‘Può la moda, fenomeno effimero per eccellenza, rappresentare una forma di agire economicamente responsabile? Ciò che indossiamo è in grado di segnalare, oltre ai gusti e alle inclinazioni personali, anche le idee e i valori di riferimento della propria vita? L’abbigliamento, dunque, come manifesto ideologico?’. Sono queste alcune delle domande alla base del lavoro di ricerca di un’équipe del Centro per lo studio della moda e della produzione culturale dell’Università Cattolica di Milano.
I temi legati a innovazione/responsabilità/moda erano già stati al centro della riflessione della Fondazione Giannino Bassetti nel novembre 2005, in occasione della lezione che Ottavio Missoni, invitato dalla FGB, aveva tenuto all’Università Carlo Cattaneo – LIUC nell’ambito del modulo “Innovazione e creatività” destinato agli specializzandi del corso in Economia Aziendale.
In quella occasione era emerso che l’innovazione creativa, come quella presentata da Ottavio Missoni, si sviluppa spesso al di fuori di procedure ad alta intensità di scienza e capitale (science and capital intensive), privilegiando le caratteristiche individuali dell’innovatore come intuito, gusto, personalità. Questo tipo di innovazione è stata definita da Piero Bassetti poiesis intensive: ‘Là dove l’innovazione agisce non solo a livello materiale ed economico ma anche, anzi più, sulla percezione della realtà, allora si può parlare di innovazione poiesis intensive, o poiesis driven. La creatività è un nuovo modo di comporre i gusti, le leggi del piacere e del gradimento. Purtroppo questa dote non viene apprezzata e valorizzata nel sapere diffuso, che preferisce il sapere dei premi Nobel, e rispetta di più uno scienziato di un imprenditore innovativo’. Dunque, un apporto innovativo non è solo quello dato dagli ‘scienzati’, ma anche da tutti quegli innovatori che sanno creare prodotti ad alto contenuto poietico. L’innovazione di tipo poiesis intensive è alla base di gran parte del Made in Italy. Non per questo, un tipo di innovazione creativa non tiene conto delle potenzialità offerte dalla tecnologia, anzi, l’essenza dell’innovazione creativa è proprio riuscire a conciliare creatività, lavoro e tecnologia. E la responsabilità? Come conciliare anche questo fondamentale tema nel processo innovativo in ambito creativo? Dai dati ricavati dalla ricerca dell’ équipe dell’Università Cattolica e qui presentati da Carla Lunghi, emerge che la cultura della responsabilità nel campo della moda/abbigliamento pare più diffusa fra i produttori che fra i consumatori. Bisogni di tipo etico sembrano guidare le pratiche di produzione, ma anche di acquisto e di uso quotidiano dei beni, tanto da far parlare di responsabilità del consumo e di moda responsabile.
La “moda responsabile”: una risposta “dal basso” alla globalizzazione dei consumi?
di Carla Lunghi
Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano
1. L’homo economicus e la moda
Innanzitutto s’impone una precisazione terminologica: per agire economicamente responsabile s’intende quella propensione – oggi sempre più diffusa nei consumatori e in parte anche nelle aziende – ad interrogarsi sulle conseguenze dei propri comportamenti di mercato, in particolare quelli legati al consumo. Nell’arena commerciale, infatti, ‘tra le funzioni economiche che svolgiamo quella che sembra giocare un ruolo determinante per il sistema è il consumo. Tant’è che su nessun altro aspetto della vita siamo così insistentemente e dispendiosamente guidati. […] Il consumo può essere un’arma formidabile per costringere le imprese a comportamenti migliori, perché i consumatori hanno poter di vita e di morte su di loro’ (Gesualdi, 2002, p. 7).
Come è noto, le leggi del mercato si reggono su un paradigma razionalistico poiché postulano l’esistenza di individuo (il famoso homo oeconomicus) che agirebbe sempre razionalmente in un’ottica di ottimizzazione dei costi/benefici. Ma proprio tale principio dimostra la sua completa inadeguatezza quando si tenti di spiegare il consumo e, soprattutto, le sue motivazioni.
