In un item precedente di questa Rassegna Stampa, intitolato “I VeriChips” è stato trattato il tema di piccole capsule che, inserite ipodermicamente, attraverso la tecnologia Rfid (vedi i riferimenti ai link dell’item citato) permettono l’accesso a molte informazioni personali. L’articolo apparso su L’Espresso il 2 febbraio scorso, a firma Alessandro Gilioli, “Il chip amico per la pelle” non rappresenta perciò una novità. Tuttavia, ho ritenuto ugualmente interessante segnalarlo, in quanto dall’articolo si evince come spesso l’innovazione tecnologica trascenda le intenzioni degli innovatori per adattarsi alle più diverse esigenze –futili o serie, secondo i punti di vista– della società.
In origine, il VeriChip è stato realizzato per soddisfare anche esigenze sanitarie:
‘Ogni secondo, solo negli Usa, ci sono quattro persone che arrivano nelle Emergency room degli ospedali in condizione d’incapacità di comunicare… Si va dagli infartuati alle vittime di incidenti stradali, ma la casistica è infinita’.
‘Perché se per ora il grosso business dei chip ipodermici è quello legato alla salute, le possibilità connesse sono invece molto più ampie e aprono una serie di delicate questioni tecnoetiche. In teoria, con una capsuletta hi tech dentro il braccio o nel dorso della mano ciascuno di noi può portare in giro con sé una quantità enorme di informazioni: dal proprio codice genetico alla fedina penale, dai dati biometrici fino alle simpatie politiche. Con un Rfid inserito possiamo sostituire tutte le chiavi di casa o dell’automobile e tutte le password per accedere a pc o ai telefonini. Allo stesso modo si potrebbe passare il casello autostradale, ritirare contante al bancomat e pagare il conto al ristorante o alla cassa del supermercato, proprio come se avessimo un telepass o una carta di credito incorporata’.
Proprio questa molteplicità di applicazioni ha fatto sì che il VeriChip da innovazione tecnologica possa diventare un fatto di costume:
‘Il pioniere della tendenza è un imprenditore, neanche trentenne di Bellingham, vicino a Seattle: si chiama Amai Graafstra e lui di chip se n’è fatti mettere addirittura due, uno per mano: “L’idea era quella di liberarmi di ogni chiave e di ogni password”, spiega, “e devo dire che sta funzionando benissimo. I miei Rfid me li sono programmati da solo, senza utilizzare la tecnologia proprietaria della VeriChip, e ci ho messo i dati che mi interessavano. Poi ho chiesto al mio medico di impiantarmeli, cosa che ha fatto in pochi minuti e in modo del tutto indolore. All’inizio i miei amici e i miei parenti mi chiedevano se ero impazzito, pensavano fossi diventato un cyborg o qualcosa del genere. Sciocchezze, naturalmente: il Rfid sotto pelle non ci rende bionici più di quanto non faccia un paio di occhiali sul naso. E averlo è soltanto un modo per semplificarsi l’esistenza, per entrare in casa, far partire l’automobile o accedere al computer senza chiavi né password”. Anche sul tema della privacy, Amai non ha molte preoccupazioni: “I miei dati sono leggibili solo a pochi centimetri di distanza e solo dai miei scanner: nessuno può rubarmeli né tantomeno può localizzarmi, come molti invece credono”. Graafstra non nega che però qualche problema potrebbe insorgere se il mercato dei chip ipodermici venisse monopolizzato da qualche multinazionale: “A me non piace l’idea della VeriChip di registrare tutti i suoi clienti. In questo modo qualcuno diventa padrone dei tuoi dati. lo sono per il Rfid libero e individuale”, dice. Divenuto in questi mesi assai popolare nell’universo dei “geek” attratti dalle potenzialità della capsuletta, Graafstra ha raccontato la sua esperienza e le sue idee in merito in un libro (“Rfid Toys”, edito da ExtremeTech) in uscita il 20 febbraio prossimo e già oggetto di mille curiosità in Rete. In Internet del resto l’interesse verso questo tipo di tecnologia sembra crescere molto velocemente, almeno a guardare i siti, i blog e i forum dedicati alla materia.’
