Il 30 marzo 2023, per il quarto appuntamento del ciclo Longevità e Innovazione, abbiamo ospitato il seminario Curare l’invecchiamento? All’incontro, organizzato in partnership con Fondazione Ravasi Garzanti, ha collaborato l’Istituto Fondazione di Oncologia Molecolare (IFOM). Con la moderazione di Francesco Samorè, segretario generale di Fondazione Bassetti, e alla presenza del presidente Piero Bassetti, hanno partecipato: Elisabetta Donati, responsabile della Segreteria Scientifica di Fondazione Ravasi-Garzanti, il geriatra dell’Università Milano Bicocca Giuseppe Bellelli, i ricercatori IFOM Fabrizio d’Adda di Fagagna e Claudio Vernieri, e la bioeticista Virginia Sanchini.
In questa pagina trovate la registrazione video e i podcast dell’incontro, una sintesi e alcune fotografie.
Curare l’invecchiamento? Una domanda con mille quesiti
È una provocazione non casuale quella insita nella domanda che titola questo quarto incontro, domanda che, come sottolinea Samorè durante la sua introduzione: «Esprime il significato che ha, per Fondazione Bassetti, porsi il problema del rapporto tra longevità e innovazione. Un tema tutt’altro che semplice, anzi drammatico. Così come drammatici sono i temi che legano il processo di innovazione all’evoluzione della nostra società». Nessuno, d’altra parte, si sottrae all’interrogativo. Non lo fa il professore Giuseppe Bellelli, quando, dando inizio al suo intervento, dice: «Come se fosse possibile non farlo, in una società che sta invecchiando con una tale rapidità che sconvolge completamente tutti i paradigmi a cui abbiamo fatto finora riferimento». E non lo fa il ricercatore Fabrizio d’Adda, quando poco dopo ricorderà che, nonostante l’OMS abbia recentemente inserito nell’International Classification of Disease (ICD-11), l’indice utilizzato dalla comunità scientifica internazionale per diagnosticare e definire le malattie, un nuovo codice di estensione che descrive le condizioni legate all’invecchiamento: «L’invecchiamento non è ancora riconosciuto come una malattia dalle istituzioni ufficiali, tanto che la ricerca non può indirizzarsi esplicitamente su di esso, e se, per assurdo, trovasse un farmaco per la sua “cura”, il famoso elisir di lunga vita, non potrebbe sottoporlo alla FDA». La domanda originaria, quindi, non esaurisce la questione, anzi genera altre domande che guideranno la discussione, perché bisognerebbe chiedersi, innanzi tutto, che cosa è l’invecchiamento oggi, reale e percepito; quale senso devono avere le azioni e i tempi della “cura”; e se davvero l’invecchiamento è una malattia o, meglio, la causa delle malattie. Come ricorda Elisabetta Donati: «Siamo solo all’inizio del Decennio ONU dell’Invecchiamento in Buona Salute. Eppure, dal Giappone alla Svezia, sono molti i Paesi che stanno già mostrando l’incapacità, e le difficoltà, di reggere l’impatto di una società che invecchia». Fatti che impongono ulteriori domande a cui dare risposta. A cominciare dal chiedersi, come suggerisce sempre Donati, «Cosa curiamo quindi quando diciamo di voler curare l’invecchiamento, e quali investimenti produrranno i maggiori ritorni per il maggior numero di persone».
Leggere la complessità per migliorare l’approccio alla cura
La cifra del cambiamento in atto si ritrova nei numeri: «Oggi ci troviamo di fronte a persone gravemente malate, con mediamente quattro, cinque, sei patologie simultaneamente e che prendono fino a quindici farmaci per la coesistenza di problemi cognitivi, motori» dice Giuseppe Bellelli. «Hanno una moltitudine di problemi che non possono essere evidentemente gestiti con gli stessi canoni di trent’anni fa. Per rispondere a questa complessità, infatti, sarebbe indispensabile avere uni sguardo altrettanto complesso, leggere lo stato di salute nel suo insieme, mentre la nostra formazione accademica è spesso figlia di una parcellizzazione dei saperi, della convinzione che l’iper-specializzazione fosse la risposta ai problemi di salute. Eppure, una valutazione multidimensionale consentirebbe non solo di orientare meglio la prognosi, ma anche di interrogarsi sul senso e l’opportunità di fare alcuni accertamenti. Ragionare in termini di complessità cambierebbe così anche l’approccio della “cura”, un approccio orientato alla qualità della vita della persona». Così come cambierebbe l’approccio alla cura se si accogliesse il concetto di fragilità in tutte le sue sfumature e complessità. Lo spiega Virginia Sanchini nel suo intervento sulla vulnerabilità, un concetto molto più ampio di quello di fragilità che viene utilizzato in termini di medici. «La letteratura», dice Sanchini, «distingue due diversi livelli di vulnerabilità nell’anziano, la Basic Human Vulnerability, ovvero la vulnerabilità che caratterizza tutti in quanto esseri umani, e la Situational Vulnerability, ovvero la vulnerabilità accentuata da eventi o condizioni, anche sociali o economiche, contingenti. In tutto, sono sei tipi di vulnerabilità individuati, da quella fisica, patologica e non patologica, a quella psicologica, emotiva e cognitiva. Ma c’è anche la vulnerabilità relazionale ed esistenziale. Quindi, quando vogliamo dare risposta a questa ipotetica cura dell’anziano, dovremmo forse considerare la sua vulnerabilità in tutte le sue complesse dimensioni». Compreso la “nuova” vulnerabilità innestata dalle tecnologie emergenti, su cui Sanchini sta lavorando per la Statale di Milano, in collaborazione con Università Vita-Salute San Raffaele, per un progetto di ricerca dedicato allo studio delle tecnologie emergenti e delle loro potenzialità nella cura della popolazione anziana vulnerabile e finanziato da Fondazione Cariplo: Elder Tech.