Come osserva giustamente un’antropologa famosa, Mary Douglas, ‘è stupefacente scoprire che nessuno sa perché la gente vuole i beni. La teoria della domanda si colloca al centro, e anche alle origini, dell’economia come disciplina. Eppure duecento anni di riflessioni sul tema hanno poco da dirci sul problema’ (Douglas e Isherwood, 1984, p. 17).
Una spiegazione può essere intravista solo partendo dalla constatazione che la scelta e l’uso dei beni non servono solo a soddisfare dei bisogni materiali e psicologici ma coinvolgono anche altre dimensioni sociali, fra le quali spicca quella comunicativa in cui si concretizzano due necessità umane fondamentali: la relazionalità e il riconoscimento.
Già alla fine dell’Ottocento un grande sociologo, Georg Simmel identificava queste due tendenze contrapposte dell’animo umano come le forme ricorrenti del vivere sociale e – dettaglio rilevante per le nostre questioni – individuava nel fenomeno della moda un terreno fecondo per la loro combinazione. Infatti ‘tutta la storia della società si svolge nella lotta, nel compromesso fra la fusione con il nostro gruppo e il distinguerci individualmente. […] La moda è imitazione di un modello dato e appaga il bisogno di appoggio sociale, nondimeno appaga il bisogno di diversità, la tendenza alla differenziazione, al cambiamento, al distinguersi. […] Così la moda non è altro che una delle tante forme di vita con le quali la tendenza all’eguaglianza sociale e quella alla differenziazione individuale e alla variazione si congiungono in un fare unitario’ (Simmel, 2003, p. 483; p. 485).
Non casualmente, allora, la moda e i consumi ad essa collegati possono farci da guida per capire alcune tendenze emergenti nella società contemporanea proprio come all’epoca di Simmel.
2. La responsabilità dei consumi
La sfida intellettuale, cui si accennava all’inizio, riguarda proprio la moda e la nascita in questo campo di nuovi stili di consumo detti “responsabili”: pratiche d’acquisto e di uso quotidiano dei beni che sembrano contenere, o perlomeno segnalare, esigenze e bisogni di tipo etico.
La responsabilità del consumo si esplica fondamentalmente in tre direzioni: verso se stessi (scelta di articoli per il benessere e la felicità personale), verso gli altri (acquisto di prodotti che garantiscono retribuzione eque, rispetto dei diritti dei lavoratori, esclusione del lavoro minorile), verso l’ambiente (consumi ecologici e ecosostenibili, beni con packing a basso impatto ambientale, prodotti biologici). Oggetti e usi di questo tipo concretizzano contenuti culturali evidenti che vengono condivisi sia da chi produce sia da chi compra. Sembra instaurarsi, allora, un circolo virtuoso che conferisce, ad alcune tipologie di merci, valori quali la giustizia e la solidarietà, in controtendenza rispetto agli orientamenti della globalizzazione economica e culturale contemporanea.
Le logiche del profitto e della libera commercializzazione, alla base del mercato planetario, non vengono rigettate ma riprese e finalizzate alla creazione di uno stile di vita più attento ai diritti degli altri e alle esigenze dell’ambiente. In questa prospettiva la diffusione dei cosiddetti “beni responsabili” può essere interpretata anche come una forma di contestazione “dall’interno” delle dinamiche economiche mondiali, una sorta di “globalizzazione dal basso o alternativa” (Becchetti e Paganetto, 2003) che, pur condividendone gli strumenti, ne mette in dubbio i criteri e gli obiettivi. L’utile individuale e l’arricchimento senza limiti (anche a costo di sfruttamenti umani e di impoverimenti di habitat naturali) vengono sostituiti – o perlomeno contenuti – dal rispetto e dalla solidarietà tramite l’offerta di prodotti e di servizi che sono alternativi non tanto nel contenuto materiale quanto nella trasparenza e nella correttezza della loro produzione e commercializzazione. Queste merci, infatti, rendono visibili tutti i passaggi della filiera (il tipo di manodopera e di materiali impiegati, i costi, i salari, le modalità di distribuzione e di vendita, gli impatti ambientali, ecc.) e chi li compra rende possibile non solo una loro ulteriore diffusione ma anche un sovvertimento delle tradizionali logiche di mercato.
