Una conversazione con Maria Antonietta Foddai.
di Nicole Lozzi
Maria Antonietta Foddai è professore di Filosofia del Diritto presso la Facoltà di Giurisprudenza, dell’Università degli Studi di Sassari.
Si laurea presso la medesima Facoltà, con una tesi in diritto civile dal titolo “Le funzioni della responsabilità civile”. Successivamente, con un dottorato in Filosofia e Teoria generale del Diritto all’Università di Padova, studia ancora questo tema, analizzando i problemi filosofici e giuridici relativi alla responsabilità.
Foddai fa di questo tema il fulcro delle sue riflessioni intellettuali attuali e future e dedica, infatti, gran parte del suo percorso di studi e di ricerca alla responsabilità, alle sue contraddizioni ed ai suoi limiti di fronte alle domande pressanti della scienza e della tecnologia. Le sue ultime ricerche si orientano così verso la costruzione di un modello di responsabilità complesso, definito da più livelli e modalità, configurabile come una rete, in cui ogni nodo rappresenta un centro di partecipazione conoscitiva e decisionale al tempo stesso.
Tra le sue pubblicazioni sul tema ricordiamo: “I percorsi della responsabilità” (in F. Cavalla, a cura di, Cultura moderna ed interpretazione classica, Padova Cedam, 1997), “Le ragioni della responsabilità” (in L. Lombardi Vallauri, a cura di, “Logos dell’essere, logos della norma, Bari, Adriatica, 1999), “Ragioni della scienza ed etica della responsabilità” (in Senatore – P. Funghi, a cura di, Bioetica a scuola … a scuola di bioetica, Milano, Franco Angeli, 2002), “Agire eticamente. Jonas e le nuove responsabilità”, Sassari, Moderna, 2005.
Nell’ultimo lavoro, Sulle tracce della responsabilità – Idee e norme dell’agire responsabile, Giappichelli, Torino, Maria Antonietta Foddai compie un’indagine sul concetto contemporaneo di responsabilità e sulle sue radici filosofiche che ne spiegano le intime contraddizioni.
La ricerca si esplica in due parti: la prima è dedicata alle idee che hanno costruito il concetto di responsabilità nell’età moderna, la seconda è una riflessione sulle norme che regolano l’ambito della responsabilità giuridica extracontrattuale e sulla loro inadeguatezza nell’orizzonte post-moderno.
In questa conversazione con l’autrice, ci si propone di ragionare su vasti ed importanti temi quali: scienza, tecnologia, responsabilità, società e sui loro legami nell’ambito di una dimensione democratica.
In questo contesto cosa s’intende, oggi, per tecnologia responsabile?
Per rispondere a questa domanda possiamo fare riferimento a un passaggio del Report “Taking European Knowledge Society Seriously“, elaborato dal Gruppo di esperti incaricati dall’Unione Europea di indagare le ragioni della diffidenza del pubblico nei confronti dell’innovazione tecno-scientifica. I propositi della Commissione si riassumono in questa frase: “(…) We must take shared responsibility, without being forced to lay blame nor claim full control” (p.16). Condividere la responsabilità, abbandonare il criterio sanzionatorio della colpa e la pretesa di avere il pieno controllo sulle conseguenze delle nostre azioni sono i tre criteri che devono comporre il nuovo sistema dell’innovazione responsabile.
Cominciando ad esplorare il tema della responsabilità, quali significati ritiene che emergano nell’agire contemporaneo?
In questi difficili decenni dell’umanità, la responsabilità è la più invocata e celebrata delle qualità umane, tanto da essere definita come il principio fondante dell’etica in età tecnologica. Tuttavia, spesso ho l’impressione che il termine venga usato come una sorta d’invocazione, o tutt’al più che venga inteso come un vago e generico richiamo alla prudenza ed alla riflessione, più che come un progetto regolativo delle azioni, che richiede un’adeguata elaborazione teorica.
Per questo possiamo dire che la responsabilità riflette una contraddizione nella nostra cultura contemporanea: da un lato ci richiamiamo a un principio che possa guidare il nostro agire, dall’altro siamo del tutto incerti circa i suoi significati e i suoi scopi.
Winston Davis cita un simpatico aneddoto che racconta di una piccola comunità cristiana statunitense, devota a “Nostra Signora della Responsabilità Perpetua”. Quest’idea di una responsabilità perpetua, che somiglia più a un incubo che a una serena visione cristiana, sembra un paradosso: se da un lato infatti siamo pronti ad inginocchiarci di fronte alla responsabilità, intesa come una divinità, dall’altro non sappiamo bene in quale direzione stiamo rivolgendo le nostre invocazioni. Cosa significa perpetual responsibility? Che verremo puniti in eterno? Che verremo spinti a considerare le conseguenze delle nostre azioni prima di agire? O che verremo chiamati comunque a rispondere, anche per quelle azioni le cui conseguenze non possiamo prevedere?
