Un gruppo di virologi olandesi diretto da Ron Fouchier, dell’Erasmus Medical Centre di Rotterdam, ha ottenuto in laboratorio una variante del virus dell’influenza aviaria (H5N1), in grado di trasmettersi efficacemente da uomo a uomo. Il mutante potrebbe causare una pandemia ad elevato tasso di letalità, dato che il virus naturale, che è diffuso fra i volatili e occasionalmente si è trasmesso dall’animale all’uomo, ha ucciso finora circa la metà delle persone che ha contagiato. La domanda che scuote il mondo della scienza è dunque: questi risultati devono essere pubblicati? A favore del sì c’è il fatto che la divulgazione dello studio potrebbe permettere ai laboratori di ricerca di affilare le armi contro un’eventuale pandemia, originatasi però spontaneamente a partire dal virus in circolazione. Ma in nome di un’azione preventiva di questo tipo, vale la pena correre il rischio che il metodo utilizzato da Ron Fouchier sia replicato con intenzioni malevole, magari per ottenere un’arma biologica?
La notizia del lavoro olandese è iniziata a circolare fra i virologi già a settembre, quando, stando a quanto riportato da New Scientist e da Scientific American, Fouchier ha presentato i suoi risultati a un congresso di virologia tenutosi a Malta. Più di recente, però, il caso è tornato a far parlare perché l’iter per la pubblicazione dello studio su una rivista specializzata si è fermato, e l’articolo che descrive nei dettagli l’esperimento è stato sottoposto allo US National Science Advisory Board for Biosecurity (NSABB), comitato federale sulla sicurezza biologica, che dovrà pronunciarsi sul da farsi. Il dibattito che si sta sviluppando in attesa della decisione è legato a quello sulla biosicurezza, affrontato in passato da questo sito.
Il caso di Fouchier non è né unico né raro. Come si apprende da ScienceInsider, blog della rivista Science, lo NSABB sta attualmente esaminando anche un altro studio del tutto analogo, condotto dal gruppo di Yoshihiro Kawaoka, dell’Università del Wisconsin. Mentre un servizio della National Public Radio (NPR) statunitense ha reso noto che la rivista Journal of Virology pubblica proprio questo mese una ricerca che presenta problematiche analoghe («dopo un’attenta valutazione dei rischi e dei benefici» ha spiegato il suo direttore Lynn Enquist). Obiezioni simili, poi, sono state sollevate anche per un altro studio, sempre sul virus dell’aviaria, condotto stavolta dai Centers for Disease Control and Prevention statunitensi.
Il motivo che sta alla base della frequenza di questi episodi è chiaro alla luce di quanto Ilaria Capua, virologa dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie di Legnaro, ha dichiarato a Radio3Scienza il 1 dicembre. «Questo non è né il primo né l’ultimo virus che si modifica in questo modo. Per capire determinati meccanismi bisogna lavorare sui patogeni e indurre determinate mutazioni». In buona sostanza, dunque, per comprendere la biologia del virus dell’aviaria occorre indurre mutazioni in laboratorio. Più avanti, Capua sottolinea anzi che l’esperimento olandese ha permesso di stabilire che l’influenza aviaria è tuttora una minaccia, perché appena cinque mutazioni separano il virus attualmente in circolazione da quello capace di trasmettersi efficacemente da uomo a uomo. Prima dello studio di Fouchier, in molti sostenevano che l’evoluzione di H5N1 fosse invece giunta a un punto morto, e che mai il virus sarebbe stano in grado di assumere una forma tale da destare preoccupazione per l’umanità. La ricerca invita quindi a non abbassare la guardia, a continuare a sorvegliare l’agente infettivo e a cercare rimedi capaci di ostacolarne la diffusione.
Ma se l’utilità pratica dello studio appare ora più chiara, resta il dubbio sull’opportunità di divulgarlo con i metodi tradizionali della ricerca scientifica, basati sulla condivisione completa dei dati, volta a permettere ad altri laboratori di ripetere gli esperimenti per confermare, o smentire, i risultati. Se infatti questo modo di procedere garantisce il progresso della scienza, dovrebbe tuttavia coniugarsi con una “responsabilità della conoscenza” che imponga di considerare con attenzione le conseguenze reali della divulgazione dei dati. Intervistato dalla National Public Radio, l’esperto di biosicurezza Thomas Inglesby, dell’Università di Pittsburgh, ammette che la cultura della condivisione propria della scienza funziona bene il 99,99 per cento delle volte, «ma esistono casi per cui vale la pena fare un’eccezione a questo fondamentale principio scientifico». La maggior parte degli esperti di biosicurezza la pensa come lui, e molti di loro ritengono che una soluzione possa essere quella di porre delle limitazioni sulla diffusione dei risultati. Per Michael Osterholm, direttore del Center for Infectious disease Research and Policy del’Università del Minnesota e membro del NSABB, si potrebbe consentire una pubblicazione parziale del lavoro, che escluda la parte in cui si spiega come è stato ottenuto il virus letale. I dettagli metodologici potrebbero essere comunicati a specifici gruppi che ne facciano richiesta, documentando l’effettivo uso che faranno del metodo e gli scopi del loro studio. In una controversia che sembra contrapporre il mondo dei ricercatori a quello delle autorità preposte alla sicurezza, si scopre poi che da parte scientifica molte voci sono in realtà in favore di un controllo più attento su quanto accade nei laboratori, come pure sulla pubblicazione di informazioni potenzialmente pericolose.
Sul Corriere della Sera, il genetista Luca Cavalli Sforza afferma: «Mi sembra una vera follia. Prima di diffondere lo studio dovrebbe almeno dimostrare come si possa neutralizzare il micidiale virus». A favore di una pubblicazione privata della parte che descrive il metodo usato è invece Ilaria Capua, che pure in passato si è battuta per la trasparenza dei dati riguardanti i virus isolati in natura (ma non quelli creati in laboratorio), al fine di accelerare le ricerche volte a individuare farmaci e vaccini ed evitare che solo pochi gruppi, con interessi economici specifici, abbiano accesso alle informazioni.
Non mancano tuttavia le posizioni più drastiche, come quella di Mark Wheelis dell’Università della California, secondo cui anche il blocco completo della pubblicazione dello studio potrebbe non essere sufficiente. «Fermare la pubblicazione porterebbe un beneficio davvero molto modesto rispetto a quello che si otterrebbe impedendo a priori ricerche di questo tipo».
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(foto: avian flu virus sem di uafcde da Flickr)