«Quando l’uomo disegna, così come quando produce, contribuisce a cambiare il mondo». Piero Bassetti ha introdotto così l’incontro con la stampa specializzata finalizzato a presentare il progetto Milano Design, Realizzare l’improbabile, e in particolare la prossima tappa in ordine di tempo: lo spettacolo Milano Design ’60 di Laura Curino, presente all’incontro (11 e 12 febbraio 2011, Piccolo Teatro Studio Expo, produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Cosmit, Fondazione Giannino Bassetti).
Mantenere vivo il lascito dei sei designer intorno ai quali si snoda la narrazione della Curino – e quello dell’industria che con essi ha intrecciato la propria vicenda – è un compito che la Fondazione Bassetti interpreta sulla scorta della propria mission: promuovere la responsabilità dell’innovazione, e dunque guardare al design (e alla città che nell’immaginario internazionale ancora ne rappresenta il cuore) per intravedere uno scenario che trascenda il contingente, un improbabile da realizzare.
Tema poco percepito dalla nostra contemporaneità, complice l’appannarsi della memoria di un tempo – ha spiegato Manolo De Giorgi (curatore insieme a Andrea Kerbaker e Italo Lupi) – che in effetti ci appare come uno «spazio vuoto»: nel 1946, anno in cui lo spettacolo prende avvio, il design non c’era. Per i progettisti, che ancora non erano designer, e per i produttori. Tutti erano portatori di un saper fare, nessuno sapeva produrre per il dopoguerra.
Per una volta, in scena non andranno gli oggetti. E nemmeno gli archetipi del design italiano. Vent’anni scorreranno attraverso le relazioni molto fitte tra sei personaggi, alcuni dei quali divenuti designers, altri no. Tutti della stessa generazione: Marco Zanuso del 1916, Ettore Sottsass del ’17, Achille Castiglioni del ’18, Vittoriano Viganò del ’19, Roberto Menghi e Vico Magistretti del ’20. Cinque provenienti dalla Milano altoborghese, culturalmente compatta e omogenea; uno dalla Secessione austriaca e poi torinese. Entreremo nella testa di queste persone, tutto sommato poco conosciute, esplorando il loro ventaglio culturale ampio, spaziante tra il tecnico e il classico; il che potrà forse portare, per contrappunto, a riflettere sulla attuale «professionalizzazione» del mestiere di designer.
Un’istituzione milanese e nazionale come il Piccolo Teatro, rappresentata all’incontro da Sergio Escobar, intende utilizzare l’occasione per porre il tema sensibile, «che non vogliamo venga declinato all’imperfetto» del rapporto tra mente e mano. «Parliamo di uomini che non si ponevano nemmeno il problema se teoria e prassi potessero conciliarsi; esse si conciliavano nel loro lavoro».
Giovanni Lanzone, di Domus Academy (che insegna a duecento studenti, il novanta per cento dei quali stranieri, design e moda) ha modo di toccare quotidianamente l’esigenza di dare prospettiva a un’eredità tanto rilevante; il che implica, necessariamente, la capacità di narrarla nella sua specificità: «Non credo che in questa città vi sia generale consapevolezza del fatto che, negli anni cinquanta e sessanta, si è avuta una svolta di paradigma. Si è portata l’estetica, prima confinata nel bello «museale» e nel sacro, dentro oggetti quotidiani che la media borghesia o una classe popolare attenta poteva comprare». E ciò si deve ai nostri designer e agli industriali – fantasiosi e visionari – coi quali essi fondarono un originale e inedito sodalizio. Fu un unicum perchè, ad esempio, se il lavoro dei designer negli Stati Uniti è stato marginale al sistema produttivo, qui ne ha rappresentato il cuore. Ed è un concetto portatore di futuro: «Nel Rinascimento esportammo la prospettiva; oggi, il senso del bello applicato all’arte dell’utilità. Un sentimento di massa che si trasforma in oggetti». E attenzione: nella Pianura padana si trovano straordinari livelli di produzione a tutte le scale. Una ricchezza consentita dal rapporto capillare con gli artigiani e i produttori, che Magistretti sintetizzava con una battuta: «Io i progetti li faccio al telefono»; o ancora, a riprendere un tema poc’anzi evocato: «Il segreto del design è il liceo classico». Cultura incorporata nell’oggetto industriale, cui la Fondazione Bassetti e Domus Academy hanno voluto contribuire assegnando due borse di studio a giovani designer (Manuel Garzoron e Avner Shaked) impegnati in progetti sul sistema design milanese.
Ma, appunto, ciò che la città ha saputo sviluppare fa i conti, oggi, con un deficit di consapevolezza da parte dei suoi poteri: orfana di quegli uomini – e con loro di centinaia di operai, artigiani, imprenditori e intellettuali che di quell’avventura furono coautori – cerca il demiurgo capace di conferire ordine alla neve informe; dimentica del passato, è intimorita dal futuro. E, non a caso, gli studenti domandano What else? Come nota Bassetti, «non basta sapere; occorre responsabilizzarsi di ciò che si sa».
