Ilaria Capua è una delle menti più brillanti della virologia mondiale. Autrice di oltre 300 pubblicazioni scientifiche, dirige il Dipartimento di scienze biomediche comparate all’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (Legnaro, Padova), ed è stata in passato al centro di una dura controversia che ha determinato un profondo cambiamento nel modo in cui informazioni sui virus circolanti in natura, e potenzialmente pericolosi per l’uomo, sono gestite a livello internazionale. Prima delle due decise prese di posizione, infatti, i risultati di molti studi erano mantenuti segreti o fatti circolare solo all’interno di un gruppo ristretto di scienziati. Oggi sono diffusi su database ad accesso libero e consultabili dai laboratori di tutto il mondo. Per questi motivi, è di particolare rilievo il parere di Ilaria Capua sulla vicenda recente che ha contrapposto il National Science Advisory Board for Biosecurity (NSABB) a due gruppi di scienziati, uno olandese e uno americano, che hanno ottenuto in laboratorio varianti del virus dell’influenza aviaria (H5N1) capaci di trasmettersi da uomo a uomo, e potenzialmente in grado di scatenare una pandemia ad elevato tasso di mortalità.
Il 20 dicembre 2011, il NSABB ha emanato una raccomandazione nella quale invita i ricercatori e le riviste che dovrebbero pubblicare gli studi (Nature e Science) a non divulgare la parte metodologica delle ricerche, in quanto questa potrebbe permettere di replicare l’esperimento per ottenere armi biologiche. La decisione ha scatenato una discussione molto animata, fuori e dentro la comunità scientifica: c’è chi, anche fra i ricercatori, sostiene che gli esperimenti vadano interrotti e i virus distrutti; e chi, all’estremo opposto, ritiene che questi risultati debbano essere divulgati nella loro interezza, in quanto utili ad affrontare un’eventuale pandemia che si generasse spontaneamente dai virus già diffusi negli allevamenti.
Come giudica la decisione del NSABB?
C’è un problema di ruoli. Gli Stati Uniti hanno una sensibilità e un atteggiamento nei confronti della sicurezza nazionale e del bioterrorismo ben diversi da quelli degli europei. Hanno una serie di istituzioni che vigilano su questi aspetti e non si può pretendere che queste organizzazioni non si esprimano. È difficile per me dare un giudizio ora, perché non sappiamo ancora esattamente che cosa hanno in mano i due gruppi di ricerca coinvolti nella vicenda. Non possiamo però sorvolare sul fatto che il rischio del bioterrorismo esiste e se i due studi fossero presentati in tutti i loro dettagli potrebbero essere riprodotti. Accanto alla deliberata volontà di produrre armi biologiche vanno poi considerati altri aspetti. Per esempio, errori o incidenti potrebbero determinare fughe accidentali di questi virus dai laboratori. La vicenda di Fukushima ci insegna che gli eventi naturali e la stupidità umana possono essere un mix micidiale. In questo caso, se si decidesse di dare la ricetta per produrre questi virus a 100, 200, 500 laboratori ci si assumerebbe un rischio enorme. La posizione del NSABB è quindi condivisibile.
C’è però chi sostiene che queste ricerche siano necessarie per conoscere meglio la biologia dei virus e prevenire un’eventuale pandemia che si generasse in natura.
Queste ricerche hanno dimostrato che il virus dell’aviaria ha il potenziale di diventare pandemico. Se mai lo diventerà non possiamo dirlo. Ritengo che a questo punto gli studi si possano anche fermare. Sono altre le cose che contano a questo livello e il problema andrebbe analizzato da un punto di vista più ampio. Questa è un’arma di distruzione di massa. Dobbiamo chiederci se è ragionevole autorizzare ricerche per fare altre armi di distruzione di massa. Il problema è della società. Entrambi gli studi sono stati finanziati dagli NIH; si vuole che i fondi pubblici siano investiti per produrre armi di distruzione di massa? Questa è la domanda. Che poi nella produzione di questa arma di distruzione di massa ci siano anche dei meccanismi che a noi virologi interessano è vero. Ma bisogna fare un rapporto fra costi e benefici delle ricerche che si finanziano. Oltre a generare dati e a soddisfare le curiosità degli scienziati, la ricerca che si finanzia deve produrre risultati utili e che non siano dannosi. Va valutato se il danno che si potrebbe generare per incidenti, per stupidità o per un deliberato uso distorto dei risultati non sia superiore ai benefici. E va tenuto anche conto del fatto che la tecnologia evolve: oggi in biologia si possono fare in tre ore cose che venti anni fa avrebbero richiesto un decennio. Bisogna prendere una decisione mettendo ciò che si fa oggi anche nella prospettiva di domani.
Le due riviste e gli scienziati direttamente interessati alla vicenda hanno accettato di seguire la raccomandazione del NSABB, a patto però che si individui un metodo che permetta di condividere le informazioni con scienziati “responsabili” per i quali questi dati potrebbero essere cruciali. Secondo lei è attuabile?
È impossibile controllare il flusso delle informazioni una volta che queste sono date. È difficile trovare strategie che permettano di far sì che chi entra in possesso di queste informazioni alla fine non le divulghi. Il mondo è fatto di tanta gente diversa. L’Asia, per esempio, è attualmente la potenza emergente scientifica più importante, e lì sono molto spregiudicati. Non si può fare affidamento sulla coscienza del ricercatore.
Chi potrebbe imporre un eventuale divieto a condurre ricerche di questo tipo?
