnica e l’errore]
Mi pare che dagli interventi di Lanfranchi, Bertolini e da questa citazione emerga con nettezza l’antica e perenne divaricazione tra tecnica-pragmatica fallibile e scienza teorico-astratta tendenzialmente inconfutabile.
L’atteggiamento nei confronti dell’errore mi pare la cartina di tornasole di tale distinzione culturale. E’ chiaro che per una scienza “esatta”, incontrovertibile, onni-scente e potente, acontestuale e astorica, deterministica, ispirata agli ideali di certezza, prevedibilità e controllo ordinato dei fenomeni, l’errore è semplicemente inammissibile se non impensabile. E’, appunto, nient’altro che un’accidente, un’evento fortuito, un caso, un’eccezione alla regola, frutto di distrazione e indolenza umana.
D’altra parte se non si ha una precisa teoria sul funzionamento di un artefatto umano o di un sistema complesso – come una navicella spaziale – come si può prevedere che tutto andrà sempre liscio come l’olio, o in alternativa il disastro?
Quindi l’errore e il limite sono semplicemente da mettere nel conto delle possibilità, data la provvisorietà dei nostri modelli semplificati del mondo. Semplicemente la tecnica ammette e sfrutta l’errore, senza scandalizzarsi troppo e facendone, al contrario, tesoro e insegnamento, esattamente com’e’ accaduto per millenni a coloro che erano costretti ad esercitavare un sapere pratico-indiziario, nelle foreste e nei deserti, per adattarsi e sopravvivere! In questo senso la tecnica è assai meno supponente e presuntuosa della scienza “esatta”, che per difendere un’immagine aulica di se’ ricostruisce a postriori la propria storia di progresso lineare, espellendo ed esorcizzando incertezze, caos e contingenze.
Non e’ un caso, infine, che ai medici tocchi pagare un conto così salato per aver scotomizzato da troppi anni i propri errori-limiti, baldanzosamente occultati nell’ottimistica convinzione che l’aura di scienza “esatta” li avrebbe per sempre celati alla vista dei diretti interessati.
Nell’odierna “persecuzione” giudiziaria dell’errore medico – autentica pandemia che dilaga nell’occidente – si svela un altro aspetto della nemesi medica.
Cordiali saluti a tutti
G.Belleri
Flero (BS)
43 From:
Corrado Del Bo’ <delbo@f…>
Date: Thu Feb 13, 2003 8:21pm
Subject: Re: terza replica
On 13 Feb 2003 at 18:27, longo@u… wrote:
> Sollecitato dal punto 7 di Lanfranchi, apro una
> parentesi sulla democrazia: sono sempre più incerto, le mie idee sulla
> democrazia sono sempre più confuse, non so come rimediare a questo
> sgretolamento progressivo non di certezze (non credo di aver mai avuto
> certezze, men che meno sulla democrazia) ma di capacità empiriche
> d’uso e di riconoscimento… Chi mi aiuta?
(…)
> Sulla democraticità della scienza, Alphonse Vajo ha ragione: ma quello
> che intendo dire è che se il metodo scientifico, in linea di
> principio, è democratico perché non si nega a nessuno, tuttavia in
> pratica pochi possono praticare la scienza, così come pochi possono
> praticare l’atletica: occorrono muscoli, allenamento, scarpette e
> giubbini adatti, e non tutti posseggono questo corredo. Tutti possiamo
> fare scienza a livello di dilettanti, ma qui si parla d’altro. La
> situazione diventa ancora più asimmetrica quando la scienza esce dalla
> portata dell’individuo per riguardare gruppi e squadre ben attrezzati
> e finanziati. E’ un’ulteriore forma di delega tecnologica e
> specialistica, che mette ancora di più in crisi la nozione ingenua di
> democrazia.
Abbandono per qualche minuto il ruolo di conduttore (che non conduce, perche’ vi conducete benissimo da soli:-)) per porre l’accento su due punti relativi alla democrazia, in parte peraltro gia’ sfiorati.
1 Parlare di democrazia oggi equivale a parlare di democrazie liberali. Quando parliamo di democrazia, del resto, infiliamo nei nostri discorsi qualcosa di piu’ di quelle che sono le caratteristiche definienti la democrazia, ovvero un particolare metodo di decisione (la regola di maggioranza) e un particolare soggetto decisore (il popolo o qualcosa di simile). Facciamo infatti spesso riferimento a valori che sono, in senso stretto, liberali (liberta’, divisione dei poteri, stato di diritto e cosi’ via). Siamo giustificati certo a farlo dalla nostra storia, di cittadini e cittadine di regimi liberaldemocratici. Ma la questione della democraticita’ di qualcosa (nello specifico, della scienza) e’ allora, per cosi’ dire, la questione della sua liberaldemocraticita’.
E, forse, dei due termini che formano il lemma *liberaldemocrazia* e il primo piu’ che il secondo a informare le nostre preoccupazioni democratiche.
[Scienza e democrazia: in che senso chiedersi se la scienza è democratica]
2 Quando ci chiediamo se la scienza e’ democratica, non sono sicuro che sia in gioco la questione delle modalita’ del suo funzionamento interno (come produce i suoi risultati e come li verifica/falsifica).
Mi sembra piuttosto che il punto rilevante sia la questione di come la scienza e gli scienziati si integrano all’interno del sistema liberaldemocratico (come si rapportano agli altri poteri – politici, economici, ecc. -, come condividono i risultati, come sono incastonati all’interno del sistema e via dicendo). Esattamente come la liberaldemocraticita’ di un esercito non la misuriamo dal metodo con cui le decisioni operative vengono prese, ma dal grado di fedelta’ alle istituzioni.
Corrado Del Bo’
44 From:
Alessandra Grazia <agrazia@o…>
Date: Thu Feb 13, 2003 9:09pm
Subject: Re: (unknown)
Scusatemi se questo non è un intervento di contenuti, ma devo proprio dirlo: questo forum è bellissimo! E’ entusiasmante, intelligente! Insomma… va bene, vengo al dunque 🙂
Professor Longo: grazie!
(a dispetto del bisticcio col mio cognome 🙂
Il Suo intervento in cui ha risposto alla mia domanda sulla retroazione rivela una capacità di ascolto e un’umiltà scientifica invidiabili. Il discorso sull'”odio e amore” nei confronti della tecnologia una spontaneità nel parlare di sé che… ce ne fossero di accademici come Lei!
Alessandra Grazia
ps – che cos’è la citazione con cui si chiudeva il suo primo intervento e l’altra di quello odierno?
——-
Dr.ssa Alessandra Grazia
——-
45 From:
guido1936@i…
Date: Thu Feb 13, 2003 9:53pm
Subject: Perchè “animismo”?
Ringrazio con molta cordialità e gratitudine il Professor Longo per le spiegazioni che ha fornito su “caso” e “libero arbitrio” per quanto riguarda i sistemi complessi. A proposito del mio accenno all'”animismo”, non so se riuscirò a spiegarmi: intendevo dire che, se gran parte delle entità (i cosiddetti sistemi complessi, fra cui gli esseri viventi e molti raggruppamenti degli stessi) sono dotate di mente, o sono menti, le possiamo considerare “animate” o – mi perdoni l’espressione impropria – dotate di anima. Del resto era il pensiero di gran parte delle culture umane. Forse è vero che le tradizioni medio-orientali e poi il cartesianesimo hanno “tolto l’anima al mondo” (Hillmann).
Guido
46 From:
Leone Montagnini <leonemontagnini@k…>
Date: Fri Feb 14, 2003 1:39am
Subject: Sul genere prossimo e la differenza specifica
Roma, 14 gennaio 2003
“Tutti gli ateniesi infatti e gli stranieri colà residenti non avevano passatempo più gradito che parlare e sentir parlare” (Atti 17, 21). Non è facile, 20 secoli dopo, riuscire ancora a trovare la gioia del dialogo e mi condivido i sentimenti di chi trovano bello questo forum.
[“Non il Dio di Heidegger, ma solo una catastrofe economica ci potrà salvare”: il pessimismo di Longo]
Non avevo letto la prima risposta del caro prof. Longo quando ho parlato di un suo ottimismo. Infatti lì ci diceva: “il biota si assesterà su altri livelli di equilibrio, ma può darsi che il nuovo equilibrio non contempli più la presenza di questo catastrofico Homo sapiens”. “Io, forse più cinico [di Heidegger che implorava un Dio che ci potrà salvare], dico che solo una catastrofe economica ci può salvare dalla catastrofe tout court. Dovrebbero mancare i soldi: la gran macchina dell’apparato rallenterebbe subito, e avremmo il tempo e il modo di pensare. Molte cose che oggi ci sembrano gratuite riacquisterebbero il loro valore in termini di fatica, di lavoro investito, di risorse naturali”. Questo è il Rousseau che auspicava il ritorno alla natura, ben sapendo che la proposta era ben poco proponibile già ai giorni suoi (e ripiegò sul Contrat social e sull’Emile due progetti per correggere l’uomo che la civiltà corrompe).
Se l’avessi letta prima forse non avrei parlato di ottimismo tecnologico, ma forse è stato meglio così. Perché tutto sommato, mi sembra e naturalmente posso sbagliarmi del tutto, che nelle sue parole questo pessimismo conviva con quel vasto afflato che ha raggiunto l’acme negli anni Novanta e che ha visto nelle tecnologie informatiche e in Internet in particolare un’occasione di palingenesi.
E’ necessario che continuiamo a pensare. Perc questo è necessaria la scienza. Se le macchine ci aiuteranno in questo ben venga, non lo temo.
Nella sua autobiografia Simon racconta del suo suo entusiasmo nello scrivere a Russell di aver fatto dimostrare ad un computer alcuni teoremi dei Principia. Condivido quell’entusiasmo. Ma c’è bisogno di “curiositas”, che in latino significa sia “curiosità” che “la preoccupazione di chi si prende cura”. E alla radice della curiositas c’è il “cur” e la “cura”, il perché e la preoccupazione (Heidegger si sbagliava: si può fare filosofia non solo in tedesco ma anche in latino).
C’è un problema che mi affligge da tanto tempo: non sopporto che si insista sui salti senza guardare alle continuità. Qualche esempio. Verso la fine degli anni Ottanta, quando si cominciò a parlare di globalizzazione (il boom di questa parola poi ci fu sulla metà dei Novanta), sentivo che mi saliva il sangue al cervello. “Il mondo si va globalizzando” gracchiavano i media: ma perché – mi chiedevo – prima non era globale? Poco dopo che Colombo ebbe scoperto l’America, i commerci arabi che in parte per terra in parte per mare garantivano i collegamenti tra Europa, India e Cina attraverso penisola arabica e oceano indiano entrarono in crisi. Si trattò di una crisi lenta e inesorabile. Un evento che era accaduto dall’altra parte del pianeta aveva sconvolto la loro economia e non sapevano spiegarsi perché. Era cambiato il sistema mondiale del commercio e ora ne pagavano le conseguenze. La terra era globale anche allora o no? Certamente i tempi di reazione erano più lenti ma c’era globalità anche allora. Ma la globalizzazione attuale non è solo questione di tempi. Le due guerre “mondiali” non erano state sufficientemente globali in questo senso? Invece hanno voluto convincerci a tutti i costi che solo col crollo del muro di Berlino il mondo è diventato globale. A veder bene una realtà specifica la globalizzazione attuale ce l’ha, ma va compresa sul metro della globalizzazione preesistente.
Aristotele diceva che le definizioni vanno fatte per genere prossimo e differenza specifica. Vuoi sapere cosa sia un uomo? Ebbene esso è un animale (genere prossimo), detto questo possiamo interrogarci sulle differenze specifiche (Aristotele aggiungeva che è in particolare un animale che parla o che ragiona, a seconda delle traduzioni). Così facendo, il fenomeno “uomo” non appare più come un apax, incomprensibie perché incomparabile. Nemmeno ci viene più da contrapporre uomo ed animali, opposizione che non ci fa capire niente né del primo né dei secondi. Mettiamoci in pace con la coscienza: l’uomo è un animale (genere prossimo) si tratta poi di spiegare come un animale possa essere giunto ad avere tutte quelle belle caratteristiche spirituali che ha l’uomo.
[Se vuoi sapere cosa sta accadendo di nuovo cerca prima gli aspetti di continuità]
Mi è sempre sembrato che questo principio oggi possa avere un’importante valenza euristica e critica soprattutto sul piano diacronico quando ci vogliono propinare dosi di nuovismo contraffatto: se vuoi sapere cosa sta accadendo di nuovo (la differenza specifica) cerca prima gli aspetti di continuità (il genere prossimo).
Preciso, non c’è qui nessuna critica diretta a Giuseppe O. Longo, persona che stimo altamente. Voglio solo cercare di rappresentare il mio stato mentale di fronte alle cose che sento dire da lui e da molti altri su simbionti, reti telematiche, rivoluzione digitale ecc. Anche qui mi viene da dire: cerchiamo prima il genere prossimo, la continuità, poi potremo valutare l’effettiva dose di novità e la specificità di questa novità. Vi sono naturalmente anche coloro che si fissano sulla continuità e si ostinano a negare differenze specifiche, come quei filosofi o sociologi che non sopportano si parli di postmodernità e postindustriale.
Applicando questo mio atteggiamento alla questione della tecnica si potrebbe osservare che l’uomo è per essenza (genere prossimo) un animale tecnico. Gli studiosi di preistoria hanno ricostruito la storia della nostra specie attraverso le punte di lancia ritrovate.
Non ci sembra un po’ umano lo scimpanzè soprattutto quando osserviamo che riesce a inventare il sistema per mangiare formiche introducendo un bastoncino in un formicaio?
[L’uomo nemmeno sarebbe uomo senza la tecnica
Non ha senso perciò insistere come hanno fatto per almeno due secoli i filosofi tedeschi sul fatto che la tecnica corrompa l’uomo: l’uomo nemmeno sarebbe uomo senza la tecnica (Il dubbio che nell’ostilità verso la tecnica vi siano sentimenti aristocratici permane: ai nobili fino all’800 era proibito persino nella civile Toscana di fare lavori con le mani).
E proprio perché l’uomo è un animale tecnico, la tecnica modifica costantemente l’antropologia. Qui tra l’altro c’è una profonda intuizione di Longo, che insiste – in una sorta di neokantismo tecnologico – sulla mutazione che le stesse forme pure a priori attraverso cui l’uomo costituisce il proprio mondo subiscono col mutare della tecnologia.
E giungiamo così al rapporto scienza-tecnica. Scienza e tecnica vivono da sempre in rapporto simbiotico e inseparabile: si sono coevolute. Non fidiamoci troppo delle rappresentazioni che della scienza hanno dato filosofi come Cartesio. Galilei aveva di sicuro i calli alle mani perché molava le lenti dei propri cannocchiali e piallava il piano inclinato per il noto esperimento sulla caduta dei gravi. Contemporaneamente andava all’università, commentava ed emendava da bravo filologo i testi di Archimede, Aristotele, dei commentatori arabi di Aristotele, dimostrava teoremi. Era insieme uno scienziato teoretico e uno scienziato pratico, e solo così poteva leggere “il gran LIBRO della natura”. Lo stesso può dirsi di Newton.
