La tematica della Responsabilità nell’innovazione è decisamente trasversale. I contributi che pubblichiamo spesso danno per scontato che il lettore abbia già una infarinatura sul campo dello scibile del quale si parla, e infatti spesso si tratta di approfondimenti.
Eppure in molti casi ci accorgiamo sarebbe utile avere una panoramica delle dinamiche che precedono la riflessione che portiamo.
Così questo è il primo articolo di una serie che Virginia Sanchini, studiosa di etica teorica, etica pratica e filosofia morale, ci propone per fare il punto su alcuni temi legati tutti alla bioetica. Temi che si confermano delicati, spinosi, pieni di contraddittori, dalle molteplici sfaccettature. La Sanchini compie, appunto, una panoramica e ci conduce ai contributi che già sono presenti nel sito, dando così uno strumento per avvicinarci alla comprensione e alla contestualizzazione, aiutando, speriamo, il lettore a farsi una idea propria.
La clonazione. Percorsi e frontiere.
di Virginia Sanchini
La clonazione è letteralmente la copia di uno o più esseri viventi a partire da un individuo detto originale. La copia viene effettuata a livello di DNA (il codice genetico che ha ogni essere vivente), e da esso viene costruito il clone (dal greco Klon, germoglio), cioè l’embrione che viene impiantato in un utero ospite. La clonazione può anche essere riferita alla riproduzione asessuata di alcuni organismi viventi (batteri, alghe unicellulari, protozoi), solo che questa è naturale, mentre la suddetta è artificiale, è cioè l’uomo che produce la vita a partire da individui già adulti. La clonazione è quindi figlia della fecondazione artificiale e delle tante possibilità che con essa si sono aperte, collocandosi dunque nella classe delle tecniche di riproduzione asessuata. Proprio perché interviene ai primissimi stadi dell’esistenza, con la clonazione, più che con altre problematiche di carattere bioetico, si pone la questione del perché non sia lecito fare tutto ciò che è tecnicamente possibile compiere, domanda che chiede di non porre limiti ingiustificati alla ricerca scientifica e all’uso delle applicazioni tecnologiche che ne derivano, ma che d’altra parte pretende che sia la prima che le seconde siano procedano con responsabilità. Nell’articolo “Cloni senza frontiere“, Alberto Oliverio solleva l’importante questione secondo la quale compito della scienza non è soltanto quello di fornire all’uomo le tecnologie, ma soprattutto quello di decidere razionalmente se servirsene o no, come dire che è l’uomo a doversi servire della tecnologia, non la tecnologia dell’uomo. Oliverio ricorda che tecniche come l’ingegneria genetica, l’intelligenza artificiale e non ultima la clonazione hanno come implicito il tentativo proprio dell’uomo primordiale di modificare la natura (umana e non), antico sogno dell’uomo che se certo apre il campo a incredibili opportunità prima neanche ipotizzabili, è però d’altra parte fonte di angosciose incertezze: “con l’avvento delle tecnologie legate alla riproduzione, la nostra concezione dell’essere umano è diventata più aderente alla sua realtà biologica […]. Questo indubbio passo avanti, rendendo sempre più labile il confine tra mondo naturale e mondo artificiale, rischia di promuovere una concezione meccanicistica dell’uomo, visto come essere fatto di parti che si possono togliere e sostituire a piacimento”. Uno dei campi dove questa “angosciosa incertezza” è fortemente presente è proprio la clonazione.
Due sono le forme di clonazione: la clonazione per scissione (detta anche tecnica della ‘fissione gemellare’ o ‘embryo splitting’) consistente nell’induzione artificiale della gemellarità all’interno del contesto di procedure quali la fecondazione in vitro e la clonazione per trapianto nucleare (detta anche di ‘nucleo transfer’) consistente invece nell'”inserimento del nucleo di una cellula dell’individuo da clonare in una cellula uovo non fecondata, dopo aver eliminato o reso inattivo il nucleo esistente (Emilia D’Antuono, Bioetica, Guida, Napoli 2003, p. 70)”, meccanismo che dà luogo ad un nuovo individuo il cui genotipo è identico a quello rispetto al quale viene prelevata la cellula somatica.
La trattazione della clonazione necessita considerazioni mediche, giuridiche e naturalmente etiche.