Una parte rilevante di tale fermento è costituita dal commercio equo e solidale (CEES), una vera e propria rivoluzione silenziosa iniziata con il caffè, il thè e il cioccolato – i prodotti coloniali per eccellenza, simbolo delle abitudini occidentali – per espandersi, poi, rapidamente verso una serie sempre più variegata di beni e servizi (turismo, finanza, artigianato, arredamento, abbigliamento, generi alimentari freschi e conservati).
E’ necessario sottolineare che la posta in gioco è soprattutto di tipo culturale: il consumo responsabile, almeno nelle intenzioni dei suoi ispiratori e sostenitori, vorrebbe non solo produrre fatti economici rilevanti ma soprattutto incidere su i valori della società occidentale (Van der Hoff, 2005). Non si tratta, insomma, di mettere in vendita merci “responsabili” ad un numero sempre più ampio di consumatori, (vedi controversia botteghe del mondo vs. grande distribuzione) ma ‘di far diventare un bisogno la “scelta etica” del consumatore’ (Perna, 1998, p. 123).
Nel settore della moda/abbigliamento tali discorsi sembrano perdere gran parte del loro mordente culturale e ideologico dal momento che questo mondo sembra (o perlomeno sembrava, all’inizio della nostra ricerca) essere poco attento ai valori della responsabilità e della solidarietà.
Qui ci si trova di fronte, infatti, alla più eclatante manifestazione dell’ideologia consumistica, al gioco incessante fra desiderabilità delle merci e l’obsolescenza pianificata dei prodotti.
Vi è, poi, una filiera produttiva e distributiva così complessa che difficilmente può essere ricostruita per riuscire a verificarne la correttezza o meno dal momento che quasi tutte le imprese sembrano seguire la stessa strategia di contenimento dei costi grazie alla delocalizzzione della produzione.
In realtà la ricerca milanese ha mostrato, fin dall’inizio, un universo molto più variegato di quello ipotizzabile in partenza: in particolare la scoperta di molte aziende, con tipologie di merci anche molto diverse (come i diamanti “etici”, un caso interessante di produzione di gioielli con pietre canadesi non implicate nel commercio delle armi e nello sfruttamento intensivo di giacimenti diamantiferi) ma tutte qualificabili come “etiche” ha inaspettatamente aperto un diverso scenario, pur con la consapevolezza che le grandi aziende del Sistema moda al momento venivano temporaneamente accantonate per questioni logistiche e tempistiche.
3. L’universo della “moda responsabile”
Il nostro studio ha messo in luce l’esistenza di tre filoni di “moda responsabile” che concretizzano alcune istanze etiche particolarmente sentite dai consumatori e dai produttori:
1) la moda dell’usato: che si ispira ai criteri della sobrietà, dell’anti-consumismo, del riciclo
2) la moda equa e solidale: in riferimento ai diritti dei lavoratori, all’esclusione del lavoro minorile, alla valorizzazione di tecniche artigianali locali, alla solidarietà verso persone svantaggiate
3) la moda biologica: che riflette quell’universo valoriale che fa capo all’ecologia, all’ecosostenibilità, alla riduzione degli impatti ambientali.