Dubito che l’ideale cartesiano di una scienza tutta a tavolino abbia mai prodotto molta scienza, nemmeno all’epoca dei greci. Entro questa cornice si tratta di capire oggi cosa sia successo alla scienza nell’epoca delle tecnologie dell’informazione.
Ho un diploma di perito nucleare (60/60) e due lauree: una in filosofia e una in sociologia. Sulla riflessione su queste cose, cari amici del forum, ho investito buona della mia vita, perché ritengo che qui ci sia del “considerevole”, come avrebbe detto Heidegger. Vi prego di cogliere in queste mie parole lo sforzo di uno che cerca di pensare liberamente e con passione a problemi che ci riguardano.
Grazie per l’attenzione Leone Montagnini
leonemontagnini@k…
47 From:
Dr. Saro Cola <sarocola@m…>
Date: Fri Feb 14, 2003 3:07am
Subject: Re: seminario FGB
>Quanto al calcolo del rischio: supponiamo che la probablità di un incidente
>grave (lasciando da parte le conseguenze) sia di un miliardesimo. In
>termini pratici, ciò significa che se costruiamo un miliardo di centrali di
>quel tipo, c’è una probabilità assai elevata (diciamo prossima a uno) che
>prima o poi una di esse abbia un incidente grave. Bene, rassicurati da
>questo calcolo, cominciamo a costruire le nostre centrali: costruiamo la
>prima, poi la seconda… la prima entra in funzione e dopo un po’
>l’incidente grave si presenta propio nella prima centrale che abbiamo
>costruito. A posteriori il calcolo del rischio subisce un ridimensionamento
>drastico… Chi mi trova un difetto in questo ragionamento?
[Calcolo delle probabilità, calcolo del rischio e previsione]
Facile. E’ la classica obiezione al calcolo delle probabilità usato a fini predittivi : non si tiene conto del fatto che l’evento di cui si calcola la probabilità si può presentare subito.
Io ho una probabilità di vita diciamo di ottant’anni ….. e schiatto domani.
Come mai? Strano? Per niente strano : nessuno mi assicura che l’evento negativo si verifichi in fondo alla linea temporale … Mi possono solo …
‘assicurare’ (in un altro senso) che una volta morto prenderò un sacco di soldi e in tale evenienza ci perderebbe l’assicurazione che in mancanza di qualcosa di meglio (e c’ è di meglio) ha dovuto fidarsi di quel calcolo di probabilità sul mio decesso . Quel di meglio è qualcosa di molto allettante per le assicurazioni, mma è un ‘frutto proibito ‘.
Ma il calcolo delle probabilità rimane egualmente sensatissimo. solo che va usato nella dovuta maniera. Il calcolo statistico non comprende la dimensione del ‘tempo’ (cioè il ‘quando’ : ovviamente però la può ridimensionare nelle sue dimensioni di calcolo, cioè introducendo una ponderazione dell’ indice di probabilità quando è il caso) . E’ sensato mai in assoluto , ma sempre in termini relativi. inoltre paragoniamo due (meglio se piu)calcoli statistici e qualcosa ne caviamo fuori. Anche se a fini previsionali bisogna andarci cauti .
Il calcolo del rischio non serve a prevedere , ma solo a farci prendere convenzionalmente delle decisioni . Convenzionalmente . . E così possiamo argomentare una decisione presa in base a un determinato calcolo delle probabilità di rischio ha maggior ragione d’essere rispetto a un’altra. E’ un bastone d’appoggio nel procedere nel buio dell’incertezza , niente di più.
L’essere umano ne ha molti di questi bastoni. Forse servono. Forse no. Chi può dirlo .
<<La vita continua: fa sempre così, fin quando non lo fa più.>>
da dove ho preso questa frase?
Saro cola
—
Dr. Saro Cola
ML 1
sarocola@m…
48 From:
Andrea Rossetti <andrea.rossetti@u…>
Date: Fri Feb 14, 2003 2:29pm
Subject: Re: Domanda per Andrea Rossetti
At 14:25 +0100 12-02-2003, Margherita Bologna ha scritto:
>Quando Lei si chiede se il criterio di maggioranza piò essere uno
>strumento “razionale” per il controllo dell’uso della tecnica che
>significato attribuisce a questo termine?
>In quanto filosofo (del diritto) condivide l’analisi del concetto di
>razionalità esplicata nella breve citazione del libro del prof.
>Gargani Crisi della ragione che il prof. Longo riporta nella sua
>relazione? (paragrafo:di fronte alla tecnologia)
Gentile Margherita,
mi perdoni il ritardo nella risposta, ma ho cercato il libro di Gargani in biblioteca per leggere la citazione nel suo contesto.
purtroppo, non l’ho trovato: nelle nuove universita’ le biblioteche sono davvero carent 🙁
mi sono anche domandato se risponderle in privato, o se la risposta potesse interessare anche gli altri partecipanti al forum. credo di si’, penso che la mia risposta possa servire a chiare la mia posizione di “tecnofilo” (ora temo che non riusciro’ piu’ a togliermi questa etichetta :))
per maggiore chiarezza riporto qui di seguito la citazione da lei indicata:
“La razionalità classica si è presentata per alcune centinaia di anni con i connotati di una struttura naturale, necessitante e aprioristica […] La crisi di quella razionalità si è originata dalla consapevolezza che quella razionalità non è una natura […] La struttura socio-economica della nostra civiltà ha generato un sistema di astrazioni e di generalità che riflettono una costellazione di poteri e di funzioni del dominio. Anziché essere una natura, quella razionalità si è rivelata, sotto la spinta dei bisogni della nostra vita una “crosta sottile e precaria” che nasconde un codice di norme convenzionali, un sistema di divieti e proibizioni imposti dai gruppi sociali dominanti nei termini di una ragione naturale e normale.” Aldo Giorgio Gargani (ed.), *Crisi della ragione*, 1979.
credo che, cosi’ com’e’ formulata, la tesi di Gargani risenta molto del tempo in cui e’ stata scritta. io la riformulerei con un linguaggio diverso: esistono giochi linguistici diversi, ciascuno con le sue regole di derivazione, con la sua logica, che definiscono diverse razionalita’, che, a loro volta, connotano diverse “forme di vita” (“i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo”). il ricoscimento del valore e l’interesse, da parte di noi occidentali, per tutte le forme di pensiero credo sia testimoniata dall’esistenza di una disciplina nata appositamente per studiare l’alterita’: l’antropologia culturale.
[Cultura occidentale e razionalità tecnica]
se dovessi individuare il tratto caratteristico della particolare forma di vita che e’ la cultura occidentale, lo individuerei,come molti, nella razionalita’ tecnica. ma non credo che la tecnica sia una malattia della nostra cultura; credo, al contrario, che ne sia la sua piu’ significativa espressione. oggi siamo, probabilmente, giunti a un punto da cui riusciamo a vedere i limiti i questa forma di razionalita’ (e quindi i limiti del nostro mondo, del nostro modo di vivere). ma, proprio per la sua natura la razionlita’ tecnica, e’ in grado di modificarsi, di evolvere. mi sembra che i discorsi di Longo vadano proprio in questa direzione: la scienza e la tecnica hanno bisogno di regole nuove ed eteronome (ossia, (im)poste dall’esterno del paradigma tecno-scientifco e sulle quali tutti possiamo discutere), ma non si puo’ negare ne’ il valore ne’ la funzione che hanno avuto nella nostra societa’ e, piu’ profondamente, nella nostra cultura.
credo non si debba dimenticare che proprio la razionalita’ tecnica ha dato vita ad un’idea alla quale non penso si possa rinunciare a cuor leggero, a cui, anzi, io credo non si debba rinunciare: l’idea di diritto naturale soggettivo, ossia l’idea che un essere umano, solo perche’ essere umano, indipendentemente da qualunque altra specificazione, e’ portare di diritti che sono inalienabili. come studioso di filosofia del diritto mi rendo conto della difficolta’ logica ed ontologica di fondare i diritti fondamentali; ma credo che essi debbano essere quantomeno un’idea regolativa nella riflessione sul mondo che *deve* aspettarci.
AR
ps tra le molteplici e notevoli qualita’ del prof. Longo, mi preme rimarcare anche questa: e’ un utente macintosh; e, come tutti sanno, i mac sono i computer preferiti da noi tecnofili 🙂
49 From:
Alessandra Grazia <agrazia@o…>
Date: Fri Feb 14, 2003 4:09pm
Subject: Re: Domanda per Andrea Rossetti
Mi permetto di esprimermi in merito alla risposta che il dottor Rossetti ha dato alla dottoressa Bologna.
A me la domanda di Margherita Bologna era sembrata intenzionalmente penetrante, cioè intendeva sollecitare ad Andrea Rossetti una risposta riguardo a un disvelamento del diritto. Voglio dire che la domanda sul criterio di maggioranza e la lettura che io, da ignorante, ho fatto della frase di Gargani mi spingono a pensare che l’intenzione fosse di rimarcare come (lo dico con le mie parole):
la razionalità classica sia stata disvelata nella sua natura di spiegazione sovrastrutturale della struttura socio-economica della nostra civiltà tale spiegazione sia una emanazione di strutture del potere e del dominio il potere venga esercitato proprio facendo passare i suoi codici di dominio come “naturali” e “normali”.
Mi sembra invece che Andrea Rossetti abbia eluso la questione.
Quanto ho qui detto è solo una mia impressione e, peggio ancora, è fondato sulla mia presunzione di aver interpretato che cosa effettivamente Margherita Bologna voleva dire e voleva sapere da Andrea Rossetti. E’ evidente che la persona più indicata per esprimersi è la stessa Bologna e mi scuso in anticipo con Rossetti se non ho compreso la sua risposta.
Un saluto a tutti i partecipanti al Forum da
Alessandra Grazia
—– Original Message —–
From: Andrea Rossetti <andrea.rossetti@u…>
Date: Fri, 14 Feb 2003 14:29:27 +0100
To: fgb-forum@yahoogroups.com
Subject: Re: [fgb-forum] Domanda per Andrea Rossetti
———-
Dr.ssa Alessandra Grazia
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50 From:
Andrea Rossetti <andrea.rossetti@u…>
Date: Fri Feb 14, 2003 4:52pm
Subject: Re: Domanda per Andrea Rossetti
At 16:09 +0100 14-02-2003, Alessandra Grazia ha scritto:
> Mi permetto di esprimermi in merito alla risposta che il dottor
>Rossetti ha dato alla dottoressa Bologna.
>
>A me la domanda di Margherita Bologna era sembrata intenzionalmente
>penetrante, cioè intendeva sollecitare ad Andrea Rossetti una
>risposta riguardo a un disvelamento del diritto. Voglio dire che la
>domanda sul criterio di maggioranza e la lettura che io, da
>ignorante, ho fatto della frase di Gargani mi spingono a pensare che
>l’intenzione fosse di rimarcare come (lo dico con le mie parole):
>
>la razionalità classica sia stata disvelata nella sua natura di
>spiegazione sovrastrutturale della struttura socio-economica della
>nostra civiltà
>
>tale spiegazione sia una emanazione di strutture del potere e del dominio
>
>il potere venga esercitato proprio facendo passare i suoi codici di
>dominio come “naturali” e “normali”.
la mia riscrittura in termini wittgensteiniani, in effetti, se non eludeva, certamente sottaceva questa tesi: infatti, questa tesi e’ quella che, secondo
me, risente piu’ pesantemente dei tempi in cui e’ stata scritta (tempi in cui, tanto per fare un esempio, la facolta’ di filosofia in cui io ho studiato, quella di pavia, era soprannominata “facolta’ Ho Cimin”).
se proprio dovessi stabilire una relazione causale tra ragione e produzione, credo che, dal punto di vista euristico, sia piu’ interessante un’inversione tra causa ed effetto: v’e’ sicuramente un legame tra razionalita’ illuministica e l’organizzazione del lavoro nell’ottocento. ma, anche se il paradigma struttura/sovrastruttura fosse ancora applicabile all’attuale sistema produttivo, non credo vi sia (ne’ vi sia mai stata) una relazione di causa/effetto tra i due termini del paradigma: nella cose e negli eventi non v’e’ una logica implicita.
inoltre, io credo che se il linguaggio da una parte e’ l’espressione del potere o meglio, per usare i termini del paradigma che stiamo utilizzando, e’ espressione della classe dominante, e’ anche il veicolo e lo strumento delle rivoluzioni. AR ps provate a leggere la “storia del pensiero scientifico e filosofico” di geymonat, scritta in quegli anni; davvero vorreste che vostro figlio studiasse la storia della scienza e della filosofia su di un testo cosi’?
51 From:
guido1936@i…
Date: Fri Feb 14, 2003 5:02pm
Subject: Realtà “oggettiva”?
Ho letto in qualche intervento di questo bellissimo forum l’accenno alla fine della separazione fra res cogitans e res extensa. In altro intervento, era esposta l’idea della ricerca della “verità” da parte della scienza. Dopo settant’anni dal principio di indeterminazione e dall’interpretazione di Copenhagen, e dopo vari sviluppi in cui i concetti di realtà oggettiva e di certezza perdono significato, il mondo ufficiale continua ad essere “cartesiano”. Perchè? In fondo l’idea della “verità” è molto pericolosa, non solo nella scienza. Dopotutto, si sta benissimo anche senza alcuna verità o “realtà oggettiva”.
Guido
Date: Fri Feb 14, 2003 6:50pm
Subject: Longo risponde
14 febbraio 2003, san Valentino
(auguri a tutti, perché tutti furono, sono o saranno innamorati)
Per Saro Cola: l’esempio del tizio che ha una probabilità di vita di ottant’anni e muore il giorno dopo non è, mi pare, omogeneo al mio: io ipotizzo la costruzione di un miliardo di centrali identiche (nei limiti delle possibilità tecniche, identità che si riflette in un’identica valutazione della probabilità di incidente per tutte le centrali); mentre del tizio non posso produrre cloni identici: il tizio fa parte di una popolazione per la quale c’è una statistica basata su un numero enorme di casi singoli ma assimilabili sullabase degli eventi pregressi; il calcolo del rischio per le centrali non si basa su una storia, ma sull’attribuzione di probabilità “a priori”. Dice poi Saro Cola che il calcolo del rischio non serve a prevedere, ma solo a farci prendere “convenzionalmente” delle decisioni. Francamente è più impegnativo prendere decisioni (pratiche) che prevedere (in astratto), ma poiché mi sfugge il significato di quel “convenzionalmente” forse sono del tutto fuori strada.
Nel mio esempio volevo anche significare che l’irrisoria probabilità attribuita all’incidente di fatto tranquillizza (o vorrebbe tranquillizzare) il pubblico (e questa è di sicuro una delle intenzioni di quei calcoli), ma che questa tranquillità riposa su una (semi)falsa (semi)certezza. In più la probabilità dell’incidente andrebbe sempre coniugata con la gravità delle sue conseguenze, ma questo è un discorso un po’ diveros, per quanto sia quello davvero importante.