In questo il linguaggio teatrale gioca un ruolo speciale, come spiega proprio Laura Curino, autrice dello spettacolo: «Le donne messicane di Rigoberta Menchù fanno tappeti Kippu, composti da milioni di nodi: ne lasciano sempre uno slegato, per non rimanere prigioniere della trama. Io sono il filo slegato. C’è una trama fitta, di cui tutti quanti si fanno scudo (l’imperfetto cui si riferiva Escobar). E poi c’è l’imperfetto dei bambini, giocoso e che sa di futuro: Giochiamo che io ero. Quando un bambino lo usa a questo modo, gioca al futuro: proietta nel passato un’identità che non ha ancora: giochiamo che ero un giornalista, giochiamo che ero un designer. Crearsi un trampolino nella tradizione – forse anche un usbergo, ma soprattutto una proiezione verso il futuro – è il senso di quel gioco e della narrazione teatrale. «Come artista, posso continuare a parlare di politica recitando Antigone; posso parlare di gente che vive al di sopra delle possibilità con Goldoni, La villeggiatura. Consegnare dei nomi, anche piccoli, alla storia, è un desiderio che ho sempre avuto; forse perché nasco a Torino, quindi non in paradiso (a Firenze, a Roma) ma neanche nelle città complesse e “infernali”: nasco in purgatorio. Se sei un’artista e hai senso di responsabilità, hai la sensazione che ci sia un universo che ti chiede di cantarlo». Ciò che Curino ha fatto, per esempio, con i due spettacoli di grande successo (quattrocento repliche in tutta Italia) su Camillo e Adriano Olivetti. «Avevo un modello vicino casa, che non era quello Fiat, ma appunto quello Olivetti. Della differenza si accorgerebbe anche un bambino: un accesso alla qualità dell’uomo che, insieme alle altre categorie crociane, chiameremo ora bellezza, ora amore; e che emana un fascino di per sè. Anche prima di sapere che si chiama architettura – Figini, Pollini, Peressutti, Rogers, ecc – prima di questi nomi, c’è un edificio che riflette il cielo. C’è un oggetto tra i più belli che hai in casa – anche una come la mia, che non necessariamente conteneva oggetti di design – la macchina da scrivere, che improvvisamente nobilita i tuoi testi». Curino, dunque, torna sul punto già sollevato: la cultura e l’impresa «separate, non hanno vita. Un mondo che produce e non ha responsabilità non è solo scisso: uccide. Detto questo, facciamo che io ero un’ esperta di design».
Del resto, nel solco del rapporto tra mente e mano si colloca la partecipazione a Realizzare l’improbabile del mondo dell’impresa: Cosmit, Camera di Commercio di Milano e Camera di Commercio Monza e Brianza, Pdma.
Cosmit, attraverso il presidente Guglielmi, lega la memoria dei designer tanto a una battaglia culturale per la difesa della qualità («e occorre capire cosa si intenda: in termini economici, regole e norme che ci vengono imposte per certificarla costano dal 15 al 20 per cento; i prodotti copiati non sottostanno a questi costi e non danno le stesse garanzie»), quanto alla necessità di superare «un mondo dominato dal marketing, che insegna a essere dei secondi vincenti, non dei primi, magari a rischio di perdere. Cassina o, per citare altri, Busnelli, Gandini, Sarfatti, guardavano invece alle conseguenze del loro operare: per esser primi».
Paolo Zanenga, autore del volume Le reti di Diotima e rappresentante in Italia dell’associazione PDMA («fondata nel 1976 nel cuore del mid-west americano, all’apice della cultura fordista e delle economie di scala, e globalizzatasi negli ultimi anni») ravvisa nel progetto un ponte con l’evoluzione del pensiero manageriale organizzativo; tradizionalmente uno dei più conservativi, quest’ultimo è oggi sottoposto a scosse, i cui echi richiamano la metafora del Kippu usata da Curino: anche in un mondo compiuto come quello dell’organizzazione, nelle cui logiche «il tappeto perfetto non ha “fili sfilati”» comincia a farsi largo un’idea più articolata, più aperta alle contaminazioni disciplinari. «Bisogna dare importanza al design thinking, e promuovere uno “sdoganamento” reciproco, portandolo nelle discipline “dure” e alleandosi con altre: le scienze della complessità, le scienze cognitive, la filosofia».
Durante il dibattito con i redattori delle riviste intervenute, è toccato a Bassetti marcare il nesso tra i ragionamenti svolti, con una battuta: «La Curino oggi mi ha aiutato a capire qualcosa che in cinquant’anni di politica non avevo mai focalizzato: è impensabile far politica senza il teatro. Ma penso anche a quanto fa Zanenga che, insieme alla nostra Fondazione, sta dando vita al Club Diotima proprio per recuperare, laicamente, un discorso sul legame tra impresa, conoscenza e bellezza».
Milano può assumersi la responsabilità di non lasciar sopire la «fiammata di valori» suscitata dal lavoro dei suoi designer e industriali. Ma la sfida di introdurre il design thinking nel futuro è globale. «Siamo in un mondo piatto, radicalmente diverso dal passato: la sua organizzazione avrà bisogno più che mai di una nuova esperienza di conciliazione tra mano e mente».