Invecchiamento, dove sta andando la ricerca
Intanto, come conferma Fabrizio d’Adda di Fagagna, oggi l’invecchiamento costituisce uno dei campi di ricerca in più rapida espansione nelle scienze della vita, tanto che, il riflesso più o meno consapevole nella società, è che non si percepiamo più l’invecchiamento come qualcosa di inevitabile. «La svolta è avvenuta quando la comunità scientifica ha capito, sperimentando in laboratorio su diversi organismi, che l’invecchiamento aveva una base genetica, che si trattava di un processo cioè in cui erano presenti dei determinanti genetici definiti. E se un processo è controllato, immediatamente per la scienza diventa controllabile, il che significa che si ha la possibilità di modulare in maniera significativa la longevità». Chi avrà il tempo di seguire la versione integrale del video, vedrà che D’Adda di Fagagna, elenca e spiega i diversi filoni di ricerca che interessano l’invecchiamento, soprattutto nel campo delle biotecnologie: dagli approcci che tendono ad addomesticare l’infiammazione cronica o eliminare delle cellule senescenti, fino all’approccio perseguito nei laboratori di ricerca IFOM, che studia cellule con DNA danneggiato che attiverebbero un “allarme” causa dell’invecchiamento. L’approccio genetico è d’altra parte, quello su cui si stanno concentrando i maggiori investimenti, come dimostrano le ricerche sulla “riprogrammazione cellulare” degli Altos Labs generosamente finanziati da Jeff Bezos. Ed è questo, forse, l’aspetto che nella sede della Fondazione, suggerisce riflessioni sul tema della responsabilità nell’innovazione: «L’iniziativa degli Altos Labs» dice D’Adda di Fagagna «ha quasi sterilizzato il campo accademico dei ricercatori, ricercatori che, generosamente pagati da Bezos, ora riescono a fare ricerca scientifica supportati da mezzi prima non possibili, ma la fanno all’interno di una company e non è chiaro quanto questo approccio diventerà immediatamente fruibile a tutti».
Curare lo stile di vita. La via democratica della longevità
Anche l’accesso alle conquiste della ricerca scientifica, la democratizzazione dei suoi risultati, interessa quindi la possibilità di “curare l’invecchiamento”. In caso contrario, queste “conquiste” non faranno che alimentare un’idea di un invecchiamento di successo, il ‘successful aging’ menzionato da Bellelli inizialmente, che in vero apre la strada a una società ageista, ovvero dai forti pregiudizi ai danni di uomini e donne in ragione della loro età. Una società in cui anche i conflitti generazionali, invece di mitigarsi, si rafforzano. È Claudio Vernieri a indicare, nel suo intervento, una possibile strada verso una società in cui si ha una qualità della vita sostenibile per il maggior numero di persone a costi sostenibili. «Ormai è accertato che la restrizione calorica contribuisce a prevenire non solo alcuni tipi di tumore, ma anche tutta una serie di patologie croniche tipicamente associate all’invecchiamento, come patologie cardiovascolari e cerebrovascolari. Ma aumentare il tempo di vita in salute è un vantaggio sia dal punto di vista medico che sociale. Banalmente, una persona che vive senza patologie ha un costo inferiore per il sistema sanitario, ed è più attiva anche in ambito lavorativo. L’assunzione di stili di vita sani accessibili va quindi a beneficio del singolo e della società tutta, senza contare che lo fa in modo più efficace ed economico dei farmaci. Un aiuto non solo per chi sta invecchiando, ma anche per le nuove generazioni che con il loro lavoro devono continuare a sostenere l’invecchiamento della società stessa».
Una società di vecchi. Quale valore?
Una società di vecchi o una società vecchia è un dilemma ripetuto spesso dal presidente Piero Bassetti. Durante il suo intervento Sanchini sottolinea più volte l’aspetto bifronte della stessa vulnerabilità, che ha un accento negativo, escludente, ma anche una ricchezza esistenziale che è portatrice di valore e di senso all’interno della società. Di invecchiamento, e del suo valore, se ne occupano i sistemi sanitari e quelli delle relazioni umane (le tecnologie sociali di cui parla Felice Scalvini a conclusione del seminario), ma anche la politica e quindi il potere. In che modo il problema dell’invecchiamento le condizionerà, come il potere lo gestirà, e il tipo di risposte che ne verranno, è una delle sfide contemporanee da affrontare rispondendo a un’altra sfida ancora evocata da Bassetti: unire i Saperi.
Le slide utilizzate da Virginia Sanchini per il suo intervento sono reperibili nel nostro account in Slideshare.
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