Non ho nulla da obbiettare al calcolo delle probabilità (che trovo una delle branche più interessanti della matematica), ho molto da obbiettare invece sui suoi fondamenti: nessuno ha dato una giustificazione davvero convincente del legame tra il mondo dove accadono le cose, la nostra aspettazione tinta di speranze e timori e il formalismo della teoria della misura. Il fatto cruciale che (come acutamente rileva Saro Cola) nella statistica manchi la dimensione temporale rende questa disciplina per lo meno sospetta (Einstein di fronte all’evento irreversibile per eccellenza della morte del suo amico Besso, si ostinava a sostenere, scrivendo alla vedova: “Per noi che crediamo nella fisica, il passato e il futuro sono tenaci illusioni”). Le cose del mondo accadono nel tempo: che modello del mondo può essere quello in cui manca la dimensione tempo? Anche la logica tradizionale, proprio per la sua assenza del tempo, è un modello inadeguato di molti fenomeni che pure con la logica tentiamo di descrivere (ad esempi il funzionamento dei calcolatori). E’ vero peraltro che tutto questo armamentario può essere un bastone d’appoggio utile (lo è certo per le compagnie di assicurazione…).
Per Guido 1936: l’attribuzione dell’anima a entità complesse è un’operazione molto frequente. Oggi si prova una sorta di pudore o riluttanza a parlare di anima (specie a proposito di enti non umani), ma certo la proiezione psicologica che sta alla base del rapporto che molti istituiscono con il calcolatore e con oggetti tecnologici anche molto più semplici (per non parlare del rapporto che ci lega ai nostri animali: il mio bassotto Alcibiade è per me una vera e propria entità animale, cioè animata da anima!). Ma questa è una proiezione (abbiamo sempre l’impressione che dietro lo schermo del macintosh ci sia qualche intelligenza o anima benevola che ci capisca e ci risponda, no? e si pensi al programma ‘Eliza’ di Weizenbaum ecc). Ma oltre la proiezione, c’è, dal’altr aparte qualcoa di ‘reale’? E’ il formidabile problema delle “menti altrui”, per dirla nei termini del cognitivismo, che non oso neppure affrontare (nell’attribuzione o negazione della mente spesso si procede per affinità o somiglianze esterne, di aspetto o di comportamento o di storia).
Certo è che con la fine dell’animismo (in senso antropologico) l’uomo ha cominciato a sentirsi a disagio nel mondo, forse perché si sente davvero solo con i suoi problemi, senza un Altro che sappia capirlo, perdonarlo e, all’occorrenza, lodarlo (come fanno i nostri genitori: questo, credo, è l’aspetto più tremendo della condizione dell’orfano, specie dell’orfano adulto).
Alessandra Grazia ha contribuito a rendere questo seminario meno arido del temuto, anzi gli ha conferito un’aura speciale, umanissima: sono io che la rin-grazio! (La prima citazione – non resisto – è tratta da “La gerarchia di Ackermann”, un romanzo che ho pubblicato con Mobydick di Faenza nel 1998; la seonda da un racconto ancora inedito, “Signora Enzi”).
Corrado del Bo’ merita un ringraziamento particolare, perché con le sue osservazioni sulla democrazia ha contribuito a fare un po’ di luce nella mia caverna. Tuttavia, proprio le sue precisazioni mi confermano nell’impressione che “democrazia” sia un termine talmente stanco e fiaccato che bisognerebbe cominciare a diffidarne. Basta pronunciarlo per far scattare oscuri meccanismi pavloviani di salivazione viscerogastrica e mentale. Mi pare che si sia formata oggi una costellazione di termini, come ‘solidarismo’, ‘correttismo’, ‘antirazzismo’, ‘antisessismo’, ‘buonismo’ ecc, al cui centro sta appunto la ‘democrazia’ (che però non terina in -ismo: bisognerà dire ‘democratismo’), costellazione che ha perduto ogni legame esplicito con l’origine prima di questi termini e che agisce in modo arco-riflesso su di noi. L’arco riflesso è un meccanismo (-ismo) primitivo, degno ma elementare, che andrebbe integrato con l’uso della corteccia (vedi Leone Montagnini verso la fine del suo intervento del 12 febbraio). Non saltatemi addosso dicendo che non si spara sulla Croce Rossa o cose del genere: non si spara sulla Croce Rossa, ma bisoga vedere se sotto la croce rossa della Croce Rossa non ci sia per caso il vuoto o un tipaccio che ci voglia fare la festa.
Giuseppe Belleri torna sull’inesausta questione della differenza tra scienza e tecnica (o tecnologia: è difficile tracciare una distinzione tra questi due termini; ‘tecnologia’ domina per l’influenza angloamericana, un tempo tecnica e tecnologia erano ben distinte: si parla di Politecnico di Milano o di Ecole Polytechnique, ma si dice Massachusetts Institute of Technology: lasciamo perdere, che è meglio) che riassume in una maggior umiltà delle tecnica, pronta a riconoscere i propri errori. Direi che l’affermazione che la scienza rimuove incertezza, caos e contingenze è un po’ perentoria: di fatto anche la scienza progredisce in base agli errori.
E’ veroperò che l’immagine che costruisce di sé è molto forte e la vincola molto. La tecnologia di sé non costruisce nessuna immagine forte. Per esempio la scienza rivendica da tempo una purezza di origini che, come la purezza della razza, fa parte di una mitologia sconfessata dalla storia. In realtà la scienza quantitativa e matematizzata che oggi appare vincente (ma forse un po’ vacillante) si è distillata in un crogiolo ribollente di scorie, passioni e credenze dalle quali traeva la sua forza creativa.
Furono le incessanti contaminazioni con impurità che oggi glil scienziati chiamano con sufficienza errori a far germogliare e fiorire la straordinaria avventura della scienza. La complessità del mondo non si può ridurre, eppure oggi consideriamo irrilevanti, o, peggio, risolte una volta per tutte le domande fondamentali sull’uomo: chi siamo e quale diritto abbiamo di modificare noi stessi e il mondo. Liquidiamo con alterigia le religioni, i miti, le superstizioni. Soprattutto, tendiamo a sopprimere i bisogni che hanno generato e continuano a generare questi saperi “soccombenti”. Le grandi conquiste della scienza, che non mi sogno di sminuire, svelano un aspetto del mondo, non il mondo nella sua totalità. La scienza insomma non è mai stata “pura” e meno che mai lo è oggi: inquinata dalla tecnica e dall’economia, essa si arrende alla cieca egemonia del mercato. La ricerca non è più l’attività romantica di un tempo: la spinta della curiosità e l’anelito alla conoscenza sono stati sostituiti da inesorabili imperativi economici. Allo stesso tempo la frammentazione specialistica allontana sempre più il sapere dalle persone comuni, e proprio nel momento in cui tutti avremmo bisogno di comprendere le trasformazioni sconvolgenti che la tecnoscienza sta operando sul mondo e su noi stessi.
Quanto mai giuste sono poi le osservazioni di Giuseppe Belleri sullo statuto (pseudo)scientifico della medicina e sulla nemesi medica.
All’evoluzione della scienza e all’immagine che essa si costruisce di sé fa riferimento anche Margherita Bologna, con osservazioni quanto mai pertinenti: il ritorno prepotente del tempo irreversibile e della storia in una scienza che si era sforzata di espellerli a costo di grandi rimozioni e di grandi sofferenze. Se dico che il corpo è uno “strumento” non lo dico certo per sminuirlo, ma al contrario per indicare la sua assoluta pregnanza: per me la tecnologia (di cui il corpo èil primo e più fondametale elemento) è costitutiva, non superficiale: i lcorpo è il filtro, l’interfaccia con la quale siamo collegati con noi stessi e con il mondo. Il sogno di meccanizzare il pensiero e, soprattutto, di esorcizzare le misteriose e inquietanti capacità del genio ha segnato tutta l’età moderna, e ha portato all’invenzione di una serie di estroflessioni cognitive, più o meno raffinate ma sempre di natura automatica, nel tentativo di ottenere con un sol colpo di manovella tutte le proposizioni vere, tutti i risultati esatti, tutti i teoremi dimostrabili.
Ma il colpo di manovella provoca un’alluvione di proposizioni vere tra le quali il cieco automatismo della macchina non consente di distinguere quelle insignificanti da quelle davvero importanti. La discriminazione può essere compiuta solo dagli esseri umani in base alle loro capacità e ai loro interessi esistenziali: quindi la complessità della persona e lo spettro del genio, cacciati dalla porta, rientrano dalla finestra.
Il genio, con le sue qualità misteriose e lussureggianti, la sua intuizione ingiustificabile e le sue creazioni arbitrarie, causa nelle persone comuni uno sgomento e un timore reverenziale che da un momento all’altro possono tramutarsi in avversione, odio e furore.
Molti si sentono rassicurati solo se possono seguire l’olimpica e serena medietà apollinea ed evitare le trasgressioni e gli eccessi dionisiaci del genio, che rischiano anche di farci uscir di senno. Nessuno deve dare scandalo, quindi le persone troppo intelligenti vanno represse con un rimedio “democratico”: un dispositivo macchinico unico che, filtrando la variabilità individuale, anzi sopprimendola, metta tutti sullo stesso piano.
Rimedio che forse toglie ad alcuni il senso d’inferiorità e li tranquilla, ma che certo provoca negli altri, nei “sedati”, frustrazione e sofferenza e, da ultimo, rischia di avvilire e atrofizzare l’inventiva loro e quindi della collettività.
Ma la cosa più curiosa è che alla costruzione di questi strumenti di contenzione mentale del genio abbiano contribuito anche molti geni: Hobbes, Leibniz e, in tempi più recenti, von Neumann e Piaget. Come se, in un eccesso di populismo autolesionistico, il genio avesse voluto abdicare ai
propri (spesso scomodi) privilegi, accettando l’ipotesi riduzionistica che il pensiero, alla fin fine, sia soltanto calcolo e sia quindi alla portata di tutti.
Non solo calcolo numerico, certo, anche calcolo sillogistico e quant’altro, ma insomma: quando l’uomo pensa non fa altro che applicare un certo numero (piuttosto piccolo) di regole invariabili. Quindi, togliendo di mezzo le persone, specie quelle geniali, così volubili, bizzarre e sregolate, il pensiero si può delegare alla macchina, molto più fidata e precisa. Mah, sarà…
Una nuova scienza, non dogmatica, non conservatrice, attenta alle trasformazioni, pronta ad apprendere dagli errori, appunto: questo auspicio di Margherita Bologna è condivisibile. Il punto è che si tratterebbe di un’altra scienza rispetto a quella che conosciamo, o meglio che si è autorappresentata finora. Un nuovo paradigma scientifico, memore dei risultati della meccanica quantistica, dell ateoria dell’informazione, dell’instabilità dinamica e della lezione delle neuroscienze. Ma questo paradigma potrebbe essere tanto nuovo e rivoluzionario da configurarsi come altro dalla scienza, tanto più che nella produzione dei suoi risultati avrebbero una parte sempre più cospicua le macchine (che, appunto, non sono “semplici” strumenti). Forse è solo questione di definizioni, di attese e di emozioni: ciascuno è affezionato alle proprie visioni e alle proprie tesi: ma condivido la visione di Margherita, che definirei “batesoniana”.
Peraltro è vero che gli stereotipi sono duri a morire, come osserva Guido nel suo ultimo messaggio: sono comodi, economici, posseggono una forte carica soporifera che evita la fatica di pensare. A volte sono così ben sostenuti dalle parole che scalzarli (o anche solo individuarli) diventa difficile. Come si fa a lottare contro il concetto di “Verità (assoluta)” quando questa parola è così diffusa, così comoda, così semplice? Ed è usata da ogni sorta di persone: dai fedeli a una religione, agli adepti di un’ideologia.
C’è nei concetti una viscosità, un’inerzia, un’elasticità: le parole ci portano dove vogliono loro. Ormai è ora di un’autocitazione (da ‘La gerarchia di Ackermann’):
C’era nelle parole che pronunciava una forza greve e terrestre, indipendente da lui e legata alla sintassi, per cui, dopo il primo avvio, il suo pensiero e la sua volontà non contavano più niente e tutti quei suoni rotolavano a valle per canaloni tracciati da antichi ghiacciai, con un frastuono irrimediabile. Le parole non si lasciavano dire, lo portavano sempre dove volevano loro. E poi, rifletté, abbiamo una sola bocca e le cose dobbiamo dirle una dopo l’altra, invece là dietro i pensieri corrono insieme come deboli fiammelle bluastre per i neuroni, le sinapsi a miliardi, e si affollano per essere detti tutti in una volta. Emergono le loro schiere da un cratere oscuro, a sciami, angeli o dèmoni, e in quel loro faticoso brulichio sta la forza nativa delle cose, forse la verità. Ma per essere detti debbono infilarsi in quello stretto pertugio, e allora perdono vigore, dimensione, perdono i compagni di viaggio, restano nudi e parlano d’altro. Le cose non bisognerebbe mai dirle, perché vien fuori altro e si creano equivoci spaventosi. Con la bocca possiamo dire infinito, e quella sorta di mareggiata interiore di piccole onde rifratte l’una contro l’altra il cui asintotico pullulare sembra dirigersi verso il bordo dell’abisso si manifesta nella forma sorprendente e quasi meschina di un suono di quattro sillabe, dove non è rimasto niente dell’increspata vertigine sottostante. Così il confuso balbettio delle parole ci allontana definitivamente dal volto baluginante, appena visto e dileguato, del pensiero. Un vasto pianoro innevato che porti i lunghi segni di sciatori scomparsi…
Molto pregnanti le osservazioni dell’amico Leone Montagnini sulla continuità/discontinuità e il suo richiamo (‘definitio fit per genus proximum et differentiam specificam’) è quanto mai opportuno, perché smaschera l’ideologia soggiacente ad ogni nostra asserzione: in quel momento ci preme di più mettere in evidenza la continuità, allora tendiamo a ignorare i salti, o viceversa. Il fatto è che non si può dire tutto (in particolare non si può dire tutto nello stesso momento: abbiamo una sola bocca… Comunque giusto (e si può far filosofia anche in greco, e un pochino, perché no, anche in francese e in italiano…).
Forse Vittorio Bertolini voleva dire, all’inizio del suo intervento, “nessuno crede che la sciena e la tecnologia siani infallibili”. Ha ragione quando mi attribuisce un riferimento specifico alle novità dirompenti delle tecnologie novissime (bio e info), e qui mi perdoni Leone Montagnini se accentuo la discontinuità: queste tecnologie influiscono anche sulle categorie kantiane (qualcuno l’ha osservato) e in questo senso parlo di nuovo stadio dell’evoluzione. E visto che oggi è san Valentino (che per fortuna mi si è presentato nella consueta deliziosa, ineffabile forma), chiudo il Macintosh (grazie della complicità, caro Andrea Rossetti) e me ne vo.
Il resto a domani, ultimo giorno di seminario: peccato, mi ero affezionato, anzi assuefatto, a questo appuntamento quotidiano con voi, cari amici, posso chiamarvi così, vero?