In realtà, fin dall’inizio della rilevazione, sono emerse interessanti e ricorrenti sovrapposizioni fra i tre filoni poiché le istanze “etiche” sono cosi ramificate e complementari che necessariamente portano alla produzione di capi che assommano in sé più di un requisito. Ad es. i capi d’abbigliamento equi e solidali, prodotti nel Sud del mondo nel rispetto dei diritti dei lavoratori, sono anche, molto spesso, il frutto di tecniche artigiani non dannose per l’ambiente e confezionati con tessuti biologici. In altri casi alcuni prodotti, realizzati da cooperative sociali italiane che danno lavoro a persone in difficoltà, vengono realizzati secondo procedure tradizionali ed eco-compatibili. Infine, in altre realtà, le vendite di vestiti usati per bambini servono a finanziare progetti umanitari in paesi disagiati.
I dati raccolti ci hanno permesso di delineare tre risultati significativi:
1) la diffusione di una crescente sensibilità etica nel campo della moda: la solidarietà, la giustizia, il rispetto dei diritti dei lavoratori, l’ecosostenibilità della produzione e del consumo sono valori perseguiti anche in questo campo dove, quindi, a ragione si può parlare di produzioni, di prodotti e di consumi critici e/o responsabili
2) l’importanza della dimensione estetica: trattandosi di oggetti di moda, le loro vendite non si giustificano solo sulla base del contenuto sociale. Le merci che abbiamo indagato e il loro uso quotidiano mostrano con particolare evidenza l’importanza della bellezza e dello stile.
3) la necessità della trasparenza: l’accorciamento e la visibilità della filiera produttiva e distributiva – caposaldo del movimento del Fairtrade – sono indispensabili per qualificare in termini di eticità anche un prodotto di moda (sia italiano sia straniero, sia ecocompatibile sia usato).
Tuttavia in questo settore, come già osservato, è particolarmente difficile reperire con chiarezza tutta la filiera poiché molti passaggi si perdono nei paesi dell’Est e del sud del mondo, nei labirinti degli appalti e dei subappalti. I consumatori, però, hanno da tempo mostrato di essere interessati a questi aspetti esercitando a volte anche azioni di pressione negative (come per es. il boicottaggio della Nike o della Levi’s). Non è un caso, dunque, che tutte le realtà esaminate siano accomunate dallo sforzo di comunicare ai clienti le storie dei loro prodotti: in questo modo vengono rinforzate non solo le opzioni etiche ma anche gli indotti immaginativi connessi all’acquisto e all’uso degli oggetti di moda.
Sono anche emersi tre interrogativi importanti:
1) ruolo attivo o “schizofrenia” del consumatore?
Tutti gli aspetti fin qui rilevati si fondano (e al contempo ne offrono una conferma diretta) su un’interpretazione largamente condivisa nel campo degli studi sul consumo: la competenza e l’attività del consumatore (Bovone, 2000; Sassatelli, 2005).
La nostra analisi, tuttavia, ha mostrato anche la diffusione di comportamenti meno consapevoli, al limite della passività (o contraddittorietà): il capo etico può a volte essere indossato insieme ad altri assolutamente “irresponsabili” (in quanto prodotto da multinazionali aggressive) o, al contrario, senza alcuna consapevolezza della sua origine solidale. All’estremo opposto vi sono anche situazioni di usi etici di abbigliamenti non etici (come nel caso dell’usato di provenienza non controllata che non avendo la possibilità di comunicare la sua storia, rischia di mandare un messaggio fortemente contraddittorio).
L’indifferenza, l’ignoranza, la leggerezza, la sottomissione ai diktat della moda, le difficoltà di reperire un intero guardaroba etico ma anche la creatività e la paradossalità dei registri comunicativi iconici della moda sembrano esserne le motivazioni più ricorrenti.
2) Vittoria dell’etico o dell’edonistico?
In questo settore, più che in altri, sembra ancor più difficile discernere le reali motivazioni d’acquisto: la dimensione etica si coniuga a volte così armoniosamente con quella estetica da perdere la sua carica alternativa o critica.