Dal punto di vista strettamente medico occorre osservare che due sono le motivazioni che accompagnerebbero la necessità della clonazione: una necessità eminentemente terapeutica e una invece che potremmo definire riproduttiva. La clonazione terapeutica non comporta la creazione di un intero individuo, ma mira a prelevare dall’embrione, prodotto attraverso procedure di fecondazione in vitro, cellule staminali pluripotenti geneticamente identiche a quelle della cellula che ha fornito il nucleo, le quali possono a loro volta essere coltivate in vitro e trapiantate senza rischio di rigetto nel paziente. La clonazione riproduttiva implica invece che l’embrione, formato attraverso la tecnica del nucleo transfer prima considerata, sia introdotto nell’utero della donna, cosa da cui conseguirà lo sviluppo di un nuovo individuo geneticamente identico a quello da cui è stata prelevata la cellula somatica.
La clonazione riproduttiva, che per ora ha avuto attuazione solo nell’animale come ricorda il famoso caso della pecora Dolly, prevede i seguenti passaggi: ogni cellula è composta da una parete cellulare ed una membrana cellulare, che contengono il citoplasma e il nucleo. Quest’ultimo conserva il DNA, ovvero l’acido De(s)ossiribonucleico, che si può definire la nostra carta d’identità naturale, infatti, è depositario di tutte le informazioni genetiche del nostro corpo (il colore degli occhi, dei capelli, della pelle, la nostra altezza, la forma del nostro naso,…). Per produrre un clone bisogna quindi fotocopiare il DNA di un individuo, ma come? Il metodo usato dagli scienziati per clonare i famosi animali (le rane del 1952, la pecora Dolly del 1997, le due scimmie e il vitello del 1998, i cinque porcellini del 2000, etc.) è abbastanza semplice da spiegare: si preleva una cellula dall’organismo che si vuole clonare come un uomo, un animale, una pianta, la si enuclea, cioè la si priva di nucleo, si preleva una cellula uovo da una femmina della stessa specie dell’originale, si immette il DNA della cellula donatrice, con l’aiuto di potentissimi microscopi e di finissimi capillari vitrei, nell’ovulo, che comincia così a dividersi e a formare l’embrione come in una normale riproduzione. L’uomo è quindi in grado di produrre una nuova vita a partire da una già adulta. La sensazionale scoperta conseguita alla clonazione, però, è un’altra: il nucleo di una cellula adulta, quindi attivo già da parecchi anni, inserito in una cellula uovo, si comporta come se fosse appena nato, cioè ringiovanisce. Successivamente si sottopone la cellula uovo a scariche elettriche che simulino gli stimoli normalmente formati dagli spermatozoi. Un esempio di come la clonazione riproduttiva avvenga già sugli animali non umani è dato dall’intervista a Giovanna Lazzari e Cesare Galli che nel 1991 hanno fondato a Cremona il Laboratorio di Tecnologie della Riproduzione (LTR), che fornisce prodotti e servizi nel campo della riproduzione animale. L’attività di LTR è finalizzata ad offrire servizi di riproduzione assistita agli allevatori e allo sviluppo di ricerche sia di base che applicata, che spaziano dai gameti ed embrioni fino alle cellule staminali e la modificazione genetica negli animali d’allevamento: “il nostro core business è la manipolazione dei gameti e degli embrioni degli animali da allevamento […] e con quello si costruisce la clonazione, perché si usano i gameti e gli ovociti”.
Lasciando per un attimo da parte la clonazione riproduttiva e le sue criticità, occorre comprendere il grande ruolo che la clonazione terapeutica ha nel ricavare cellule staminali, essenziali a numerosi fini terapeutici. Le cellule staminali sono cellule immature, non specializzate e potenzialmente in grado di dare origine ad un tipo di tessuto – unipotenti – di dar origine ad alcuni tipi di tessuti – multipotenti – o a qualsiasi tipo di tessuto – totipotenti. Le cellule staminali, nel corso della duplicazioni possono certo differenziarsi sino a diventare cellule mature di un particolare tessuto, ma sono anche capaci di dar vita ad altre cellule staminali. In particolare, se estratte da un embrione umano possono essere isolate, coltivate in laboratorio e indotte a differenziarsi. Se consideriamo la differenziazione prima mostrata tra cellule unipotenti, multipotenti e totipotenti, occorre osservare che le cellule staminali tratte derivate dall’adulto (in questo caso il feto ma anche il cordone ombelicale) hanno una versatilità limitata, ossia sono multipotenti, perché non in grado di riprodursi in modo illimitato e in quantità illimitata, mentre le cellule dell’embrione precoce sono totipotenti ossia in grado di svilupparsi in tutte le linee cellulari necessarie a sviluppare l’embrione e dunque un nuovo individuo. Ora: perché le cellule staminali sono così essenziali a fini terapeutici? La risposta sta nel fatto che attraverso l’utilizzo di esse si ipotizza che nel futuro sarà possibile creare interi organi in grado di sostituire gli organi lesionati, nonché sembra possibile, questa volta a breve termine, trapiantare una quantità di cellule non lesionate che acceleri i meccanismi fisiologici di riparazione dei tessuti o di organi danneggiati da traumi e malattie. Lo scopo che ci si pone, dal punto di vista medico, è cioè quello, nel lungo termine, di riprogrammare cellule mature di un individuo adulto, riportandole allo stadio di indifferenziazione e quindi differenziandole nuovamente in cellule di un tipo specifico di tessuto diverso da quello di cui facevano parte. Nell’articolo del 5 Agosto 2001 “ora la sfida dei padri di Dolly è la cellula della giovinezza” (inserito nel percorso sulla Commissione Dulbecco) veniva annunciato da alcuni ricercatori della Ppl Therapeutics di Edimburgo il fatto di essere riusciti a invertire il processo di invecchiamento delle cellule attraverso la loro riprogrammazione: “la procedura consiste nel prendere una cellula di pelle umana e, trattandola con citoplasmi di ovuli e sostanze chimiche, farla tornare allo stato primitivo di cellula staminale. In esperimenti condotti su animali, gli scienziati scozzesi sono riusciti a trasformare la cellula della pelle in cellula staminale simile a quella di un embrione di sette giorni. Una cellula fondamentale quindi, ai fine della ricerca, ma che essendo prelevata da tessuto adulto, permette di superare le barriere etiche connesse alla sperimentazione sugli embrioni”. Questo permetterebbe di ricavare cellule staminali autologhe direttamente dalle cellule ad esempio epiteliali dell’individuo stesso, senza cadere in un rischio di rigetto e senza dover passare per forza attraverso l’embrione. Il problema di questa procedura è che, se sperimentata sull’animale, sull’uomo essa rimane ancora un miraggio: agli stati attuali, il progresso biomedico non risulta ancora in grado di ricavare cellule staminali se non attraverso l’embrione, perché le cellule embrionali sono, almeno per ora, le uniche disponibili in stato di pluripotenza. É evidente quindi l’uso essenziale che la clonazione terapeutica ha per la creazione di cellule staminali in grado di ovviare a gravi malattie genetiche.
Dal punto di vista giuridico è evidente che molte di più sono state le restrizioni mosse alla pratica della clonazione riproduttiva che a quella della clonazione terapeutica. In particolare la procedura della clonazione riproduttiva è vietata dall’art.1 del protocollo addizionale della Convenzione dei diritti umani e la biomedicina del Consiglio d’Europa, dalla legge italiana 40/2004 sulla Procreazione medicalmente assistita e dalle leggi di quasi tutti i paesi del mondo, nonostante in Italia, e sollevando non poche polemiche, Antinori, una volta che Sirchia aveva dato il via alla clonazione sull’animale, avesse rilanciato “fra tre mesi provo con l’uomo” (a tal proposito si veda l’articolo apparso su Repubblica il 26 Ottobre 2001 “Sirchia: sì alla clonazione animale” citato nel percorso sulla clonazione umana sviluppato in questo sito tra il 2001 e il 2002). In realtà numerose sono le restrizioni giuridiche anche per quanto concerne la sola clonazione terapeutica, e questo soprattutto in Italia. In particolare, nell’articolo 18 della Convenzione dei diritti umani e la biomedicina si afferma l’illiceità di creare appositamente embrioni per la ricerca, tesi peraltro confermata dalla legge 40/2004. Ciò che risulta lecito è piuttosto il prelievo di cellule staminali da aborti spontanei o volontari a patto che vi sia il consenso informato, che si tratti di un atto libero e gratuito a fini di ricerca e terapia, che la scelta di abortire sia indipendente – ossia che sia esclusa la commerciabilità e la brevettabilità delle cellule ricavate e che i medici che effettuano l’aborto siano diversi da quelli che effettueranno poi il prelievo. Risulta poi lecito anche ricavare cellule staminali da cellule staminali di un paziente adulto, a patto che siano soddisfatte le condizioni generali di eticità della sperimentazione, consistenti nella valutazione dei rischi, consenso e approvazione da parte di un Comitato Etico. Sull’utilizzo degli embrioni sovrannumerari sembra possibile parlare di un’incoerenza legislativa in quanto alcuni ritengono che sia compatibile con il rispetto per l’embrione e un atto di solidarietà decidere, da parte della coppia, di donare l’embrione; altri invece ritengono tale pratica incompatibile con il rispetto dovuto all’essere umano dal momento del concepimento, strada questa peraltro seguita dalla legge 40/2004.