Giuseppe O. Longo
53 From:
Giuseppe Belleri <bellegi@i…>
Date: Fri Feb 14, 2003 6:57pm
Subject: R: Sul genere prossimo e la differenza specifica
—– Original Message —–
From: Leone Montagnini <leonemontagnini@k…
>
> E giungiamo così al rapporto scienza-tecnica. Scienza e tecnica vivono da
> sempre in rapporto simbiotico e inseparabile: si sono coevolute. Non
> fidiamoci troppo delle rappresentazioni che della scienza hanno dato
> filosofi come Cartesio. Galilei aveva di sicuro i calli alle mani perché
> molava le lenti dei propri cannocchiali e piallava il piano inclinato per il
> noto esperimento sulla caduta dei gravi. Contemporaneamente andava all’
> università, commentava ed emendava da bravo filologo i testi di Archimede,
> Aristotele, dei commentatori arabi di Aristotele, dimostrava teoremi. Era
> insieme uno scienziato teoretico e uno scienziato pratico, e solo così
> poteva leggere “il gran LIBRO della natura”. Lo stesso può dirsi di Newton.
> Dubito che l’ideale cartesiano di una scienza tutta a tavolino abbia mai
> prodotto molta scienza, nemmeno all’epoca dei greci. Entro questa cornice si
> tratta di capire oggi cosa sia successo alla scienza nell’epoca delle
> tecnologie dell’informazione.
[La tecnologia si è emancipata dalla tutela della scienza “aulica”.]
Non mi pare tuttavia che il prof. Longo ponesse il rapporto tra scienza e tecnica in termini dicotomici e di reciproca esclusione. Nessuno contesta che scienza e tecnica da sempre abbiano interagito e si siano sviluppate in modo direi sinergico: nuovi strumenti tecnici (basta pensare al microscopio o alla PCR) hanno consentito nuove scoperte, osservazioni e ipotesi esplicative e, in modo complementare, nuove teorie hanno posto le basi per progressi tecnici (come diceva, mi pare, Norbert Wiener “non c’e’ nulla di piu’ pratico di una buona teoria).
[Come governare la transizione verso una società dominata dalla tecnica?]
Il problema oggi, se mai, e’ la divaricazione e il superamento della tecnica rispetto alle premesse e spiegazioni razionali sul funzionamento degli strumenti e dei fenomeni. In sostanza la tecnocologia sembra poter fare tranquillamente a meno di ipotesi e presupposti teorici, si e’ emancipato dalla tutela della scienza “aulica” ed appare auto-sufficiente, anche da punto di vista etico-deontologico; cio’ muta lo scenario complessivo e i rapporti di forza tra scienza, tecnica, economia e società, con rischi di stra-potere e deriva “tecnicistica”. Come riequilibrare tale fenomeno epocale, come “controllare” – nel senso cibernetico del “governo” – la transizione verso una società dominata dalla tecnica?
Che direbbe lo stagirita?
Cordiali saluti
G.Belleri
Flero (BS)
Date: Fri Feb 14, 2003 8:09pm
Subject: “non c’è progresso senza rischi”
[In tema di consapevolezza del rischio]
“non c’e progresso senza rischi” questa frase ha destato in me, umile studente, non poca angoscia, potrò anche sembrare una utopica ed arretrata ambientalista ma quello che mi preoccupa è pensare che magari ogni giorno io possa essere obbligata a “testare” prodotti tecnologici solo perchè non è abbastanza forte il sospetto di una loro probabile dannosità. Mi chiedo a cosa serva discutere di progresso (regresso???) e miracoli tecnologici quando poi siamo ancora alle prese con problemi come quelli evidenziati dal Dott. Longo ad es. in merito agli ogm. E’ vero che ognuno di noi ha una sua percezione del rischio, altrimenti non si spiegano quelli che tanto per fare qualcosa vanno a fare il bugee jumping, ma è anche vero, e voglio sperare di non essere la sola a pensarlo, che ognuno di noi può e deve poter scegliere se fare o meno il salto nel vuoto sperando sempre che nulla si rompa e magari non immaginando nemmeno i rischi della sua operazione.
Personalmente credo che la scelta del rischio debba essere per sua natura consapevole, soprattutto qundo afferisce alla persona e al suo benessere e non mi emoziona l’idea di fare da pseudo cavia!
Come anche Marta Mura ha sottolineato forse chi di dovere potrebbe preoccuparsi di salvaguardare noi, non eletti scienziati, da questi pericoli non indifferenti.
Qui a mio avviso diventa rilevante il ruolo della democrazia nelle nostre civiltà moderne, credo che dovremmo essere informati dei rischi che possiamo correre per e solo dopo potremmo scegliere realmente e consapevolmente se il rischio che ci si prospetta è “meno peggio” dei vantaggi che potremmo avere, tanto per rimanere in tema con i precedenti interventi, gli astronauti americani credo fossero al corrente dei rischi, anche se solo eventuali, della missione e li avessero scientemente accettati.
Per concludere, forse la mia piccola riflessione può sembrare ovvia visto l’elevato tenore degli interventi precedenti, ma ho preferito discutere di temi a me cari.
Grazie per l’attenzione
PZ
ps. e se qualcuno volesse poi tornare alla candela la democrazia occidentale lo permetterebbe?
55 From:
Margherita Bologna <marghe@i…>
Date: Fri Feb 14, 2003 12:54pm
Subject: Grazie Grazia
Cara Alessandra (se me lo consenti) hai interpretato bene ciò che intendevo tentare di chiarire. Domani quando sarò più sveglia risponderò al dott. Rossetti
Margherita Bologna
56 From:
Leone Montagnini <leonemontagnini@k…>
Date: Sat Feb 15, 2003 2:31am
Subject: Il Protreptico ovvero l’Esortazione
Roma, 15 febbraio 2003
Cari amici del forum “Progresso e responsabilità: il
passaggio dalla scienza alla tecnologia”
[Sul calcolo delle probabilità]
Il Dr. Saro Cola e l’amico prof. Giuseppe O. Longo hanno toccato un tema a me carissimo: quello della probabilità temporalizzata. In fisica atomica e specialmente nella teoria degli impianti nucleari si impara a ragionare in termini di eventi che sono temporalmente più o meno probabili. Utilizzando quei concetti si introietta l’idea che in natura non esistono eventi impossibili, ma solo eventi che hanno una probabilità così bassa da non presentarsi praticamente mai. Nè eventi certi ma solo eventi a probabilità circa 1. Per esempio non è detto che la fissione nucleare non possa avvenire sulla terra spontaneamente. Si scoprì alcuni anni fa che, anticamente, un giacimento di uranio in Africa aveva formato massa critica da solo e si era avuta una reazione di fissione. Perciò viene naturale in questo contesto di idee pensare ad esempio che anche il lavoro umano non sia altro che un’attività finalizzata a portare a 1 la probabilità di un evento entro un lasso utile di tempo. Nello stesso modo si può pensare operi la natura.
Da decenni ritengo che giungere ad una buona teoria del caso, della probabilità e in particolare della probabilità temporalizzata sia uno degli obiettivi più belli e profondi che la scienza potrebbe porsi. Penso che lo stesso valga per la nozione di informazione, che è profondamente connessa con quella di probabilità. Come pure riterrei preziosa una teoria generale dell’organizzazione e una teoria dei processi sottoposti a causazione circolare.
Questi temi che ho elencato sono desideri antichi, bisogni di ricerca che porto con me si può dire da sempre, visto che sono maturati in me quando da ragazzo, nei primi anni Settanta ero studente in un istituto tecnico per l’energia nucleare e, animato da spirito filosofico e da amore per l’umanità, mi capitava di filosofare su tante cose e tra queste anche su ciò che fisici e ingegneri mi insegnavano intorno a controlli automatici, elettronica, ingegneria degli impianti nucleari, fisica atomica, macchine termiche ecc.
Ho sempre ritenuto che una scienza che si occupasse di queste cose fosse necessaria e preziosa. Solo dopo due lauree e vagabondaggi intellettuali vari ho compreso che nella sostanza quei temi convergevano tutti verso un unico quadro o forse, ancor meglio, verso un’unica nebulosa concettuale, che storicamente ha assunto il nome di cibernetica. Mi sembra che in queste problematiche vi sia ancora oggi un appuntamento importante per una scienza che sappia pensare alla grande (alla grande non in termini di investimenti, ma di sogni). Forse nel pensare così resto solo il reduce di una scienza generalista che non c’è più, ma permettetemi di fare un’ulteriore riflessione, così rispondo anche a Giuseppe Belleri, che mi chiede che cosa risponderebbe lo stagirita.
Nel Protreptico (Esortazione), opera giovanile in cui esortava un amico a filosofare e di cui ci sono restati solo alcuni frammenti, Aristotele sosteneva: è sempre necessario filosofare. Se sei convinto di ciò allora filosoferai.
Altrimenti dovrai almeno filosofare per dimostrare che non è necessario filosofare. Al tempo di Aristotele filosofia e scienza erano la stessa cosa.
Quindi il discorso può applicarsi anche a noi che discutiamo sulla scienza. In questo nostro seminario abbiamo visto che ci sono coloro che sono convinti che è sia necessario fare scienza, altri che ritengono – anche se a malincuore – che essa è un’abitudine in via d’estinzione, eppure così facendo continuano imperterriti ad usare le categorie più belle che la scienza degli ultimi anni ha saputo creare, le amplificano, le fanno diventare vive.
Ciò significa che possiamo star tranquili, che è assicurato che sia sempre necessario fare scienza e che sia impossibile il suo declino? Non direi.
Vedete, Aristotele trascurava un punto fondamentale: il fatto cioè che l’interlocutore che pensa che non sia necessario filosofare può scegliere di tacere.
E’ quel che accade oggi per lo più, sia colpa della tecnica o di cos’altro, si assiste al trionfo di quella che Habermas ha chiamato la “paralisi della critica”. Da ciò deriva che l’argomento di Aristotele non funziona e che non possiamo ammettere che sia sempre necessario filosofare, cioè fare scienza in maniera larga; tuttavia possiamo almeno trattenere una versione debole dello stesso argomento: finché filosofiamo, filosofare resta possibile!
Cordiali saluti a tutti
Leone Montagnini
57 From:
Alessandra Grazia <agrazia@o…>
Date: Sat Feb 15, 2003 9:56am
Subject: Re: Domanda per Andrea Rossetti
—– Original Message —–
From: Andrea Rossetti <andrea.rossetti@u…>
Date: Fri, 14 Feb 2003 16:52:20 +0100
To: fgb-forum@yahoogroups.com
Subject: Re: [fgb-forum] Domanda per Andrea Rossetti
>
> ps provate a leggere la “storia del pensiero scientifico e
> filosofico” di geymonat, scritta in quegli anni; davvero vorreste che
> vostro figlio studiasse la storia della scienza e della filosofia su
> di un testo cosi’?
>
Ma sta scherzando ?!?! (mi scusi se mi permetto, ma è solo un modo di dire)
Certo che sì!
“Storia del pensiero” non l’ho mai letto, ma ce ne fossero di persone intelligenti come Geymonat.
Ora mio figlio è ancora troppo piccolo, ma gli darò sicuramente (quando sarà il momento: adesso lo strapperebbe tutto) Il Capitale di Marx da leggersi, ma non (mi segua) perché io sia marxista, bensì perché è un libro che considero formativo, formativo indipendentemente da come uno la pensi. Il senso critico si sviluppa proprio in questo modo e noi genitori dovremmo dare da leggere ai nostri figli proprio libri che poi commenteremo insieme a loro. Non avrà mica paura dei libri, proprio lei Rossetti ?!? (o forse sì perché ne conosce il potenziale? Ma su questo ci ha scritto un libro anche Bradbury e ci ha fatto un film Trouffaut, anche se secondo me non è dei suoi migliori)
Grazie e scusatemi i “fumini” 🙂
A G
—- Dr.ssa Alessandra Grazia
—-
58 From:
Leone Montagnini <leonemontagnini@k…>
Date: Sat Feb 15, 2003 11:44am
Subject: In onore di Geymonat e della pesantezza degli attuali manuali
Mi si permetta di interferire sulla disputa circa il Geymonat.
Se ci riferisce al manuale degli anni 60 e 70 esso rivelava una forte attenzione per le questioni epistemologiche, e vi traspariva chiaramente un’impronta materialistico-dialettica. Era un manuale schierato. Ma in quegli anni schierati lo erano molti manuali. Come quello di Vittorio Mathieu, sostanzialmente neoscolastico. Il manuale di Lamanna neidealista.
Ce n’erano alcuni un po’ più equilibrati come l’Abbagnano, il Dal Pra, il Giannantoni; l’autore di quest’ultimo era del PCI e insisteva sulle relazioni tra storia dell’umanità e storia del pensiero, senza troppo materialismo storico a dire il vero.
Io trovavo buonissimo il Lamanna per lo sguardo generale e sintetico e profondo su tutto (poi anche la parte sui neopositivisti e sull’esistenzialismo era fatta benissimo). Utilizzavo il Mathieu soprattutto per la filosofia medievale, il Geymonat per l’epistemologia e per conoscere il materialismo dialettico sovietico.
L’Adorno-Gregory-Verra era fatto benissimo per capire alcuni autori, fondamentale per la Critica della ragion pura di Kant e per capire Bergson e Boutroux.
Col tempo i manuali di filosofia si sono appesantiti. Un giorno mi sono divertito a pesarli: dal Lamanna che pesava un hg si è giunti agli attuali che superano il kg a volume, a volte raggiungono i 2 kg. Ciò spiega perché noi andavamo a scuola con la cinta elastica e i ragazzi di oggi ci vanno con uno zaino da astronauti lunari (va moltiplicato tutto il peso di allora per 10 se non per 20).
Il grande pregio dei manuali degli anni 60-80 era che sapevi come la pensava l’autore del manuale. I manuali attuali vogliono dire tutto e ti fanno credere che non sono né ideologici né schierati, ma non è vero. In realtà partecipano dell’ideologia del non schieramento secondo i dettami della nuova pedagogia post-89 che abbiamo importato dagli Stati Uniti, quella dei curricula, che non deve più dirigere ma coordinare democraticamente le tante le “scienze della formazione”, dalla docimologia alla psicopedagogia, ognuna autonoma e avente pari diritto di parlare, senza nessuna guida alta.
Quest’ideologia è una mistura incolore e ibrida di pensiero analitico ed ermeneutico, la quintessenza della razionalità strumentale attualmente al potere, che si materializza plasticamente negli attuali manuali di filosofia più che da qualsiasi altra parte. E che terrorizzava Marcuse.
Quest’ideologia, teorizzata nella maniera più dettagliata da Luhmann, vuole renderci delle rotelle di un sistema che non ci è dato il diritto di criticare. In cui la democrazia è solo un sistema per legittimare del decisioni che il potere ha già preso.
Quest’ideologia è l’attuale vero schiacciasassi che vuole inscatolare la “Scienza” in tante piccole e tecnicamente controllabili “scienze”.Quest’ideologia rappresenta la morte autentica dello spirito filosofico che ha sempre richiesto di schierarsi o almeno di contrapporsi, per filosofare, perché non si filosofa senza un radicamento in una tradizione di pensiero e senza uno spirito interiormente libero.
