Costantemente connessi, guidati dalle tecnologie satellitari, tracciati da sistemi di registrazione che finiscono per conoscerci quasi più di noi stessi. Da una parte, godiamo di opportunità prima impensabili; dall’altra, ci scopriamo controllati, se non intrappolati: la Rete, appunto, non più rappresentazione di infinite connessioni, ma, ben più letteralmente, strumento di costrizione. La domanda è: siamo più o meno liberi? È questo il cuore della riflessione da cui è nata l’esperienza di Digidig – Questioning the Algorithm Society, community di discussione che si interroga sulle trasformazioni prodotte dalla “società dell’algoritmo”, evidenziandone le potenzialità, ma anche mettendo in guardia rispetto ai possibili rischi. L’obiettivo, nelle parole dei fondatori, “è riuscire a rendere più trasparente e condivisibile la straordinaria opportunità che ci offre la Rete, ma che viene deviata e distorta dal potere opaco di pochi grandi gruppi tecnologici che stanno dominando il mondo digitale”.
Piattaforma della discussione è il sito, ricco di news e segnalazioni riprese dalla stampa internazionale e di contributi alla discussione offerti da un vasto gruppo di lavoro che comprende molteplici professionalità – esperti di comunicazione, informatici, accademici, giornalisti – e, soprattutto, diversi punti di vista. È dal loro confronto che si rende evidente la complessità del tema e delle sue implicazioni: come funzionano i sistemi di raccolta dati? Qual è il destino di ciò che facciamo transitare sui social o dalle nostre caselle email? Come controllare le informazioni che circolano in rete? Cosa ci aspetta in un mondo dominato dall’intelligenza artificiale?
Il dibattito della community si sviluppa attorno ad un vero e proprio Manifesto dal titolo “L’algoritmo come tecnologia della libertà?“, che è possibile sottoscrivere dal sito.
Il documento parte dalla considerazione che “così come nella fase storica precedente, l’asimmetria nell’accesso e nell’organizzazione delle informazioni determinava uno squilibrio di poteri e di ricchezze, oggi la differenza nella capacità di riconoscere, modificare e integrare i sistemi intelligenti che formattano la nostra vita áltera, ma in proporzione infinitamente superiore, le condizioni di competizione economica e sociale”. Perché questa trasformazione non sia monopolizzata, senza alcuna possibilità di controllo, da pochi grandi gruppi, “non crediamo accettabile che questo processo si realizzi senza trasparenza, informazione e partecipazione ai suoi dispositivi di funzionamento”.
Scopo del Manifesto è allora proprio sollecitare imprese, associazioni, professioni e istituzioni a rendersi pienamente consapevoli dell’impatto che i nuovi soggetti digitali avranno sulla vita delle persone e ad agire per ridurre le distorsioni che ciò produrrà sui meccanismi economici, formativi e relazionali. Un richiamo, in altre parole, alla responsabilità in un ambito di innovazione potenzialmente dirompente, e dunque un campo di interesse cruciale anche per Fondazione Giannino Bassetti, che della responsabilità dell’innovazione fa da più di 20 anni il cuore della propria mission.
Più volte ci siamo occupati dei rischi connessi alla raccolta e alla diffusione dei dati, in particolare nel delicato ambito sanitario, o ci siamo interrogati rispetto all’uso di tecnologie capaci di “misurare” ogni momento della nostra vita. Oggi, però, il tema sembra assumere forme inedite: ad aprire nuove strade (e nuovi rischi) non è più solo l’uso di strumenti innovativi, ma il nuovo ruolo cui possono aspirare – e forse sempre più consapevolmente aspirano – coloro che li detengono. La pubblicazione del “manifesto” di Mark Zuckerberg, le frequenti esternazioni politiche del guru di Amazon Jeff Bezos (proprietario anche del The Washington Post), il ruolo di Google nella raccolta di dati utili ai governi, lasciano infatti intravedere una nuova concentrazione di potere che non ha pari nella storia e la possibilità che tale potere possa esercitarsi al di fuori di qualsiasi vincolo. Per questo, recita il Manifesto di DigiDig, “se davvero, come affermano i loro creatori, dirigenti e proprietari, questi grandi gruppi sono ‘uno spazio pubblico’ – e noi crediamo che sia così – riteniamo che anche i loro meccanismi che producono linguaggi, strutturazioni sociali e influenze determinanti sulle scelte individuali, debbano essere intellegibili, condivisi, socialmente negoziabili ed integrabili”.
Di questo abbiamo discusso mercoledì 8 marzo presso la sede di Fondazione Giannino Bassetti, incontrando i fondatori – Michele Mezza e Toni Muzi Falconi – e alcuni degli autori che animano la community di DigiDig. L’incontro è stata l’occasione per conoscersi, scambiare informazioni e opinioni ragionate e valutare possibili collaborazioni future.
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