La posizione restrittiva adottata dalla legge italiana è in linea con il Parere sull’impiego terapeutico delle cellule staminali adottato dal Consiglio Nazionale per la Bioetica il 27 Ottobre del 2000.
Il paese più liberale in merito risulta su questo punto l’Inghilterra. Qui il rapporto Stem Cell Research: Medical Progress with Responsibility ha autorizzato in via transitoria la ricerca su embrioni derivata dalla sostituzione di nucleo cellulare. Non è peraltro vietato l’uso di embrioni residui e la clonazione terapeutica; mentre la legge del 1990 vieta esplicitamente la clonazione riproduttiva. Nell’articolo “la clonazione annunciata. Il governo inglese si prepara a dare a settembre il via libera agli embrioni umani“, Antonio Polito aveva già annunciato la posizione che la comunità scientifica inglese si apprestava ad adottare in merito alla clonazione: autorizzare la clonazione terapeutica, seppur con certe salvaguardie etiche. “La prima di queste” – scrive Polito – “dovrebbe essere l’obbligo di condurre questi esperimenti a soli scopi di ricerca. Non si tratterebbe cioè dell’avvio di una pratica industriale di produzione di pezzi di ricambio per malati. […] La seconda condizione concerne il divieto di trarre cellule da embrioni umani frutto di aborto. La terza sarebbe ovviamente il divieto di far crescere l’embrione umano eventualmente clonato oltre i sette-otto giorni , tentando così di farlo sviluppare in un essere umano vero e proprio”. A coloro che accusano la politica inglese come eccessivamente liberale, Polito risponde con un dato medico e uno etico: da un lato va osservato che le percentuali di fallimento restano altissime, “facendo della clonazione una tecnica dispendiosa dai risultati incerti, più un’arte dunque che una scienza, dall’altro Polito afferma che se è vero che la clonazione può essere discutibile, è anche vero che altrettanto eticamente discutibile sarebbe rinunciare a curare tanti esseri umani, sapendo di poterlo fare – vale a dire che l’omissione consapevole sembra avere un peso analogo a quello della mera azione.
La posizione adottata dagli Stati Uniti d’America sta invece a metà tra quella forse eccessivamente restrittiva italiana e quella molto liberale anglosassone. Qui le Guidelines for Research Using Human Pluripotent Stem Cells autorizzano finanziamenti federali per le ricerche su cellule staminali totipotenti derivanti da embrioni o tessuti fetali umani, ma non a produrre in proprio linee cellulari.
Prima di sollevare considerazioni etiche, è interessante ascoltare cosa dicono le statistiche. L’articolo “America’s next ethical war” (sempre riportato nel percorso sulla clonazione umana) ne fornisce degli esempi. Qui si afferma esplicitamente che il 67% delle persone ritiene che la clonazione animale “sia una cattiva idea”, mentre l’idea della clonazione umana vede il 90% della popolazione come contraria. L’articolo mostra però che una forte maggioranza è contraria perfino alla clonazione per fini terapeutici, in particolare alla clonazione di organi a scopo di trapianto (68% contrari) e alla clonazione per aiutare coppie non fertili ad avere figli (76%). E tuttavia lo stesso articolo precisa che, se si va a consultare il sito dell’ Human Cloning Foundation appare immediata la forte presenza di voci che chiedono con insistenza che la clonazione venga attuata: voci che provengono dal bisogno disperato di far rivivere un gemello ormai deceduto, voci di coppie omosessuali che vogliono dei figli, voci di coppie infertili che devono ricorrere alla clonazione come ultima possibilità per soddisfare il loro bisogno di sentirsi genitori. Si tratta quindi di capire se tali pretese siano legittime, ossia se, una volta compresa la validità di tali esigenze, valide proprio perché avvertite come necessarie, esse bastino a rendere la clonazione legittima. Indipendentemente dalla legge scritta, si tratta cioè di capire se vi siano ragioni legittime per le quali la clonazione non possa considerarsi eticamente lecita o se, tutte le resistenze che ad essa vengono avanzate, siano solo vuote chimere. Stefano Rodotà nel suo articolo apparso su Repubblica il 1 Aprile 2001 “No alla clonazione umana, ma non fermiamo la ricerca” (percorso sulla clonazione umana), afferma che da quando “sulla scena del mondo è comparsa la pecora Dolly, prova indiscutibile della possibilità di riprodurre un essere vivente, la clonazione è stata via via presentata come emblema del male assoluto o della libertà della scienza, come espressione inaccettabile della volontà di giocare a essere Dio, o come ampliamento legittimo delle nostre possibilità di scelta” e a ciò aggiunge che “la proposta di bandire ogni forma di clonazione è emblematica” poiché “dimostra come le discussioni sulla clonazione, anche in ambienti che si dovrebbero ritenere informati, siano ancora inquinate da approssimazioni e fumi ideologici”, concludendo che “la clonazione non è il diavolo” e che, anzi, nel rapporto esplicativo che accompagna il Protocollo annesso alla Convenzione dei diritti dell’uomo e la biomedicina “si afferma esplicitamente la legittimità della clonazione in quanto tecnica biomedica, importante per lo sviluppo della medicina”. Se è vero che la clonazione non è il diavolo e che essa, dal punto di vista terapeutico, sembra essere fondamentale per la ‘produzione’ delle cellule staminali, perché la clonazione trova seria opposizione? Quali sono le ragioni etiche del rifiuto della clonazione?