Però leggeteli questi ultimi manuali: le censure non sono filosofiche. Anche questi manuali sono interessantissimi. Alcuni possiedono delle discussioni molto importanti di storia del pensiero matematico (per esempio su infinito potenziale e attuale) che certamente vi sognavate di trovare nel grande piccolo insuperabile Lamanna. Ma, per favore, lasciamo riposare in pace Ludovico Geymonat, che ha sempre filosofato con vigore e libertà, lasciandoci il retaggio di una scuola di intelligenti epistemologi oltre che la grande storia del pensiero filosofico e scientifico, quella in più volumi, che è ancora molto utile. L’estratto della parte di logica di quest’ultima è l’attuale ricchissima “Storia della logica di Mangione” (MANGIONE, Corrado – BOZZI, Silvio, “Storia della Logica. Da Boole ai nostri giorni”, Milano, Garzanti, 1995), una delle cose migliori che si trovano in italiano in storia della logica.
Vi saluto augurandomi e augurandovi che oggi vincano i venti di pace!
Leone Montagnini
59 From:
Andrea Rossetti <andrea.rossetti@u…>
Date: Sat Feb 15, 2003 12:33am
Subject: saluti finali
cari tutti,
siamo ormai giunti alla fine del nostro seminario on-line: alle 16 di questo pomeriggio questa lista sara’ disattivata. Non so voi, ma io ho trovato interessante e stimolante questo scambio di idee: spero un giorno ci sia l’occasione di incontrarci ancora per riprendere la discussione – la leggenda vuole che Michele Serveto, mentre veniva condotto al rogo dall’inquisizione calvinista, abbia detto: “Voi mi bruciate, ma questo non e’ che un fatto. Continueremo a discutere nell’eternita’”.
Un rigraziamento particolare all’attore principale del seminario, il prof. Longo, che ha sempre saputo cogliere la parte interessante degli interventi di tutti. Credo che il prof. LOngo sia il professore che noi tutti avremmo voluto incontrare nel nostro percorso universitario (e credo che lo pensino anche i miei studenti che hanno partecipato al seminario :).
So di avere ancora alcune risposte in sospeso; so anche che non riusciro’ a rispondere oggi pomerggio: esco per sventolare nei venti di guerra la bandiera della pace 🙂 Prometto, pero’, che rispondero’ in privato nei prossimi giorni.
Vi voglio lasciare con un brevissimo racconto di Jorge Luis Borges
tratto da “Atlante“: El principio.
Dos griegos están conversando: Sócrates acaso y Parménides.
Conviene que no sepamos nunca sus nombres; la historia, asÃ, será más misteriosa y más tranquila.
El tema del diálogo es abstracto. Aluden a veces a mitos, de los que ambos descreen.
Las razones que alegan pueden abundar en falacias y no dan con un fin.
No polemizan. Y no quieren persuadir ni ser peruadidos, no piensan en ganar o en perder.
Están de acuerdo en una sola cosa; saben que la dicussión es el no imposible camino para llegar a una verdad.
Libres del mito y de la metafora, piensan o tratan de pensar.
No sabremos nunca sus nombres.
Esta conversación de dos desconocido en un lugar de Grecia es el hecho capital de la Historia.
Han olvidado la plegaria y la magia.
[Da “Atlante” di Borges]
Il principio.
Due uomini stanno parlando: Socrate e Parmenide, forse.
E’ meglio che i loro nomi non si conoscano mai; la storia, così, sarà
più misteriosa e più tranquilla.
L’oggetto del dialogo è astratto. Talvolta alludono a miti, a cui entrambi non credono.
Le ragioni che portano possono essere piene di errori e non discutono con un fine.
Sono d’accordo su di una sola cosa; sanno che la discussione è la non impossibile via per giungere a una verità.
Liberi dal mito e dalla metafora pensano o cercano di pensare.
Non conosceremo mai i loro nomi.
Questa conversazione di due sconosciuti in un posto della Grecia è il fatto capitale della Storia.
Hanno dimenticato la preghiera e la magia.
grazie a tutti, AR
—
Andrea Rossetti
Informatica giuridica
Cattedra di Filosofia del diritto
Dipartimento dei sistemi giuridici ed economici
Facolta’ di Giurisprudenza
Universita’ Milano-Bicocca
Piazza dell’Ateneo Nuovo 1
20126 Milano
e-mail rossetti@f…
60 From:
Giuseppe Belleri <bellegi@i…>
Date: Sat Feb 15, 2003 12:47am
Subject: Re: Il Protreptico ovvero l’Esortazione
—– Original Message —–
From: Leone Montagnini
Il Dr. Saro Cola e l’amico prof. Giuseppe O. Longo hanno toccato un tema a me carissimo: quello della probabilità temporalizzata. In fisica atomica e specialmente nella teoria degli impianti nucleari si impara a ragionare in termini di eventi che sono temporalmente più o meno probabili. Utilizzando quei concetti si introietta l’idea che in natura non esistono eventi impossibili, ma solo eventi che hanno una probabilità così bassa da non presentarsi praticamente mai. Nè eventi certi ma solo eventi a probabilità circa 1. Per esempio non è detto che la fissione nucleare non possa avvenire sulla terra spontaneamente. Si scoprì alcuni anni fa che, anticamente, un giacimento di uranio in Africa aveva formato massa critica da solo e si era avuta una reazione di fissione. Perciò viene naturale in questo contesto di idee pensare ad esempio che anche il lavoro umano non sia altro che un’attività finalizzata a portare a 1 la probabilità di un evento entro un lasso utile di tempo. Nello stesso modo si può pensare operi la natura.
——
Da profano della matematica delle probabilità mi pare di capire che il trionfo della statistica e del concetto di rischio, così socialmente pervasivo da qualche decennio a questa parte, sia il tentativo per mettere una toppa al determinismo “demoniaco” à la La Place, che da un secolo a questa parte soffre dei colpi infertigli dal caos e dall’evoluzione. L’ideale della prevedibilità, e del conseguente “controllo” (non in senso cibernetico!) dei fenomeni, da quelli meteorologici a quelli biologici, ha contraddistinto la scienza “esatta” e resta un pilastro della sua immagine pubblica, cara alla psicologia del senso comune del proverbiale uomo stradale. Basta pensare al successo di slogan come “meglio prevenire che curare” e in genarale a tutti gli sforzi per sviluppare pratiche preventive efficaci e sicure.
Purtroppo però la probabilità non è l’antidoto più efficace per l’incertezza ed anzi il concetto di rischio ha implicazioni emotive tali da orientare le scelte della gente in senso inverso rispetto ad una pretesa “razionalità” asettica e fredda (nel senso di priva di risvolti emotivi e puramente computante).
In medicina c’e’, ad esempio, un parametro su cui casca l’asino della riduzione del rischio, assoluto e relativo, di andare incontro ad una malattia (ad esempio una malattia cardiaca nel caso della prevenzione cardiovasclare): mi riferisco al cosiddetto NNT o numero di pazienti da trattare per evitare un evento. C’e’ una bella differenza tra assicurare che, prendendo un certo farmaco, il rischio di infarto si riduce del 30% e affermare che comunque si dovranno trattare 30 o 50 persone per tot anni al fine di evitare che una di esse vada incontro alla malattia acuta, mentre contemporaneamente altri due sfortunati dovranno comunque vedersela con ospedali e medici, NONOSTANTE la prevenzione instaurata. Per giunta non e’ dato conoscere in aticipo ne’ chi tra i 30 o 50 candidati sara’ il fortunato vincitore alla lotteria preventiva ne’ quando potrà beneficiare della vincita (o dovra’ rassegnarsi alla perdita, nel caso che vada incontro alla malattia a dispetto della cura). Mi sembra che la situazione non sia molto diversa dal problema della probabilità temporalizzata relativa al rischio di incidente in una centrale nucleare. Voglio dire che la statistica e le probabilità mi sembrano un modo per esorcizzare la sostanziale imprevedibilità e aletorietà degli eventi, nel senso che purtroppo non e’ dato conoscere in aticipo e con certezza la sorte futura dei singoli individui.
Spero di non aver scritto un numero eccessivo di cavolate e/o banalità, avventurandomi in questo terreno per me infido!
Peccato dover interrompere ora il seminario, proprio quando sta entrando nel vivo!
Perche’ non “evolvere” tecnicamente verso una M.L.?
Cordiali saluti a tutti
G.Belleri
Flero (BS)
61 From:
Corrado Del Bo’ <delbo@f…>
Date: Sat Feb 15, 2003 1:13pm
Subject: Verso le conclusioni (ma c’e’ ancora un po’ di tempo!)
Cari amici,
come gia’ vi ha ricordato Andrea Rossetti, e’ possibile inviare messaggi alla lista <fgb-forum@yahoogroups.com> fino alle ore 16 di oggi, sabato 15 febbraio.
Alle 16 disattivero’ la lista, ma di questo (e di altro) vi informero’ meglio nel messaggio di chiusura del seminario.
Buon proseguimento, Corrado Del Bo’
62 From:
Marco Paradiso <marcostar@f…>
Date: Sat Feb 15, 2003 2:00pm
Subject: Democraticità e Progresso
Spero di non essere in ritardo per un intervento………
Leggendo tutti gli interventi e cercando di trarne un piccolo spunto di riflessione, mi sono reso conto della eterogeneità di pensiero e questo, da “povero” studente di Scienze Giuridiche che ha iniziato la sua avventura in età matura, è un ottimo modo di rendersi conto che esiste una forte pluralità di vedute che spesso vengono perse per la scarsa esigenza di confrontarsi che ci deriva dal nostro stile di vita( parlo principalmente per esperienza personale).
Desidererei innanzitutto poter esprimere il mio favore per la relazione fatta dal Prof. Longo, in cui mi sono ritrovato su diversi punti a proposito della retroazione positiva che alimenta il progresso e che il benessere dell’uomo è inconsciamente condizionato da ciò. Egli cerca, quasi fosse una mission, la continua evoluzione del progresso per spostare quei limiti che la scienza gli pone….
L’uomo inconsapevolmente si ritrova al servizio della tecnologia e da essa non riesce a distaccarsi.
Progresso e attività scientifica di ricerca non possono scindersi, se le scoperte riescono a migliorare il vivere umano a livello generale, anche se forse questo è un obiettivo utopistico(pensiamo solo alle condizioni di vita di determinate popolazioni)……La Democraticità delle scoperte scientifiche e la loro diffusione dovrebbero rendere la vita più agevole a chiunque senza distinzione di razza, ma gli interessi in gioco portano a conflitti che i fautori dell’open suource, ad esempio per i software, non riescono ad accettare…….giustamente! Perchè privare il genere umano di un qualcosa che dovrebbe servire per vivere meglio? Entrano in gioco forti interessi politico-economici, legati alle varie lobby di potere che come sappiamo contano molto, a livello globale.
Il carattere ideologico del sapere è stato schiacciato dalla “Scienza del Mercato”, permettetemi il gioco di parole, che ha inghiottito il fine ultimo del sapere…….Sembra quasi che l’obiettivo precipuo sia solo la ricerca continua di uno stato di “Immortalità” che la tecnologia dovrebbe fornire…….ma a quale prezzo? La distruzione della maggioranza del genere umano? O che altro……
Non permettiamo che la tecnologia informatica, che ha creato una sorta di intelligenza artificiale(tramite internet), tesi peraltro discutibile, possa derogare l’uso della tecnologia a discapito della razionalità umana…….
Il fine ultimo della ricerca deve essere la democraticità del Progresso, comunque inteso, senza il quale l’umanità sarebbe destinata ad un distacco sempre più evidente, tra noi “esseri evoluti” e popolazioni non avanzate, che porterebbe alla loro estinzione……!!!!!!!!
Vorrei che non pensaste a questa riflessione come il preludio della fine del genere umano, ma solo come un invito alla riconsiderazione del sistema di vita che ci circonda.
Grazie a tutti Marco Paradiso
63 From:
vittorio bertolini <vittorio.bertolini@t…>
Date: Sat Feb 15, 2003 2:55pm
Subject: ultima domanda
[Dall’invenzione della staffa a Internet e… così via]
I progresi della tecnica hanno sempre influito sul cammino dell’umanità.
Anche nel caso che i contenuti ingnegneristici fossero estremamente semplici, come nel caso dell’invenzione della staffa nel tardo medioevo. Però anche se oggi viaggiamo in aereo e non in lettiga, comunichiamo via internet e così via leggiamo Catullo e Lucrezio come nostri contemporanei.
[Innovazioni che modificano antropologicamente l’uomo?]
Quello che mi chiedo, ma non solo a me stesso, è se le nuove innovazioni (scusate il bisticcio) basate su info e bio aprono un nuovo processo evolutivo che non viene a modificare il mondo dell’uomo non solo dal punto di vista sociologico, ma anche da quello antropologico. Fino ad oggi le invenzioni tecnologiche hanno modificato il mondo esterno all’uomo, ma le nuove, con la loro pervasività implicheranno che i miei post-postnipoti saranno dei simbionti che a stento potranno riconoscere in me uno cole loro.
O sono io, e non solo io, a credere che Catullo fosse uno come me.
64 From:
Luigi Foschini <luifosc@t…>
Date: Sat Feb 15, 2003 3:49pm
Subject: all’ultimo minuto!
Cari Amici,
volendo a tutti i costi aumentare l’entropia dell’informazione, sto cercando di condensare in qualche decina di minuti (inizio alle 14:53 e alle 16 chiude il forum…) qualche pensiero su quanto scritto in nell’articolo iniziale di Longo e diverse decine di email (tra parentesi, mi trovo di fronte a un curioso caso di omonimia, avendo collaborato per diversi anni con un altro Giuseppe Longo, anche lui professore, ma di fisica all’Universita’ di Bologna).
La mole di informazione accumulata in questa settimana e’ impressionante e ringrazio gli amici della Fondazione Bassetti per avermi dato l’opportunita’ di accedere a questo forum.
[Che cosa significa “fare scienza”?]
Nella Premessa, Longo scrive che scienza e mondo non si possono separare, ma che la scienza non vuole avere nulla a che fare col resto del mondo. Molto argutamente, Sylvie Coyaud replica il 10/2: “Perche’ non provare a pensare che scienza e tecnologia sono del mondo cosi’ come ce lo facciamo, non un mondo a se’ con addetti simili a una casta sacerdotale? Vogliono per se’ cio’ che vogliamo tutti […]”. Gia’, perche’ ci si aspetta sempre che lo scienziato sia ascetico? Forse perche’ di fronte a una crisi delle religioni ci si e’ aggrappati alla scienza come surrogato di religione? E quando ci si e’ accorti col crollo del determinismo che la scienza non offriva alcuna ancora di salvezza, ecco che la si rifiuta, la si demonizza. La scienza diventa “debole”, in contrasto a una scienza deterministica che sarebbe invece “forte”.
Nel suo email del 14/02, Guido (mi scusi se la chiamo solo per nome, ma nel suo email non trovo il cognome) nota che dopo quasi 80 anni di principio di indeterminazione, il mondo ufficiale continua a essere cartesiano e questo, aggiungo io, alla faccia del presunto “potere” della scienza, di cui tanto ci si preoccupa di amministrare. A Einstein che proclamava: “God does not play dice”, Bohr replico’ “Our problem does not not consist in telling God how he has to govern the world”. Pero’ oggi la gente ricorda Einstein, ma non la replica di Bohr, che dal punto di vista scientifico e’ molto piu’ importante.
[Cosa c’è di così terribile in un mondo non deterministico?]