Credo che si debba riflettere adeguatamente sui molteplici significati della responsabilità e sul bisogno di elaborare nuovi modelli, più adeguati alla mutata natura dell’agire umano, per usare un’espressione di Jonas.
Il primo compito da affrontare, quindi, è quello di problematizzare la responsabilità.
Che cosa intende con la problematizzazione della responsabilità?
Quando diciamo ‘responsabilità’ ci riferiamo al suo significato più comune: “Il dovere di rispondere delle conseguenze delle azioni che abbiamo compiuto in violazione di una norma del diritto o della morale”. Questo significato, che possiamo definire sanzionatorio, è quello accolto dai nostri codici giuridici ed etici, ma non è l’unico. Il dovere di rispondere come garanti di un debito o promessa altrui, l’obbligo di subire una sanzione o una punizione, il considerare preventivamente le conseguenze delle nostre azioni, fino al dovere di prendersi cura di chi è più fragile e vulnerabile, sono solo alcuni dei modelli di responsabilità elaborati dall’etica e dal diritto. Questa pluralità nasce dalle risposte che nel corso dei secoli l’umanità ha dato al problema della conservazione di un equilibrio di relazioni all’interno di una comunità.
Non credo che sbaglieremmo se dicessimo che la responsabilità non può essere rappresentata come un monolite, ma piuttosto come un concetto plurale e frammentato, composto da numerosi significati che si sono stratificati nel tempo e che non formano un sistema coerente, ma un insieme potente e contraddittorio allo stesso tempo.
Sarebbe un errore andare alla ricerca del suo unico possibile significato, scegliendo tra più opzioni quella adeguata, con un intento ordinatore e classificatorio. Dobbiamo abbracciare con un unico sguardo le idee che disegnano la responsabilità, coglierne le relazioni, le contraddizioni e le profonde ragioni che le hanno generate. E’ mettendo in evidenza i limiti degli attuali sistemi che potremo costruire i nuovi modelli dell’agire responsabile.
Ma cosa intendiamo allora con ‘responsabilità? E dove emergono le sue contraddizioni?
Hart, nel suo Punishment and Responsibility, mostra i differenti significati che può assumere la parola “responsabile” (responsible), raccontando la storiella del capitano di una nave che, a causa del suo comportamento irresponsabile (si ubriacava ogni sera!), perde la sua nave e subisce tutte le conseguenze giuridiche derivanti dalle sue azioni.
Egli individua quattro nuclei concettuali, che rappresentano i principali significati della responsabilità. Il primo è la responsabilità per ruolo, che corrisponde all’insieme dei doveri derivanti da un incarico pubblico o incarico sociale rilevante (come capitano della nave, X doveva garantire la sicurezza dei passeggeri e dell’equipaggio), il secondo è la responsabilità causale, che deriva dal nesso tra due fenomeni materiali (il capitano disse che le tempeste invernali erano responsabili della perdita della nave), il terzo, e il più impiegato, è quello della responsabilità soggezione, che consiste nella possibilità di essere assoggettati ad una pena o a una generica forma di sanzione quando le nostre azioni violano norme giuridiche o morali (il capitano venne riconosciuto responsabile dai giudici per la perdita della nave e la morte di alcuni passeggeri e viene tutt’oggi ritenuto moralmente responsabile per la morte di numerose persone); infine, l’ultimo dei significati ed anche il più recente in ordine temporale, è quello della responsabilità-capacità, che consiste nell’abilità di capire il significato delle norme e nella scelta critica e riflessiva di adeguarsi o meno ad esse (qualcuno disse che il capitano fosse pazzo, ma i medici che lo visitarono conclusero che fosse da ritenere responsabile delle sue azioni).
Quello che possiamo notare è che questi significati non disegnano un sistema coerente. Talvolta, come ha notato Ingarden, si può essere responsabili nel senso di ponderare una decisione andando contro le norme giuridiche o morali. E’ molto diverso il concetto della persona resa responsabile, in quanto soggetta ad un controllo esterno, da quello della persona responsabile in quanto capace di decisioni autonome e svincolate da una forma di controllo eteronoma. I due significati possono trovarsi in contraddizione.
Oltre che in ambito semantico, è possibile vedere alcune di queste contraddizioni nei sistemi morali e giuridici?