L’Organizzazione mondiale della sanità si muove lentamente e non è abbastanza forte. Potrebbe esserci una consensus conference delle Nazioni Unite. Bisognerebbe dire che certi esperimenti sono proibiti e ogni università o centro di ricerca dovrebbe assumersi la responsabilità di non consentirli. Ai ricercatori che trasgrediscono potrebbero essere tolti i finanziamenti. Certo, un regolamento internazionale non impedirà che alcuni gruppi continueranno a fare ciò che vogliono, ma per lo meno i rischi sarebbero ridotti.
In una lettera pubblicata da Science e da Nature, i 39 principali scienziati al mondo che si occupano di H5N1, fra i quali lei stessa, hanno annunciato una sospensione volontaria di 60 giorni degli studi, in attesa che i governi individuino soluzioni. Come è nata questa lettera?
Mi è arrivata una mail da Kawaoka (l’autore principale di uno dei due studi contestati. Ndr) che mi chiedeva di firmare la moratoria per il timore che ai ricercatori fosse imposto di bloccare gli esperimenti. È stata una forma di rispetto nei confronti delle autorità, ma è un’iniziativa simbolica. Uno stop di 60 giorni non ha molto senso, tanto più che chi ha oggi già avviato esperimenti sui mammiferi non può certo interromperli all’improvviso (dovrebbe uccidere tutti gli animali che sta utilizzando). È poco probabile, poi, che due mesi siano sufficienti a individuare un metodo che permetta di risolvere questioni di questo tipo. Non ci sono state altre iniziative importanti della comunità scientifica. Si è parlato di un incontro che dovrebbe tenersi a breve nella sede dell’Oms di Ginevra, ma poi non ne ho più saputo niente.
La ricerca nel suo campo è giunta a un bivio: i risultati che produce possono essere usati sia per scopi benefici sia per nuocere all’umanità. Esistono due precedenti illustri: il primo è la situazione di fronte alla quale si trovarono i fisici all’inizio degli anni ’40, con le ricerche che portarono alla costruzione della bomba atomica. Il secondo riguarda invece i biologi, che nel 1975 si auto imposero una moratoria sulle ricerche che utilizzavano la tecnologia del Dna ricombinante, in attesa di linee guida che poi effettivamente emersero nella conferenza di Asilomar. Che cosa ne pensa? Ci troviamo effettivamente a un bivio di questo tipo?
Sì, siamo a un bivio simile.
C’è consapevolezza di questo fra i ricercatori?
Non lo so. Alcuni gruppi sono estremamente competitivi e per la gloria farebbero qualunque cosa. Anche per questo è urgente che si stabiliscano delle regole.
È significativo il fatto che queste posizioni vengano da lei, che in passato si è battuta perché i dati sui virus fossero pubblici.
Si trattava di virus circolanti in natura, che potevano effettivamente evolversi e diventare pericolosi, e non di virus creati in laboratorio. Noi lavoriamo per paragone: confrontando le sequenze genetiche dei virus che isoliamo con quelle già note riusciamo a capirne l’evoluzione e questo è un dato essenziale per determinare la pericolosità di un agente infettivo. Fino al 2006 però era molto difficile portare avanti queste ricerche, perché gli scienziati non diffondevano le sequenze che decifravano. Questa “segretezza” era in parte dovuta alla competitività dei gruppi, sempre desiderosi di pubblicare prima degli altri, e in parte al fatto che le sequenze potevano essere brevettate e vendute (e c’è chi ha guadagnato moltissimo così). In quel periodo, nel mio laboratorio fu isolato il primo virus africano di H5N1. Mi resi subito conto che l’arrivo di questo virus in un continente già provato dalla malnutrizione, dalla povertà e dall’epidemia dell’Aids poteva determinare una catastrofe. L’Oms tuttavia mi invitò a mettere la sequenza che avevo decodificato in un database riservato, al quale avevano accesso solo 15 “selezionatissimi” laboratori. In cambio, mi sarebbe stato dato un account per poter accedere a mia volta alle informazioni del database. C’era una profonda contraddizione fra questa richiesta e l’allarme generale che proprio in quel periodo veniva dato per una possibile diffusione della malattia anche nell’uomo: la riservatezza dei dati infatti avrebbe enormemente rallentato gli studi, proprio in un periodo in cui si erano resi disponibili molti finanziamenti per studiare il virus dell’influenza aviaria. Così rifiutai. Non mi sembrava giusto. Misi la mia sequenza nel database pubblico GenBank e nella prima settimana fu scaricata 1.000 volte, a dimostrazione del fatto che molti laboratori avevano la necessità di conoscerla. È partito allora un dibattito sulla trasparenza dei dati che ha portato l’Oms, la Fao e l’Organizzazione mondiale della sanità animale a rivedere la loro politica e a diffondere delle raccomandazioni che vanno nel senso opposto rispetto alla politica precedente. A maggio dello scorso anno, l’Oms ha approvato una risoluzione in cui riconosce l’importanza della trasparenza dei dati e ne promuove la condivisione. In realtà anche oggi non tutti lo fanno, ma certo c’è stato un cambiamento culturale importante.
Fu una posizione di rottura, lei era stata invitata a entrare nel “club”. Non tutti avrebbero agito così.
Si, ma alla fine io non stavo bene. Non mi sarei sentita a posto con me stessa e nei confronti di chi lavora con me. Ci sono certe cose che uno non si sente di fare. Credevo e credo che tenere riservata la sequenza fosse sbagliato e non l’ho fatto. Non mi rendevo conto del vespaio che avrei sollevato e delle resistenze che avrei incontrato. Mi sembrava una cosa logica. Ciò che importa però è che adesso siamo in una dimensione diversa rispetto al 2006. Esistono molti database ad accesso libero. L’importante è essere riuscita a cambiare un meccanismo.
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Foto di: Paola Fiorini