Il Comitato Nazionale di Bioetica ha individuato tre ragioni che dovrebbero determinare il rifiuto della clonazione: la riduzione dell’uomo a mezzo, la violazione dell’unicità genetica, la violazione del diritto di non sapere. Circa la prima ragione è evidente che la clonazione operi una strumentalizzazione dell’essere umano e che dunque essa rientri tra quelle pratiche che non considerano l’essere umano unicamente come fine; e tuttavia il fatto di ridurre l’uomo a mezzo non pertiene unicamente alla clonazione, ossia non è specifico di tale pratica. Sono le due restanti ragioni a dover essere perciò sottoposte a verifica. La seconda obiezione fa leva sul diritto che ogni essere umano ha ad avere un proprio personale ed originale patrimonio genetico, diritto che con la clonazione verrebbe naturalmente meno. Dunque, si badi, non di originalità personale si fa qui menzione, ma di originalità genetica. Il problema sta nel comprendere che cosa comporti in termini di conseguenze sulla persona condividere il proprio patrimonio genetico con un altro individuo, geneticamente identico al primo. Già Stefano Rodotà nel suo articolo prima citato affermava esplicitamente che “la nostra unicità non dipende dal solo corredo genetico”, sollevando una contro obiezione già ben nota secondo la quale correlare l’unicità personale all’unicità biologica sembra comportare la caduta in quel determinismo genetico scientificamente peraltro errato: infatti dal momento che l’esperienza di vita non è iscritta nei geni, allora sembra che non sia possibile inferire la riproduzione biografica a partire dalla riproduzione biologica. Sembra perciò possibile concludere sulla stregua di quanto affermato da Rodotà: “proprio la prevalenza della biografia sulla biologia costituisce e garantisce l’unicità della persona. E proprio il rapporto tra individuo e ambiente impedisce di ipotizzare una perenne dipendenza tra il modello e il suo clone, che costruisce la sua unicità in forme tali da differenziarlo dall’individuo dal quale deriva”. Pertinente alla prima obiezione è però l’osservazione, che della clonazione non sembra poter essere diretta obiezione, secondo la quale “la riproduzione di soggetti biologicamente identici, come avviene con la clonazione, è destinata a mortificare la possibilità di un’infinita varietà di patrimoni genetici, che costituisce una vera ricchezza dell’uomo, come degli altri esseri viventi (Michele Aramini, Bioetica, Le Paoline, Milano 2006, pp. 154-155)”. Sicuramente più pertinente è allora la terza obiezione secondo la quale esisterebbe un diritto di non sapere proprio di ciascuno riguardante il proprio destino perlomeno biologico (dal momento che, si è detto, la non coincidenza tra vita biologica e vita biografica, non permette di conoscere il destino culturale e personale a partire da quello genetico) e che, con la clonazione, verrebbe sicuramente incrinato. E tuttavia, entrambe le obiezioni considerate, si riferiscono alla clonazione riproduttiva, non alla clonazione terapeutica. E dunque se è vero che la clonazione riproduttiva deve essere vietata in quanto strumentalizza la natura umana e rischia di indicare quello che sarà il destino biologico del soggetto clonato, finendo per non considerarlo nella sua dignità intrinseca, è tuttavia peraltro vero che tali rischi non appartengono invece alla clonazione in quanto atto terapeutico. Perciò “il divieto della clonazione riproduttiva umana non può essere invocato per impedire il ricorso a questa tecnica in altri settori di ricerca, come quello delle cellule staminali (Rodotà, citato)”.