Nell’etica l’antinomia emerge nella contrapposizione tra un’etica della convinzione e un’etica della responsabilità. Nella sua famosa conferenza del 1918 sul tema della politica come professione e vocazione, Max Weber si chiede quale sia il modello etico che si s’addice all’uomo politico con incarichi di governo e conclude mostrando due differenti e opposti modelli di azione. Il primo è quello della Gesinnungsethik (etica della convinzione), che consiste nell’agire tenendo del principio morale che ci muove, senza preoccuparsi delle conseguenze che ne derivano: la nostra azione sarà buona o cattiva, giusta o ingiusta, in relazione al principio morale che la determina.
Il secondo è quello della Verantwortungsethik (etica della responsabilità) che impone di agire tenendo conto delle conseguenze che le nostre azioni potranno avere per noi e per gli altri: l’azione sarà buona o cattiva, giusta o ingiusta, se il principio morale in base al quale avremo agito sarà coerente con gli effetti della nostra azione.
Weber sceglie l’etica della responsabilità, dicendo che chi esercita il potere deve assumersi la responsabilità delle sue decisioni, considerando preventivamente le conseguenze che queste potranno provocare, ma si affretta a precisare che non è possibile stabilire con argomenti razionali se questa sia preferibile all’etica della convinzione. Mostrando la radicale alternativa tra cui può oscillare ogni agire etico, egli sostiene allo stesso tempo l’impossibilità di una scelta razionale che rimane affidata all’intuizione morale.
Nel diritto una delle contraddizioni più forti emerge dalla difficile convivenza tra un modello di responsabilità oggettiva, evidente nel sistema della responsabilità civile extracontrattuale, ed uno di responsabilità soggettiva, che deriva dalla teorizzazione ottocentesca della responsabilità individuale, basata sulla capacità morale del soggetto.
Per tornare ai criteri che devono comporre il nuovo sistema dell’innovazione responsabile, come si può configurare l’abbandono del modello sanzionatorio?
Quando la parola ‘Responsibility’ apparve per la prima volta in Gran Bretagna nei discorsi parlamentari era il 1769, e questa nuova parola indicava il dovere dei ministri del Re di rendere conto degli atti compiuti nell’esercizio del loro ruolo. Uno o due anni dopo, ‘Responsabilité’ comparve sulla scena politica francese, indicando il dovere dei pubblici funzionari e dei ministri di rendere conto dell’esercizio del loro potere pubblico. E con il medesimo significato apparve in Italia, dove venne registrata fin dal 1760.
Il nucleo comune di significato dei tre termini è quello di rendere conto a un’autorità per gli atti compiuti in violazione di norme prestabilite. Questo significato si radica nel diritto del XIX secolo e della prima metà del XX. La sua radice individualistica, nata dal pensiero giusnaturalista, esclude la responsabilità oggettiva e include come condizione necessaria la presenza della colpa. La celebre frase di John Stuart Mill, secondo cui “Responsibility means punishment“, esprime il prevalere della concezione sanzionatoria della responsabilità.
Sia nel diritto, che nella morale, essere responsabili significa essere punibili, assoggettabili a una pena o a una sanzione. La responsabilità si traduce in un giudizio su un’azione compiuta nel passato, sulla base di fatti accertati e di un ordine prestabilito di norme giuridiche e morali. Possiamo dire che la responsabilità nasce dalla certezza, quasi da un disvelamento di fatti e norme. La responsabilità si scopre, non si decide.
Ma questo sistema mostra le sue crepe nella seconda metà del ventesimo secolo in relazione al radicale cambiamento che segna l’agire umano e il nostro accresciuto potere derivato dalla tecnologia.
Il mutamento è sia quantitativo, per le nuove dimensioni assunte dall’azione collettiva umana, sia qualitativo, per la capacità di incidere sugli equilibri naturali, e sulla ‘natura’ delle cose, su quelle “esperienze immemorabili di passività”, dice Ricoeur, derivanti dall’essere nati e dall’essere generati.
Il tradizionale concetto di responsabilità appare subito inadeguato di fronte ai problemi posti dalla nuova impresa scientifica. Il più importante, come ha notato Jonas, è quello delle conseguenze del nostro agire: anche se sappiamo quando e dove le nostre azioni nascono, in molti casi non siamo in grado di sapere dove e quando le loro conseguenze cadranno, e soprattutto se saranno buone o cattive.
Nuovi oggetti, come la biosfera, e nuovi soggetti, come le generazioni future, cominciano a disegnare il fondale sul quale si delinea la nuova teoria della responsabilità.
