Nel libro di Roberto Panzarani, docente di psicologia delle Organizzazioni dell’Università dell’Aquila,”L’innovazione a colori: una mappa per la globalizzazione” che apre la collana Passepartout della Luiss University Press si conferma la cifra della casa editrice. Una cifra che attraverso pubblicazioni agili e facilmente leggibili, affrontano con lo stile dell’alta divulgazione le tematiche socio-economiche della nostra contemporaneità soddisfacendo anche il palato di lettori esigenti.
Ma perché l’innovazione dovrebbe essere a colori? Nella sinergia fra innovazione e globalizzazione, Panzarani, nel primo capitolo pone l’accento sul ruolo avuto da componentistica e logistica nella produzione manifatturiera. Se guardiamo ad un qualsiasi prodotto hi-tech, diventa difficile identificare un preciso made in… Se sul nostro pc o sul nostro cellulare mettessimo le bandiere di provenienza dei diversi componenti avremmo come risultato la miniatura di tanti palazzi dell’Onu: ‘la tastiera vene dalla Cina, lo schermo dalla Corea, la scheda wireless dalla Malaysia, il modem dalla Cina o da Taiwan mentre la batteria è stata prodotta in Messico, l’hard disk a Singapore, il lettore cd/dvd in Indonesia, il trasformatore in Thailandia, la chiave Usb viene da Israele…’. E qualcosa di simile vale anche per prodotti meno sofisticati, come la bambola Barbie: ‘Operai cinesi fabbricavano la bambola con stampi statunitensi e macchinari giapponesi ed europei, i lunghi cappelli di nylon erano giapponesi, la plastica usata per modellare il corpo veniva prodotta a Taiwan, i pigmenti in America e gli abiti in Cina’.
Se questa forma di globalizzazione da un lato ha consentito un’ampia diffusione delle tecnologie più avanzate, dall’altro ha messo in crisi modi di produzione locali, come per esempio quelle legate al lavoro famigliare tipico di alcuni distretti italiani, così come la grande impresa dei monopoli protetti: ‘C’è sempre una famiglia cinese che lavora di più o una grande fabbrica cinese che paga di meno’.
L’innovazione-globalizzazione non si risolve solo, però, nel mutamento della produzione manifatturiera; accanto alla crisi dei distretti monoproduttivi si ha anche l’opportunità di individuare, almeno per il nostro Paese, il vantaggio produttivo dovuto al made in Italy: ‘Il made in Italy delle produzioni complesse è costruito più che dal fare merce, dal creare, progettare e realizzare la merce.’
‘Le produzioni complesse che incorporano il made in Italy e che vanno nel mondo – siano queste le auto progettate da Giugiaro o da Pininfarina e prodotte dalla Fiat, o un paio di scarpe Tod’s, o una lavatrice Ariston sino agli occhiali di Belluno o ai mobili della Brianza o agli ori di Tarì – ce la fanno perché una media impresa leader ha spostato la catena di vendita sulla scala globale, portandosi dietro i tanti fornitori che stanno fuori delle mura.
In molte piattaforme territoriali questo sta avvenendo. Le grandi imprese di un tempo sono più piccole, molti distretti hanno fatto condensa intorno a medie imprese. Tremilacinquecento medie imprese ne controllano centotrentacinquemila e tutte quante galleggiano in un mare di piccole, piccolissime imprese artigiane e di subfornitura.
E’ questo tessuto manifatturiero che va lentamente innervando di servizi che creano, progettano, vestono con immagini e tecniche merci un po’ fatte e tutte create in Italia. E’ l’esercito del made in Italy. E’ fatto da milioni di persone che lavorano, producono, creano, per evitare il nostro declinare nello spazio globale.’.
C’è necessità, perciò, più che di una carta geografica, con i suoi percorsi lineari e precisi, di una mappa che, come quelle medievali con draghi volanti, sirene, serpenti di mare, è densa di luoghi simbolici ognuno dei quali è insieme opportunità e rischio. D’altra parte, in un mondo dominato dalla complessità, dove il battito d’ali d’una farfalla in Giappone scatena un tornado nel Texas è pressoché impossibile definire la strada da percorrere. Con questa mappa Panzarani si limita, ma questa non è una limitazione, a proporre la direzione di un percorso che sappia realizzare la triade di Dharendorf sviluppo economico, benessere sociale e libertà. Dopo i disastri ideologici del secolo breve Panzarani non azzarda concreti interventi di policy e sembra affidarsi alla speranza, non credo utopica, che già la conoscenza dei problemi sia una via verso la loro soluzione.
Esemplare il caso della Tecnogym, che illustra come l’impresa cesenate nel mentre si è aperta al mercato globale ha consolidato la propria appartenenza al territorio: secondo Alessandri – il fondatore dell’azienda – bisogna creare una rete che coinvolga il pubblico e il privato, università, imprese e istituzioni, infatti, l’azienda è coinvolta in opere sociali, ha un polo per la riabilitazione e pure una sua fondazione. L’idea di base di questo ‘creativo globale è molto semplice: “Per essere globale devi essere locale”.
Cina e India si presentano ormai come le future superpotenze globali, tuttavia, pur essendo ambedue strettamente correlate ai processi di innovazione e globalizzazione, mostrano possibilità evolutive diverse. Dopo la rivoluzione maoista la Cina si è trovata nello stato di un paese disancorato rispetto sia alle proprie tradizioni culturali che a quelle derivate dalle democrazie occidentali, ed ha affidato la governance del proprio approccio alla globalizzazione alla gerarchia del partito dominante. L’India, al contrario, ha visto il processo di globalizzazione non come rivincita alla colonizzazione, ma come integrazione delle proprie tradizioni di dialogo e tolleranza nelle strutture amministrative e politiche derivate dalla dominazione britannica. E non è casuale che mentre la Cina promuove il genocidio culturale in Tibet, nell’India ha trovato rifugio il Dalai Lama.
Se Internet e la connessione in rete favoriscono lo scambio di informazioni tecniche e scientifiche, hanno come rovescio della medaglia l’omologazione culturale e la perdita dei valori su cui si regge una comunità. E così la bambina che su una spiaggia thailandese all’orizzonte vede emergere un’onda capisce, sulla base delle proprie esperienze, che sta arrivando un’onda anomala e lo urla, salvando 300 persone, diventa la metafora di come il locale con la sua cultura empirica e il suo sistema di valori aiuti a non subire i fenomeni. Al contrario, il chiosco che continua a vendere bibite e panini mentre l’onda avanza diventa metafora di una globalizzazione ottusa e avaloriale che muore chiusa su sé stessa.
Roberto Panzarani “L’innovazione a colori. Una mappa per la globalizzazione”, Luiss University Press, Febbraio 2008, collana Passepartout, € 18,00, ISBN 88-6105-020-4
Per gentile concessione dell’autore e della casa editrice rendiamo disponibili le pagine di sintesi dei capitoli del libro di Roberto Panzarani (cliccare sulle miniature per leggere):