Secondo alcuni interpreti tali prodotti hanno addirittura un effetto negativo, addormentando le coscienze e lo spirito critico, poiché offrono al consumatore la possibilità di “mettersi a posto” la coscienza con e per il tramite del mercato senza doverlo necessariamente rigettarlo in quanto causa di povertà, di emarginazione e di sfruttamento (van der Hoff, 2005).
E’ interessante osservare, a questo proposito, come alcuni interpreti abbiano visto un pericolo nella normalizzazione del CEeS, che nelle intenzioni dei suoi fondatori non doveva rappresentare semplicemente un aggiustamento “etico” agli effetti perversi del mercato capitalistico ma svolgere una costante azione di denuncia e di coscientizzazione attraverso la creazione di spazi di mercato alternativo. Se così non fosse, infatti, il CEeS finirebbe di offrire un prodotto in più al mercato: l’etica.
Al contrario altri vedono nei prodotti belli e di moda un formidabile volano dei valori della responsabilità: se la bellezza si comunica da sé, più difficile è comunicare la giustizia. Quest’ultima ha bisogno di veicoli accattivanti come, per es., un bel (e a volte costoso) capo di abbigliamento, in sé non così necessario negli armadi stracolmi del consumatore occidentale.
3) Più responsabilità nella produzione o nel consumo?
Alla luce di una prima analisi dei dati, la cultura della responsabilità nel campo della moda/abbigliamento sembra essere più diffusa fra i produttori. I nostri intervistati, infatti, hanno fondato le loro attività sulla base di forti convinzioni ideologiche personali che hanno poi coniugato con i diktat della moda e dello stile italiano (risultato che meriterebbe di un’ulteriore verifica, come in più punti già osservato, nelle grandi aziende del Sistema moda).
I consumatori invece, come già rilevato, mostrano un livello di consapevolezza meno articolato e, soprattutto, meno diffuso. Escludendo i casi estremi – di quelli che abbiamo ribattezzato “i duri e puri” – la maggioranza dei consumatori da noi intervistati presenta stili di consumo (e di vita) difficilmente etichettabili in un’unica direzione sia di tipo etico sia estetico.
4. Conclusioni
Questi primi risultati si coniugano con la consapevolezza che tale fenomeno ha dimensioni territoriali ed economiche ben più ampie di quelle fin qui studiate.
Del resto come già Simmel aveva genialmente intuito, la moda è una lente formidabile con cui leggere la cultura di una società e di un’epoca: i particolari fenomeni di produzione e di consumo su cui ci siamo oggi soffermati hanno permesso (e permetteranno in futuro, ne siamo certi) di cogliere alcuni nuovi segnali di quell’universo variegato cui il concetto di responsabilità fa riferimento. In quest’ ottica, allora, l’espressione “moda responsabile”, lungi dal sembrare una contraddizione in termini, acquisisce un altro spessore e sembra indicare una nuova frontiera dell’elaborazione culturale della società contemporanea.
Rifermenti bibliografici
Centro Nuovo Modello di Sviluppo, Guida al vestire critico, Emi Edizioni, Bologna, 2006.
Becchetti e Paganetto L., Commercio equo e solidale. Finanza etica, Donzelli Editore, Roma, 2003.
Bovone L., Comunicazione, Francoangeli, Milano, 2000.
Douglas M. e Isherwood B., Il mondo delle cose, Il Mulino, Bologna, 1984.
Gesualdi F., Manuale per un consumo responsabile, Feltrinelli, Milano, 2002.
Perna T., Faitrade, Bollati Boringhieri, Torino, 1998.
Sassateli R., Consumo, cultura, società, Il Mulino, Bologna, 2005.
Simmel G., La moda , in Ventura e sventura della modernità. Antologia degli scritti sociologici, Boringhieri, Torino, 2003 (ed. or. 1895).
Van der Hoff F., Faremo migliore il mondo, Bruno Mondadori, Milano, 2005.