In questo passaggio dall’età moderna a quella tecnologica, lei parla di due modelli di responsabilità: uno semplice ed uno complesso.
Si, questo passaggio è molto importante. E’ proprio allora, dopo Hiroshima e Nagasaki, col grande tema del nucleare, e successivamente con l’avvento delle biotecnologie, che il dubbio inquietante che anche lo scienziato nel suo lavoro non sia al riparo dai giudizi morali ha cominciato a insinuarsi nelle coscienze un tempo tranquille degli studiosi della natura. Mentre scopriamo che il nostro corredo etico è del tutto inadeguato alle nuove sfide, emerge un nuovo orizzonte concettuale della responsabilità: al concetto di punizione si affianca quello di cura e di relazione, alla rigida idea di reciprocità si contrappone quella di asimmetria e vulnerabilità, all’orizzonte temporale del passato si sovrappone la dimensione del futuro, allo scopo di sanzionare comportamenti che compromettono l’equilibrio sociale, si affianca prepotente quello di prevenire danni irreversibili, di conservare un equilibrio naturale che garantisca la sopravvivenza della specie umana. La responsabilità diventa un progetto di azione condiviso.
In relazione a questo passaggio si possono considerare due differenti modelli di responsabilità: uno semplice ed uno complesso.
Il primo è relativo al significato tradizionale, basato sull’insieme dei doveri derivanti dalle norme alle quali riteniamo di doverci adeguare. Secondo questo modello, se io dico che una persona è responsabile, intendo che ha un forte senso del dovere, è degna di fiducia e prudente.
Tuttavia, oggi questo modello si rivela inadeguato: una persona coscienziosa e ligia al dovere può arrivare a comportarsi in modo altamente irresponsabile, quando ignora le conseguenze negative che possono derivare dall’osservanza del dovere.
Paradossalmente è proprio quando ci spingiamo nel territorio sconosciuto, privo dei cartelli indicatori dell’etica comune, che la responsabilità sembra assumere il suo significato più adeguato.
E’ qui che si avverte la necessità di un nuovo modello, definibile come complesso o riflessivo, perché richiede un insieme di capacità critiche che da un lato esaltano la nostra autonomia individuale e dall’altro mostrano la nostra solitudine morale.
Essere responsabili in tal senso, dice Davis, significa essere capaci di prevedere le conseguenze dei propri atti; saper valutare quando è il caso di consultare altre persone o assumere le decisioni in modo del tutto autonomo; avere la capacità di modificare i propri progetti verso altri obiettivi ugualmente apprezzabili, avere infine la volontà di dare un resoconto veritiero delle proprie azioni.
La terza chiave concettuale che lei ha citato per la costruzione di un sistema dell’innovazione responsabile è l’abbandono della pretesa di avere il pieno controllo. In che senso possiamo considerare questo abbandono, come una rassegnata predisposizione all’inevitabile incertezza circa le conseguenze del nostro agire? E quale relazione possiamo cogliere tra la perdita del “full control” e una “shared responsibility”?
No, non si tratta di un’accettazione passiva della fallacia tecnicistica, per cui banalmente facciamo tutto quello che si può fare, per il fatto che abbiamo il potere di farlo e poi incrociamo le dita aspettando di vedere cosa succede.
Credo che l’expert Group avesse in mente una cosa ben diversa, che consiste nel fatto che l’abbandono della pretesa del pieno controllo ridefinisce le modalità dell’azione. E’ la consapevolezza della possibilità dell’inaspettato e dell’imprevedibile, pur nella sua gradualità, che va dall’incertezza fino all’ignoranza, che impone una diversa prospettiva per l’azione.
Questa condizione di incertezza, ormai tematizzata e inglobata nel corredo concettuale della scienza, rappresenta il nuovo vincolo epistemologico della responsabilità e ci impone di inventare con grande umiltà e coraggio nuove modalità di azione.
“E’ quando vengono a mancare le regole conoscitive su cui fare affidamento, è quando non sappiamo esattamente quello che dobbiamo fare e non abbiamo un luogo dove rivolgerci, … che incontriamo qualcosa come la responsabilità” , dice Keenan. Quello che ci fa capire la vera differenza tra una responsabilità illuminista e una postmoderna sta nel passaggio da un orizzonte di certezza ad uno di incertezza.
La prima, quella con cui abbiamo forgiato le nostre forme culturali, nasce in una società ordinata, costruita su regole certe e un robusto concetto di verità; la seconda trova la sua condizione di pensabilità nell’incertezza che segna il nostro agire morale e il nuovo statuto epistemologico.