Francamente mi sono sempre chiesto cosa ci sia di cosi’ terribile in un mondo non-deterministico, nel vivere senza una visione unica e unitaria del mondo. Anzi, per me sarebbe piu’ terribile il contrario. A questo proposito, mi capito’ di replicare a uno dei tanti articoli in cui si parlava della crisi della scienza. Il testo in inglese e’ disponibile in internet all’indirizzo: http://arXiv.org/abs/physics/9807009 Curiosamente, un fisico russo mi scrisse, entusiasta, dicendo che dopo il crollo del comunismo, la gente aveva una forte reazione di rigetto verso la scienza, e, a suo vedere, il mio articolo forniva utili spunti per una difesa della scienza.
Ma allora, a quale scienza sta pensando il “mondo ufficiale”, quello da cui io, scienziato, sarei fuori? Rossetti scrive sulla fioritura di “scienze”: ma quando tutto e’ scienza, non c’e’ piu’ scienza. Ma non e’ che il “mondo ufficiale” sta pensando a qualcosa che non esiste piu’, qualcosa di anacronistico, qualcosa di ormai “fuori dal mondo”?
Secondo il “mondo ufficiale” sarei un ricercatore, uno che fa scienza: eppure, affermo che nella mia attivita’ lavorativa non faccio scienza. E’ forse scienza preparare la richiesta di finanziamento, come nota con sagacia Longo, in cui si esaltano i miracoli che si avranno se mi verranno dati i fondi?
Sulla porta del laboratorio di una universita’ canadese e’ scritto (piu’ o meno, vado a memoria): “se sai cosa stai facendo, allora non e’ ricerca.”
Nespole! Il tempo e’ scivolato via e avrei ancora tante cose da scrivere. Il forum ha toccato temi appassionanti.
Chiudo qui, a malincuore, rimandanovi agli scritti su questi temi che ho preparato nei mesi passati per la Fondazione Bassetti e che trovate sul sito web (https://www.fondazionebassetti.org/), e maledicendo la mia mania di fare le cose all’ultimo minuto.
E’ stato un piacere e un onore leggervi.
Ciao, Luigi
—
Dr. Luigi Foschini
IASF-CNR – Sezione di Bologna (Italy)
Email: foschini@b…
URL: http://www.bo.iasf.cnr.it/~foschini/
INTEGRAL Science Data Centre – Versoix (Switzerland)
Email: Luigi.Foschini@i…
——————————-
You have no responsibility to live up to what other people
think you ought to accomplish. I have no responsibility to
be like they expect me to be. It’s their mistake, not my
failing. (Richard Feynman)
——————————-
65 From:
Corrado Del Bo’ <delbo@f…>
Date: Sat Feb 15, 2003 4:03pm
Subject: Si chiude (ma non del tutto)!
Cari amici,
da questo momento non e’ piu’ possibile inviare messaggi alla lista <fgb-forum@yahoogroups.com>. La lista non e’ tuttavia ancora disattivata, in quanto il professor Longo deve naturalmente poter inviare le proprie repliche conclusive, il che accadra’ la prossima settimana, probabilmente lunedi’.
A quel punto, la lista verra’ chiusa e i vostri indirizzi definitivamente cancellati dalla medesima. Contiamo, tuttavia, di riaprirla in un prossimo futuro, per iniziative analoghe, speriamo altrettanto feconde, per le quali confidiamo vogliate dare ancora il vostro contributo.
A questo proposito, se volete rimanere aggiornati su queste (e altre) iniziative della Fondazione Bassetti, mi permetto di rinviarvi alla Pagina d’ingresso del nostro sito (https://www.fondazionebassetti.org/), dove troverete anche le indicazioni per iscrivervi alla Mailing List della Fondazione. Tenete presente, a questo riguardo, che i messaggi di aggiornamento sulle attivita’ della Fondazione diramati via Mailing List sono solitamente un paio al mese.
Potete scriverci se volete inviarci due righe su di
voi (chi siete, cosa fate ecc.). Questo non per schedarvi, ovviamente:-), ma solo per poter meglio interagire con voi in futuro.
Per qualsiasi chiarimento ulteriore (su questo o su altro), vi prego tuttavia di non esitare a scrivermi in privato.
Bene, credo di avervi detto tutto. Non mi resta (ed e’ una cosa che faccio molto volentieri) che ringraziarvi, anche a nome della Fondazione, per il vostro contributo a una discussione che mi e’ sembrata molto utile e stimolante.
Un ringraziamento particolare va naturalmente ad Andrea Rossetti, che ha saputo interpretare al meglio il suo ruolo di discussant e, soprattutto, a Giuseppe O. Longo, che e’ stato un relatore eccezionale. Noi tutti, credo, dobbiamo essere grati al professor Longo per la rara abilita’, competenza e umanita’ con cui ha arricchito questa fruttuosa esperienza di uso pubblico della ragione.
Con la speranza di risentirci presto,
Corrado Del Bo’
Fondazione Bassetti
66 From:
longo@u…
Date: Mon Feb 17, 2003 7:28pm
Subject: quarta replica al seminario: Longo risponde 15 febbraio 2003
Il seminario si avvia alla conclusione, tra poco più di due ore si chiuderanno i cancelli (mi viene in mente il contadino di Kafka davanti alla porta della Legge). Mi sento un po’ esausto per la circolazione di pensiero e pneuma che ha menato i nostri spirti, non con la sua ruina, ma con la sua tenace volontà di capire, di andare oltre, di non rassegnarsi, pur tra sgomenti e intermittenze. Esemplari tutti, i miei corrispondenti, e li ringrazio: ringrazio anche gli spettatori muti, che hanno seguito senza intervenire esplicitamente: ma erano lì.
Paola Zerella (che dice, giustamente, studente e non studentessa, che è più usato, più fascinoso, più seduttivo ma meno corretto) solleva il problema immenso del consenso informato: giustizia e morale vorrebbero che ciascuno, individualmente, fosse informato al meglio dei rischi che comporta un’attività, un’impresa, un intervento ecc., pubblico o diretto anche a un solo individuo. Non sempre ciò è possibile, perché molti rischi sono ignoti (e qui dovrebbe intervenire un principio di ‘cautela’ ben più prudenziale di quello che si chiama oggi ‘principio di precauzione’, ma di fatto la cautela viene spesso sacrificata in nome del ‘progresso con vittime’, come ‘invito a cena con delitto’); ma spesso, anche quando i rischi sono ben noti, le cavie ne vengono informate solo in parte (o per nulla): ci sono stati e ci sono (in particolare nel campo medico sanitario) molti esempi di questa vera e propria sopraffazione che grida vendetta, e non solo nei regimi totalitari!
Non sono, questi che tocca Paola Zerella, temi poco elevati: è la sostanza di fondo del seminario, anche se spesso ne siamo stati più o meni sviati dalle discussioni arborescenti e rizomatiche che si sono sviluppate (tutte peraltro di interesse palpitante). Ma di questo problema non abbiamo la soluzione: possiamo solo sforzarci di fare del nostro meglio, ciascuno secondo le sue possibilità e nel suo ambito. E ora l’autocitazione (da Il fucoo completo, Mobydick, 2000):
“Tenta lo zolfo, la malachite, il mogano e il quarzo, l’alcol e la calcite, il mercurio, l’oro e l’acqua forte, lo smeraldo e l’acqua regia, l’ambra, il pirosseno e lo zirconio.
Ed ecco, dopo anni di sforzi, in una notte di marzo che nella vita del mondo è diversa da tutte le altre, la materia lungamente sollecitata apre le piccole invisibili ampolle dove stava rinchiusa la sua più intima essenza, e agli occhi increduli e commossi del vecchio Usinor appare, come un pallido fiore azzurrino, la fiammella esitante da sempre cercata. Egli la contempla a lungo, poi, con un’intuizione che stupisce, annota: ‘Guardando quel piccolo lume bluastro, oscillante e delicato, sentivo di aver violato un’intimità segreta, di aver forzato meccanismi complessi e puntuali. Avevo spezzato le piccole fiale resistenti in cui, ben divise, erano state da sempre racchiuse sostanze che, forse, non avrebbero mai dovuto mescolarsi. Dal loro contatto ora scaturiva quella fiammella, che era dunque il segno esile e quasi insignificante di un atto possente che si consumava nella materia e che la natura aveva vietato.
Provavo un orgoglio smisurato e una profonda inquietudine.’ E più avanti: ‘Più di così la materia non avrebbe potuto darmi e questo suo succo essenziale, intimo e proibito, ho voluto chiamarlo il Fuoco Completo. Quella fiammella fredda e azzurrina spingeva la mia anima a riflessioni lontane. Essa ardeva con un crepitio quasi inavvertibile, illuminava appena, lividamente, il noto paesaggio del laboratorio, rendendolo irriconoscibile. Toccata con un oggetto qualunque, essa vi aderiva in un contagio effimero ma inestinguibile. Questo ardere stabile, prolungato e silenzioso pareva segnare una consunzione interna e duratura, che io avevo innescato in un punto arbitrario anche se forse predestinato del mondo e che ora lentamente si propagava. Era come se tutta la materia avesse cominciato a uscire pian piano da quel piccolo strappo e dilagasse, consumandosi febbrilmente in quella fiamma silenziosa.’
Quanto le sue apprensioni fossero giustificate, Usinor poté vederlo, tragicamente, di persona. La fiammella bluastra si estese col tempo a tutto il laboratorio e nonostante la sua cautela egli ne fu contagiato. Nei lunghi anni in cui si consumò il suo martirio indolore, Usinor ebbe modo di dettare una teoria – giudicata più tardi quasi perfetta – del fuoco completo, con la quale concluse il suo trattato. Ne metteva in evidenza i pericoli e ne indicava le meravigliose, esaltanti applicazioni; infine elencava le precauzioni da adottare nel suo impiego.
Quello che accadde dopo si sa.”
In attesa che Margherita Bologna si svegli del tutto (faccina sorridente) e risponda ad Andrea Rossetti sul tema (fondamentale) del rapporto tra naturale e imposto (o, reciprocamente, adottato o subìto) come naturale… per fortuna è arrivato in questo momento, a interrompere la mia glossolalia, il messaggio di Andrea Rossetti, che ha dato una bella torsione al tutto: grazie! e grazie per l’apologo di Borges (meditiamo anche sulle parole di Serveto, che potremmo prendere come auspicio e viatico, anche secondo le intenzioni di Giuseppe Belleri, che ringrazio per l’esempio medico, centratissimo a mio parere, delle difficoltà in cui ci dibattiamo quando vogliamo dare un senso pratico alla nozione di probabilità e allo strumentario statistico: credo che il suo esempio sia affine a quello da me proposto sulle centrali nucleari e in più ha il merito di essere molto più quotidiano e riscontrabile). E lo ringrazio anche per il contributo complessivo che ha dato con Montagnini alla discussione sul caso e la probabilita. Parentesi: certo, anche la nozione di informazione, che è una delle più pervasive e insieme oscure, merita approfondimenti e riflessioni non solo tecnici ma anche ‘filosofici’.
Sono quarant’anni che ho a che fare in un modo o nell’altro con l’informazione e ancora non ne sono venuto a capo (il che mi riempie di speranza per un futuro di riflessione e scrittura che mi auguro lunghissimo).
Grazie, caro Rossetti per l’elogio del professore-che-tutti-avremmo-voluto-incontrare, ma il ‘prof Longo’ non esiste: esiste ‘il prof Longo in interazione costruttiva, volonterosa, partecipativa, emotiva e razionale con tutti voi’, secondo una visione sistemica e collaborativa che, per il momento, rappresenta una delle mie convinzioni più profonde e motivate. In questo credo di essere in buona compagnia (o meglio in compagnia buona): certo Leone Montagnini, che ci ha fatto dono anche di qualche cenno della sua biografia intellettuale, è tra i sistemisti-cibernetici alla Bateson. Ma tutti voi siete in cerca, tutti voi volete comprendere (non solo con la mente, non solo con il cuore, ma ciascuno con tutto sé stesso) questo vasto mondo rimbombante e multicolore e fiammeggiante: per comprenderlo siamo stati abituati da sempre a costruirne dei modelli semplificati. Che cosa sono l’arte, la scienza, la poesia… se non modi per costruire modelli semplificati del mondo, mondi parziali che abbiamo ri-costruito per abitarli con maggior agio e rassicurante placidità rispetto al rischioso mondo ‘dato’? E che cos’è la tecnologia se non il tentativo, splendido, arrogante, pericoloso e paradisiaco, di costruire un ‘altro’ mondo, dove ‘vivere’ beati, al riparo da dolori, malattie, morte e angoscia, sottratti per sempre alla condizione umana? Ma sottraendoci a quelle miserie, che cosa perderemmo? Che cosa stiamo già perdendo? Esaù e il piatto di lenticchie… Come sono reazionario! Però accetto l’esortazione di Montagnini: ‘sognare alla grande’.
in ogni caso credo sia importante tener sempre presente che i mondi della poesia, della leteratura, dell’arte, della scienza… sono modelli o immagini parziali del mondo: non possiamo pensare di esaurire il mondo mediante un suo modello. Il riduzionismo razionale è assurdo quanto il riduzionismo emotivo o poetico, o tecnologico.
Giuseppe Belleri, tra i tanti suoi meriti discussori, ha anche chiarito e riassunto il mio pensiero su quello che io ho chiamato in modo sbrigativo, ‘il sorpasso della scienza da parte della tecnologia’ e sono contento che Montagnini, rispondendo a nome di Aristotele, abbia citato il Protrepticon, ma anche che abbia riconosciuto che il silenzio può uccidere: per discutere bisogna che ci sia non tanto una meta da raggiungere, quanto un minimo di volontà cooperativa, quella che anima i due personaggi di Borges. Ma vi rendete conto di quello che hanno combinato questi Greci? Vi rendete conto di quanto hanno piegato il corso della storia con la loro mania della Verità? Ormai la frittata è fatta…
Interrompo
Riprendo domenica 16 febbraio ore 10
La storia poteva andare diversamente (sono un convinto assertore della contingenza e dei ragionamenti controfattuali): difficile dire se staremmo (chi?) meglio o peggio (di chi?)… se i Greci si fossero trovati a vivere nelle inospitilande della penisola di Kola invece che sulle sponde del mare da cui ‘vergine nacque Venere e fea quell’isole feconde col suo primo sorriso’. Rileggo con diletto il contributo di Giovanni Maria Borrello, che ci ha offerto alcuni excerpta di Kary Mullis imbevuti si soda cuastica (mi ricorda un po’ Karl Kraus), ma non oso entrare nella disputa filosofico-ponderale sul Geymonat (Andrea Rossetti, Alessandra Grazia, Leone Montagnini…). Sarei propenso a concordare con Montagnini quando critica la pappetta incolore che nel dibattito intellettuale avrebbe preso il posto degli schieramenti vigorosi di un tempo. L’unica perplessità è che questo vigore battagliero non finisca con l’impedire la ricerca proprio perché nasce da premesse troppo forti che contengono buona parte di ciò che si troverà (vedi la scritta sulla porta del laboratorio canadese che ha citato Luigi Foschini).