Ma non le sembra un paradosso che veniamo chiamati a una responsabilità per conseguenze che non possiamo prevedere, talvolta così estese nel tempo che riguardano le generazioni future?
Il paradosso è generato dal fatto che continuiamo a ragionare secondo il modello tradizionale che aggancia la pensabilità della responsabilità al comportamento individuale e alla sua possibile sanzione. In tal senso è coerente escludere la responsabilità da un contesto governato dall’incertezza e dall’impossibilità individuale di prevedere e controllare il corso delle azioni. L’unica risposta coerente in questo senso è il freno all’agire, lo stop. L’euristica della paura di Jonas ne è un bellissimo esempio.
Tuttavia credo che dovremmo fare una sorta di salto logico, accettando, come dicevo all’inizio della nostra conversazione, anche le apparenti contraddizioni della responsabilità, spostandoci da un sistema governato dalla certezza sui fatti e sulle norme, verticistico, basato sul concetto di autorità, ad uno disegnato dalla cornice concettuale dell’incertezza, orizzontale, basato sulla partecipazione e sulla condivisione.
Per superare la contraddizione dobbiamo ricorrere a uno degli antichi significati della responsabilità, elaborato dal diritto romano, quello della garanzia. Il responsabile è il garante di un corso futuro di azioni. Nel nostro caso essere responsabili significa essere pronti a far fronte, “esserci”, con tutta la nostra forza, la nostra capacità critica, la nostra buona volontà. La mia responsabilità nel suo senso morale più profondo significa: “Io ci sarò”, è legata alla mia persona e a un progetto di azione del quale io sono garante.
E’ intorno a questo nucleo concettuale che dobbiamo elaborare un modello complesso e strutturato su più livelli e forme di agire responsabile, che seguano, come il regolo dell’isola di Lesbo, le asperità del terreno sociale e delle strutture politiche.
I quattro principi che compongono il modello complesso della responsabilità, che implicano la previsione, la flessibilità, la capacità critica, la relazionalità, la sincerità e infine la creatività, mostrano che la responsabilità non si compone solo di una rete di significati, ma anche di un insieme di soggetti che concorrono a produrre comportamenti responsabili.
Forse possiamo dire che si tratta di un concetto procedurale, che prescrive un modo per portare le nostre capacità umane all’eccellenza, per trasformare le nostre risorse morali nella nuova e necessaria virtù per l’età tecnologica.
Una conversazione che pone attenzione al rapporto tra scienza, innovazione e responsabilità, deve considerare la società civile come indispensabile attore di una più completa analisi. Fino a che punto possiamo includere la società civile nei nuovi modelli di responsabilità?
L’antica idea di garanzia è solo una delle chiavi concettuali per affrontare la contraddizione di una “responsabilità dell’incertezza nell’incertezza”. L’altra è l’idea di pluralità.
Hannah Arendt diceva che la nostra condizione di esseri umani è una condizione plurale e non individuale. Per poter cogliere il concetto di partecipazione del pubblico, di responsabilità condivisa, dobbiamo innanzitutto prendere atto del limite di una responsabilità plasmata intorno al concetto di individuo, su premesse che escludono la relazionalità dall’agire responsabile.
Sebbene la relazione tra due o più persone rappresenti la condizione della responsabilità, poiché ‘rispondere’ implica sempre qualcuno verso cui si risponde, tuttavia la costruzione moderna del concetto, sia nel diritto che nella morale esclude che della mia responsabilità facciano parte azioni non volute, non pensate dal soggetto, che non siano una sua diretta emanazione. Tutte le evidenze contrarie a questo assioma rappresentano eccezioni che vengono espunte dal sistema moderno della responsabilità, giuridica e morale. La responsabilità viene vista come una qualità morale del soggetto che si traduce e conferma nella previsione giuridica. E’ questo il grande limite del nostro attuale modello.
Il nuovo soggetto della responsabilità è un “noi”, non un “io”.
E’ proprio questa condizione plurale che implica un nuovo concetto, almeno per me, quello della costruzione della responsabilità. La responsabilità si costruisce, si compone con un progetto comune.
In questo senso va oltre l’idea di una shared-responsibility. Infatti questa implica che la responsabilità sia qualcosa di preesistente che, come un carico pesante, viene divisa tra gli esploratori; ma io credo che non sia un carico da portare sulle spalle, ma un progetto che ogni sera si costruisce intorno al fuoco.
Per uscire dalla metafora, bisogna abbandonare il sistema verticistico che “assegna” la responsabilità, ma anche quello concettuale basato sull'”assunzione”, per inventare quello della costruzione della responsabilità.
(a cura di Nicole Lozzi con Maria Antonietta Foddai)