Al quale Luigi Foschini vorrei confermare che non sono il Giuseppe Longo che lui ha conosciuto: il nome Giuseppe è, nonostante l’evoluzione economico-culturale, ancora il più diffuso in Italia e il cognome Longo è tra i più comuni, perciò l’accoppiata è piuttosto freqyente e la vita mi ha portato a imbattermi in omonimi. Il mio smisurato narcisismo individualista e vanitosi mi ha spinto allora a ricorrere alla O. intermedia (sulla quale si sono avanzate molte congetture) per distinguermi dalla folla dei Giuseppi Longhi…
Vorrei precisare quanto scrivo (nel testo del mio articolo): “se la scienza non vuole aver nulla a che fare con il resto del mondo (cosa di cui si può dubitare) è il resto del mondo che vuole aver a che fare con la scienza”.
Intendendo proprio ciò che con altre parole dice Sylvie Coyaud: scienza e tecnologia sono del mondo. Ma bisogna distinguere ciò che della scienza e della tecnica pensano gli “addetti ai lavori” da ciò che ne pensano altri.
Un’indicazione in questo senso può venire dall’intervento di Massimiliano Bucchi. I barbieri frequentano i barbieri e i fisici frequentano i fisici, gli intellettuali si accompagnano con gli intellettuali. Mai che mi capiti di parlare di scienza con un camionista o con un bancario… (vedi anche l’osservazione di Marco Paradiso all’inizio del suo intervento).
Giuste le rimostranze di Luigi Foschini, ma bisognerebbe individuare il soggetto delle sue frasi: “ci si aspetta sempre che lo scienziato…” oppure: “ci si è accorti del crollo del determinismo…” “si demomnizza la scienza…” “la gente ricorda Einstein ma non la replica di Bohr…”. Da questo esercizio di ricerca del punto di vista potrebbe venire, forse, qualche indicazione sull’immagine che della scienza hanno categorie vaste e poco a contatto con la scienza, ma che con le loro decisioni politiche e amministrative contribuiscono pian piano a una deriva sociale che coinvolge anche la scienza. Non si tratta del il “mondo ufficiale”, credo, bensì di una congerie vasta, eterogenea, difficile da definire, che accoglie in sé moltissimi individui (o meglio, parti consapevoli o semiconsapevoli dell’io di moltissimi individui…) che non partecipano ai dibattiti sulla scienza ma che qualcosa di implicito sulla scienza avvertono. E certo quanto avverte questa congerie indeterminata di persone è, mediamente, molto diverso (certo anacronistico) rispetto a quanto avvertono gli scienziati.
Se la scienza è passata da un’immagine determnistica a una non deterministica delmondo (vado per grandi semplificazioni), per lo scienziato questo è abbastanza irrilevante, anzi, segna un progresso: ovvio. Ma per gli altri, che ricevono echi lontani, spesso filtrati alla carlona dalla divulgazione scientifica, o addirittura snaturati da pregiudizio filosofico o fideistici, il passaggi odiventa subito un “crollo delle certezze” e coinvolge l’immagine del mondo non solo fisico (che ce ne importa, in fondo, della fisica), ma del mondo delle relazioni sociopolitiche, dell’economia, della vita quotidiana. Ecco che cosa c’è di “terribile” nel mondo non-deterministico: la perdita di un’autorità, di una guida, di un padre buono e saggio cui chiedere consigli, anzi ordini. Non mi stupisce che il crollo di una certezza in un campo faccia crollare le certezze in altri campi (l’esempio del comunismo e della scienza mi pare emblematico, ma qui sarebbe interessante avere il parere di un sociologo…
Peccato, davvero peccato che il seminario sia finito… Ma un bel gioco dura poco…). Dalla scienza, è vero, ci si aspettava (chi?: ci casco anch’io!) ciò che promettevano le religioni: perché la scienza ha spodestato la religione (ecco perché gli scienziati sono spesso visti, e a volte si sentono, come sacerdoti), senza -giustamente – rispondere alle domande cui quella in un modo o nell’altro rispondeva; ma non per questo la scienza ha posto fine a quello che si potrebbe chiamare “il bisogno di assoluto”, anzi ha prodotto una grande e per certo versi devastante “nostalgia dell’assoluto”. Per di più la scienza, agli occhi dei non scienziati, vacilla anche nei campi dove per tradizione riusciva a dare qualche certezza… Ce n’è d’avanzo per rifugiarsi tra le braccia della tecnologia, che almeno dà le certezze del cellulare, della Tv spazzatura, delle automobili luccicanti…
Caro Luigi Foschini, nespole!, anche per me il tempo scivola via!
Vittorio Bertolini m’invita a nozze con la sua idea di un mutamento antropologico e non soltanto socioculturale provocato dalle nuove tecnologie. Oggi gli umani sono in grado non solo di riprodursi, ma di prodursi diversi da prima. E non solo per via delle biotecnologie (modo esplicito e programmatico) ma anche tramite le tecnologia informazionali, che interagiscono fortemente con la mente e modificano il cervello. In un mondo profondamente modificato dalle tecnologie, per una sorta di adattamento coevolutivo, la specie deve adottare delle modificazioni (mi permetto di rinviare al mio libro “Il simbionte” segnalato sul sito della Fondazione, di pubblicazione imminente).
Marco Paradiso riuassume, con toni molto accorati, alcuni dei temi di fondo toccati nel seminario e in particolare reclama una maggiore compenetrazione tra “progresso e attività scientifica”: forse, come abbiamo già sottolineato, lo scollamento tra questi diversi aspetti dell’uomo sta alla radice dimolti problemi. L’ipotesi adombrata di una “distruzione della maggioranza del genere umano”, per quanto raccapricciante, non è del tutto infondata: la diversa velocità con cui i vari popoli acquisiscono la tecnologia può davveroportare alla creazione di almeno due (pseudo)specie: un homo sapiens technologicus fortemente integrato con i suoi strumenti e un homo sapiens molto arretrato (non si dia a questo aggettivo un colore valutativo). Tra le due psedospecie potrebbe instaurarsi un rapporto di dominanza-sudditanza (è più omeno quello che accade oggi tra il nord e il sud del mondo, salvo moti di ribellione anche cruenta); una convivenza pacifica basata sulla reciproca ignoranza (ipotesi quanto mai improbabile) o sulla saggezza dell’uomo a bassa tecnologia (ipotesi ancora più improbabile, specie se circonfusa da fame atavica); una guerra a oltranza di esito incerto (vista anche la fragilità intrinseca della tecnologia).
Non è un panorama incoraggiante (questo anche per Leone Montagnini, che mi “accusava” di ottimismo).
Aber Freunde, nicht diese Tönen!
Interrompo alle 12,15 del 16 febbraio.
Riprendo il 17 febbraio alle ore 18,15
Non ho dimenticato la sfida di Sylvie Coyaud: a ogni sua domanda si può rispondere con una battuta oppure con un piccolo o grande) saggio. Provo con le battute (ma solo per alcune domande), per dare al tutto la concitazione di un conorso a premi.
D – L’impresa scientifica non è democratica, quella automoblkistica lo è?
R – Sì, dopo che ha rinunciato al colore nero per tutti imposto da Ford.
D – Le teorie e le pratiche scientifiche sono per pochi; e le altre produzioni intellettuali? Basta la bocca per rifarsi il Parsifal a casa?
R – Io sotto la doccia mi sforzo di rifarmi il Don Giovanni (col Parsifal non ci ho ancora provato), ma è vero: ho qualche problema con gli archi e con Zerlina. Sotto la doccia non ho mai tentato di fare qualche esperimento di elettrostatica.
D – L’auto uccide 8000 persone all’anno in Italia, ne ferisce 50 mila: secondo lui (Jonas), ci rinunciamo?
R – No, non ci rinunciamo, neppure io, che sono più saggio della media. Ma soprattutto la psicologia dell’automobilista lo spinge a ritenersi onnipotente: a me non può toccare, perché io sono più bravo degli altri. Se invece il volante (anche metaforico) lo tiene in mano un altro siamo subito sulle spine.
D – Perché non provare a pensare che scienza e tecnologia sono del mondo così come ce lo facciamo, non un mondo a sé con addetti simili a una casta sacerdotale? Vogliono per sé ciò che vogliamo tutti: più bellezza, più salute, ricchezza, fama, comfort, mobilità, sicurezza, libertà, piacere ecc. costi quel che costi, o quasi. O c’è gente che non si auspica nulla del genere?
R – Ho provato a pensare la scienza e la tecnologia in questo modo, e stavo per riuscirci… Però, insistendo sulle uguaglianze, si rischia di dimenticare le differenze. E (per me che mi occupo di informazione) le differenze sono più importanti delle uguaglianze (è una posizione molto cattivista). Non abbiamo una metrica per misurare le differenze, quindi non possiamo dire che si tratta di differenze “piccole” o “grandi”, possiamo solo dire che il fatto di esercitare un certo tipo di attività comporta delle conseguenze nella visione del mondo ecc. (Qui mi sono un po’ incartocciato…)
Da ultimo vorrei rivolgere un ringraziamento all’amico Marcello Cini, che è sempre stato con me generoso di esempio e di incoraggiamento. E generoso è stato anche questa volta, con i suoi ampi stralci dalla recensione che aveva pubblicato a suo tempo del mio “Homo technologicus”. Di Marcello siamo debitori di molte idee e di molta saggezza ed esorto chi non lo è ancora a diventarlo, debitore, leggendo i suoi libri. Per fortuna di tutti il suo intervento, giunto fuori tempo massimo, è stato ripescato da Giovanni Maria Borrello e Corrado Del Bo’. Le sue osservazioni finali sul rapporto tra scienza e tecnologia e sulla democrazia arricchiscono il seminario: per esempio l’indicazione di una connessione sempre più stretta tra scienza e tecnologia, che riecheggia altre posizioni e che contrasta abbastanza (almeno in apparenza) con le mie. Dico in apparenza, perché sarebbe forse da approfondire la natura del soggetto che fa scienza e che fa tecnologia. Se è vera l’ipotesi che l’homo technologicus sempre più ibridato, allora chi fa tecnoscienza oggi è un soggetto molto diverso da quello che faceva scienza anche solo qualche decennio fa: allora è sì vero che scienza e tecnica sono sempre più mescolate, ma è anche vero che per il tramite del simbionte l’attività cognitiva è sempre più delegata alla componente macchinica dell’homote chnologicus, che si sviluppa a ritmi elevatissimi. E’ per effetto di questa delega, mi pare, che la scienza così come la conosciamo, e come la pratica l’uomo a bassa o media tecnologia, minaccia di scomparire. Ma è un punto sul quale devo riflettere. Se me lo permetti, Marcello, vorrei segnalare quello che mi pare sia il tuo libro più recente, “Dialoghi di un cattivo maestro” (Boringhieri, Torino, 2001), che ho avuto il piacere di presentare con te a Trieste qualche mese fa: lì i seminaristi potranno trovare l’indicazione delle tue opere più significative.
Ora (19,20) chiudo questa quarta e ultima replica ai vostri interventi; venerdì prossimo cercherò di mandarvi una sorta di bilancio finale (molto stringato).
Buone cose a tutti.
Giuseppe O. Longo
67 From:
Corrado Del Bo’ <delbo@f…>
Date: Mon Feb 17, 2003 9:40pm
Subject: Da Marcello Cini
Cari tutti,
visto che l’email e’ giunto solo qualche minuto dopo la chiusura del Forum, e ritenendo di fare cosa gradita, vi giro l’email di Marcello Cini cui fa cenno Giuseppe Longo nella sua quarta replica.
Cordialmente,
Corrado Del Bo’ ——-
Sono spiacente di non aver potuto intervenire prima in questo forum così ricco di spunti e di osservazioni stimolanti. Non posso inseguire i fili della trama che è stata intessuta perché non ne sarei capace.
Mi limito quindi a contribuire l’ultimo giorno al dibattito sul bellissimo testo del mio vecchio amico Pino per prima cosa riportando alcuni stralci della mia recensione pubblicata su “il manifesto” due o tre anni fa in occasione della pubblicazione del suo libro Homo technologicus. Alla fine farò un paio di osservazioni sul tema del rapporto fra scienza e tecnologia e sulla questione della democrazia.
“Giuseppe O. Longo – scrivevo – è un personaggio geniale e proteiforme.
Come scienziato insegna Teoria dell’informazione all’Università di Trieste. Come traduttore ha fatto conoscere in Italia tutta l’opera di Gregory Bateson. Come scrittore è autore affermato di opere di narrativa premiate e tradotte in varie lingue. Finora queste sue attività, pur riflettendosi indirettamente l’una nell’altra, avevano prodotto testi di genere tradizionale: saggi, romanzi, racconti, drammi teatrali. Con il suo ultimo libro, Homo technologicus, Longo ha inventato invece, e non è poco, un nuovo genere letterario. Si tratta di un saggio nel quale uno scheletro di fatti e ragionamenti organizzato secondo un filo logico è rimpolpato da frammenti di storie, racconti allegorici, fantasie allucinatorie che contribuiscono a formare un insieme organico in grado di rappresentare assai meglio di altre forme espressive già sperimentate la complessità dell’oggetto della sua ricerca: la grande tappa evolutiva di cui siamo testimoni e protagonisti, dall’homo sapiens all’homo technologicus, o, se si vuole, dall’uomo ‘a tecnologia limitata’ all’uomo ‘a tecnologia intensa’.
[>Da “Homo technologicus” di Longo]
“L’homo technologicus – ci avverte infatti l’autore nell’introduzione – non è ‘uomo-più-tecnologia’: è bensì un’unità evolutiva profondamente nuova, è un’unità organica, mentale, corporea, psicologica, sociale e culturale senza precedenti, che, se partecipa ancora dei miti, dei desideri e delle necessità dell’uomo ‘tradizionale’, crea anche miti, necessità e desideri suoi propri e inediti.”
Il libro è dunque una narrazione. Il dramma ha per protagonisti l’uomo e le sue macchine e mette in scena i loro complicati e mutevoli rapporti. Come sempre, un modo originale di guardare la realtà ne coglie subito aspetti imprevisti. Ne scorriamo rapidamente alcuni. Il primo è quello che presenta lo sviluppo delle nuove tecnologie non più come risultato delle funzioni razionali, astratte e formali della mente umana e come dimostrazione della loro superiorità rispetto ai prodotti dell’intelligenza pratica legata all’esperienza corporea, ma come frutto di un processo evolutivo “così rapido e tumultuoso che la teoria non riesce più a starle dietro”.[..]
Il secondo aspetto imprevisto (per l’appunto!) di questo approccio è quello di mettere in evidenza come le ‘tecnologie della mente-corpo’ (quelle cioè che riportano l’intelligenza, gia scarnificata dal funzionalismo, in un corpo che scambia col mondo esterno stimoli e perturbazioni), modificano organismo e ambiente collocandoli all’interno di una feconda coevoluzione. [..]
Il terzo aspetto rivelato dal nuovo approccio, legato al precedente, che ne porta tuttavia le possibili conseguenze all’estremo, è quello dell’identificazione del corpo come luogo centrale del mutamento indotto dalle nuove tecnologie. “Oggi la tecnologia è insieme diffusa e invasiva: da una parte si espande intorno al corpo, modificandolo e prolungandolo, e dall’altra si insinua nell’organismo per interagire in modi fini e inusitati, per potenziare, modificare o annullare facoltà, o semplicemente per ricavare informazioni.”[..]
Dopo questa lunga premessa, che mi sembrava necessaria per sottolineare l’originalità del discorso di Longo mi resta da accennare ad alcuni dei temi che vengono affrontati nei tre capitoli nei quali il libro si suddivide. Dei primi due, “Tecnologia, evoluzione, flessibilità” e “Macchine della mente” dirò, per ragioni di spazio, poche cose, anche se sono pieni di spunti interessanti, osservazioni acute, battute spiritose. Mi preme, ad esempio, sottolineare la conclusione del primo, che si potrebbe definire come un elogio della flessibilità.
Si tratta, come spiega bene l’autore, del potenziale non impegnato di cambiamento indispensabile per la sopravvivenza di un sistema complesso.
“Una normativa troppo precisa, che voglia prevedere tutti i casi possibili, e dare ricette per la soluzione di tutti i problemi, non fa altro che fissare entro soglie molto anguste le variabili del sistema, sottraendogli dunque quasi tutta la flessibilità con l’impedirgli quasi tutti i cambiamenti.” E’ per questo che “bisogna tener conto della flessibilità ‘naturale’ di cui sono dotati gli esseri umani e valorizzarla al massimo: è dai singoli che bisogna cominciare a costruire la società flessibile e solidale che vorremmo. Non i singoli isolati, ma i singoli in quell’armoniosa e ricca e differenziata coralità sociale che segna i rapporti interpersonali quando sono improntati alla cooperazione comunicativa e all’altruismo attivo.”
Allo stesso modo mi preme sottolineare, del secondo capitolo, l’elogio della ridondanza e l’elogio della diversità. “Il mondo ‘naturale’ – leggiamo – è ridondante, pletorico, robusto; quello ricostruito dall’uomo è essenziale, stringato, fragile. Inoltre, spesso, nelle strutture artificiali (ad esempio le organizzazioni, le aziende, le ditte, ma anche i partiti e le associazioni) la comunicazione si svolge solo dall’alto in basso, per cui la trasmissione dei comandi è gerarchica. Sotto questo profilo la rete è affatto diversa: la comunicazione non è gerarchica, bensì eterarchica, potendosi svolgere da un nodo qualsiasi a un altro qualsiasi nodo.”
La rete, appunto. E’ nel terzo capitolo, “L’uomo nella rete”, che Longo affronta le domande che nascono dall’esplosione della Rete globale le cui fitte maglie innervano tutto il pianeta. E’ chiara l’ambiguità del titolo, che riassume il conflitto fra due posizioni estreme: l’euforia di Nicholas Negroponte, da un lato, che la vede come un’anticipazione di un mondo caratterizzato dal decentramento, dall’armonizzazione e dal potenziamento delle capacità umane, e il catastrofismo di Neil Postman, dall’altro, che prevede l’avvento di una teologia tecnologica foriera di forme di totalitarismo tecnocratico in cui il despota, o la classe egemone o il partito unico di un tempo sarebbero sostituiti da un tiranno anonimo e non localizzato.
E’ chiaro che l’autore non sposa né l’una né l’altra. Preferisce scatenare la sua fantasia per presentare, nelle diverse forme che gli sono congeniali, gli effetti possibili che lo sviluppo della rete può avere sulla nostra cultura. Accenno soltanto, anche per non privare il lettore del gusto di scoprirli e approfondirli da sé, ad alcuni dei temi sollevati. Il primo è quello dei diversi significati del termine ‘navigazione’. [..]
Il secondo tema è quello della ‘natura della rete’. Che è al tempo stesso un “indefinito mosaico policromo in cui tutte le tessere sono interessanti ma nessuna è davvero fodamentale”, oppure grande metafora di una cutura che diviene pletorica e frammentaria, o infine “singolare museo onnicomprensivo, in cui la Divina Commedia, l’ultimo modello della Ford e le donnine nude si trovano su bancarelle contigue”.
Il terzo tema è quello della rete come autore, o iperautore, di sé stessa. “Autore strano, perché a-cefalo e a-centrico, privo di un progetto individuabile, se non a posteriori, e tuttavia reale, che sa e sa narrare cose che nessuna delle sue componenti, umane o macchiniche, sa e sa narrare.” Questo autore non possiede una mente, ma è una mente, nel senso preciso che Gregory Bateson ha dato a questo termine. [..]
Potrei fermarmi qui. Ma mi sembra opportuno terminare osservando che la lettura di questo libro solleva una domanda fondamentale, che ci assilla tutti, alla quale non sappiamo tuttavia ancora dare risposte adeguate all’urgenza e alla radicalità delle trasformazioni che incombono.
[“Homo technologicus” e “homo oeconomicus”]
Qual’è il rapporto fra l’emergente homo technologicus e l’homo oeconomicus degli economisti? Sono necessariamente due facce della stessa medaglia?
Questa domanda, ovviamente ne genera infinite altre. Per esempio: in che misura la riduzione a merce di ogni bene materiale e immateriale, addirittura di ogni forma di comunicazione tra gli uomini, condiziona il processo di coevoluzione tra la natura umana e i suoi artefatti che Longo ci ha descritto? O ancora: è’ l’economia soltanto una tecnica tra le altre finalizzata al raggiungimento di un obiettivo unico e determinato, che non lascia spazio ad altri criteri di scelta, come sostiene Umberto Galimberti – e dunque il processo è inarrestabile e incontrollabile – oppure è soltanto un vincolo che oggi incanala il processo evolutivo lungo un percorso a una sola dimensione, ma che domani potrebbe essere modificato e bilanciato da altri vincoli di diversa natura che permettano di arricchire la flessibilità, la ridondanza e la diversità della nostra specie?
Come si vede le vecchie formule non bastano. Ci sono tante cose nuove da capire.”
Termino con due osservazioni.La prima riguarda il rapporto fra scienza e tecnologia.Nella premessa Longo giustamente critica “chi sostiene che gli effetti negativi sul mondo derivano solo dalla tecnologia, perché la scienza non ha a che fare con il mondo: la sua interazione con il mondo è conoscitiva e non manipolativa.”
Ad essi Longo risponde: “Il grande sogno dell’Occidente, che da Platone in poi, passando per Cartesio e Leibniz, giunge fino ad Einstein, di spiegare o di ricostruire il mondo per via razionale e formale, non si è avverato. Anzi, quando sembrava prossimo all’attuazione, ha cominciato ad allontanarsi sempre più, come una nostalgica cometa.”
[Dall’universo delle leggi naturali al mondo dei processi evolutivi]
Per quanto mi riguarda ho scritto un libro per cercare di analizzare il passaggio “dall’universo delle leggi naturali al mondo dei processi evolutivi” e il mutamento dei relativi linguaggi. Del resto questo passaggio è discusso benissimo anche nel testo introduttivo di Longo.
Fin qui sono d’accordo. Un pò meno d’accordo sono quando leggo: “Insomma, è un po’ come se l’attività scientifica e la spiegazione razionale si stessero avviando al tramonto e cedessero il passo a una ragion pratica assai robusta e a volte tracotante.” In sostanza Longo traduce questo tramonto come scomparsa della scienza e trionfo della tecnologia, nel senso di rinuncia alla conoscenza a favore della cieca pratica. Secondo me, invece, non ci troviamo di fronte a una crescente separazione tra “scienza” e “tecnologia” ma alla loro sempre più stretta interconnessione nella “tecnoscienza”, anzi nelle “tecnoscienze”.
E’ certamente un mutamento epocale, ma non è soltanto una questione terminologica. Basta leggere il libro di Rabinowicz “Fare scienza oggi” (Feltrinelli) (dove si racconta l’intreccio fra “scoperta” e “invenzione” della Polymerase Chain Reaction, che ha fruttato a Kary Mullis il Nobel e alla Cetus Corp. profitti miliardari con il relativo brevetto), per capire dove sta il nodo dell’intera questione. Non è solo una questione epistemologica, ma si tratta di soldoni.(E’ in sostanza la domanda che facevo a Longo alla fine della mia recensione).Attraverso il brevetto, la conoscenza diventa merce.
Ma come dice Georg Soros, che di capitali se ne intende, “L’istituzione di brevetti e diritti di proprietà intellettuale ha contribuito a trasformare l’attività dell’ingegno in un affare, e naturalmente gli affari sono mossi dalla prospettiva del profitto. E’ lecito affermare che ci si è spinti troppo oltre. I brevetti servono a incoraggiare gli investimenti nella ricerca, ma quando scienza, cultura e arte sono dominate dalla ricerca del profitto, qualcosa va perduto.”
A questo si lega strettamente la questione della democrazia. Qui c’è una confusione di livelli. E’ banale dire che non si può sottoporre a referendum popolare la validità di una teoria scientifica. Basta leggere Kuhn per capire con quali meccanismi mutano i paradigmi scientifici e quali sono i criteri in base ai quali le controversie scientifiche sono risolte a favore dell’uno o dell’altro. Anch’io ho scritto a questo proposito qualche cosa.
Il problema della democrazia si pone tuttavia quando lo stesso sviluppo scientifico e tecnologico, accanto ai vantaggi derivanti dal soddisfacimento di bisogni complessi e sofisticati per coloro che possono accedere al mercato, produce anche svantaggi pesanti per masse crescenti di uomini e donne che ne sono esclusi, oltre che rischi imprevisti e crescenti insicurezze per tutti.
[Ulrich Beck e la società del rischio]
Nei problemi sociali che accompagnano questo vorticoso sviluppo si intrecciano infatti tassi di inquinamento e consulenze miliardarie, tecnologie sofisticate e quotazioni di borsa, posti di lavoro e cumuli di rifiuti, catastrofi ecologiche e guerre. Nella società che Ulrich Beck chiama “la società del rischio” sono mutate le cause e la portata del rischio.La differenza rispetto al passato, è che “il rischio prodotto è il risultato dell’intervento umano nelle circostanze della vita sociale e nella natura.”Alla soluzione di questi problemi debbono concorrere dunque tutti gli attori sociali coinvolti, attraverso garanzie istituzionali un pò più certe e trasparenti di quella che dovrebbe derivare dalla fiducia nella buona fede e nella competenza professionale dei ricercatori.
Ringrazio tutti dell’attenzione, e saluto Pino affettuosamente, Marcello Cini
68 From:
Corrado Del Bo’ <delbo@f…>
Date: Mon Feb 17, 2003 9:40pm
Subject: Conclusioni di Giuseppe Longo
Cari tutti,
a rischio di essere ridondante, vi ricordo che, dopo le ultime repliche di oggi, Giuseppe O. Longo traccera’ un bilancio conclusivo del seminario venerdi’ prossimo.
Buona settimana,
Corrado Del Bo’
69 From:
longo@u…
Date: Fri Feb 21, 2003 13:08 pm
Subject: Longo conclude 20 febbraio 2003
Cari amici
Questa non è una conclusione (e nemeno una pipa, nel senso di Magritte, beninteso).
Desidero esprimere il mio ringraziamento alla Fondazione Bassetti, in particolare a Piero Bassetti, a Giovanni Maria Borrello e a Corrado Del Bo’. Andrea Rossetti merita un riconoscimento particolare tra i commentatori e gli interlocutori, ma tutti i partecipanti hanno contribuito a quello che, più o meno all’unanimità, è stato ritenuto un seminario ben riuscito (e, per me, anche. una dimostrazioen delle potenzialità “autoriali” della rete).
Non voglio e non posso scrivere molto, con sollievo di tutti: vorrei solo indicare per punti quelli che sono stati, a mio parere, i punti più delicati della discussione, i temi che hanno ricevuto attenzione e che hanno fatto qualche progresso. Le mie saranno rozze semplificazioni, e chiedo scusa a chi si è sforzato di articolare con finezza il proprio pensiero.
Il rapporto tra scienza e tecnologia è di sicuro uno dei nodi più problematici: e la discussione ha messo in luce posizioni diverse (da una sostanziale inseparabilità delle due a una netta distinzione), che tuttavia, a una più attenta analisi, si sono dimostrate meno divergenti. Si tratta di un problema complesso, quindi non lo si può esaurire con una descrizione unica, soprattutto se si tende alla semplificazione.
Il tema della responsabilità (diciamo responsabilità della tecnoscienza, per evitare distinzioni difficili da precisare) è stato il tema centrale del seminario: qui molti hanno espresso l’esigenza di un controllo sociale, di tipo latamente “democratico”, dell’attività tecnoscientifica, pur restando problematici i modi, le forme e soprattutto l’efficacia di questo controllo. La democrazia si scontra con la diversità di competenze, preparazione, sensibilità… in definitiva con la diversità e l’unicità degli individui.
22 febbraio 2003
Il seminario è servito anche a mettere meglio a fuoco il concetto di democrazia, che si rivela sempre più problematico e che meriterebbe un approfondimento ulteriore.
Come andrebbe approfondito il problema del rapporto naturale-artificiale sollevato da Sylvie Coyaud nel suo quizzario, tema sul quale peraltro molto è stato scritto. La stessa Sylvie Coyaud (di spirito profetico dotata?) ha toccato un tema, quello della libertà d’insegnamento (Darwin e la Bibbia), che in questi giorni è venuto alla ribalta (con mia sorpresa, debbo dire, perché lo pensavo relegato in luoghi esotici) proprio a proposito del creazionismo…: “Se schiavi se lacrime ancora rinserra, è giovin la Terra” (è una citazione dalla poesia “Sopra una conchiglia fossile del mio studio” dell’abate Zanella: siamo, credo alla fine dell’Ottocento, guarda un po’…).
Ma, a prescindere dai temi trattati o toccati o sfiorati, il seminario mi ha dato una grande, confortante impressione di simpatia condivisa: ho avvertito una volontà collaborativa, uno sforzo intriso di umanità. Debbo ammettere che, anche, e forse soprattutto, in questo senso, sono stato molto arricchito dal contatto con i miei interlocutori: non mi sono mai sentito al centro di un cerchio, ma in bilico su un nodo di una rete intramata di aspirazioni, timori, ansie, incertezze. Dai partecipanti più giovani, ancora studenti, a quelli più vecchi, consumati navigatori nel mare della riflessione e del sapere, tutti hanno portato un contributo, un’incertezza, un’ipotesi, una proposta. Mi ha fatto bene, questo incontro.
Non è il caso che continui: levo metaforicamente il calice e brindo alla vostra salute, alla vostra vita.
Giuseppe O. Longo
70 From:
“Corrado Del Bo'” <delbo@f…>
Date: Fri Feb 21, 2003 7:07 pm
Subject: Si chiude (stavolta davvero)
Cari amici,
con le conclusioni di Giuseppe O. Longo, che dovreste aver ricevuto nel primo pomeriggio di oggi, si chiude ufficialmente il Forum avviato il 10 febbraio scorso. Durante il week end, provvedero’ anche a cancellare i vostri indirizzi email dalla lista.
Spero tuttavia che vogliate rimanere in contatto con la Fondazione Bassetti, e per questo vi rinvio al sito <http://www.fondazionebassetti.org>, dove troverete tutte le informazioni necessarie per essere aggiornati sulle nostre iniziative.
Vi ringrazio, a nome della Fondazione Bassetti, per aver partecipato al Forum e vi saluto cordialmente.
Corrado Del Bo’