Ma se il prodotto di una sofisticata tecnologia diventa un fatto di costume, ne consegue la sua banalizzazione:
‘Tutti però, indistintamente, sono convinti di essere l’avanguardia di un futuro molto vicino: quello in cui un radiochip inserito nel dorso della mano non farà più paura a nessuno e diventerà un banalissimo oggetto d’uso quotidiano. Al punto che presto finiremo per chiederci come si poteva, prima, farne a meno. Un po’ come per i telefonini, le lavapiatti e i robot’
Ma se uno strumento si banalizza, diventa cioè d’uso comune, non significa che venga a scomparire la responsanità per il suo impiego.
Riporto, qui di seguito l’intervista al garante per la Privacy, Francesco Pizzetti, apparsa a corredo dell’articolo dell’Espresso.
In Italia impiantare chip sottopelle è vietato. L’Autorità lo ha scritto chiaramente con un provvedimento del marzo 2005. Può essere consentito solo in casi del tutto eccezionali legati alla salute e comunque solo con una nostra autorizzazione.
Professor Pizzetti, perché non posso farmi impiantare un chip, se lo desidero?
‘C’è un principio di dignità umana, sancito dalla nostra Costituzione, che prevale su tutto. Il corpo non può diventare un transponder, un trasmettitore di dati..
Obietto: il corpo è mio, ci faccio quello che mi pare…
‘Sbagliato. Nella nostra cultura giuridica il corpo non è un bene solo personale, ma anche un interesse della collettività. Per questo, ad esempio, l’automutilazione e il suicidio non sono considerati leciti’.
Ma qui parliamo di un banale chip per aprire la porta di casa o per facilitare la comunicazione di dati medici se si arriva incoscienti all’ospedale…
‘Un chip sottopelle non è un gioco, non può essere usato per sostituire le chiavi di casa. Quanto alla salute, se vi sono comprovate ed eccezionali esigenze sanitarie, può essere ammissibile, sempre che sia stata data la corretta informativa all’interessato e si sia ottenuto il suo consenso. Può però essere necessario chiedere il permesso alla nostra Autorità. In passato lo abbiamo dato, per esempio, all’ospedale Spallanzani di Roma, per una ricerca di alto valore scientifico’.
Poniamo: tre anni fa ho avuto un infarto, vorrei avere tutto il mio quadro medico nel chip in caso d’emergenza. Posso?
‘Questo potrebbe rientrare, specie se si tratta di un infarto molto grave, nei casi eccezionali previsti dal Garante’.
Vado spesso in moto e ho paura di schiantanni, vorrei i miei dati medici nel chip…
‘Non vedo in questo caso quali potrebbero essere i profili di eccezionalità a tutela della salute. Più che del chip mi preoccuperei di andare piano in moto..’
E se lo faccio lo stesso, che mi succede?
‘La violazione di una norma del Garante è un illecito. Diciamo però che se, su nostra richiesta, lei il chip se lo toglie, non le succede niente’.
E se invece mi rifiuto?
‘In questo caso l’illecito diventa penale, si rischiano dai tre mesi ai due anni. Ma il nostro obiettivo non è punire il singolo individuo magari un po’ eccentrico, bensì scoraggiare chi questi chip li vuole impiantare sugli altri..’
Non le sembra una posizione troppo conservatrice?
‘Al contrario, è una posizione di tutela. Se si trasforma il corpo umano in un trasmettitore di dati – poniamo di carattere medico – si mette a grave rischio la riservatezza dei dati stessi. Questa tecnologia Rfid poi è così nuova che non ne conosciamo ancora a fondo la vulnerabilità. Penso che quindi bisognerebbe apprezzare la decisione dell’Autorità di garantire la privacy anche a dispetto dell’assenso del singolo. Si pensi se un domani un datore di lavoro vuole imporre i Rfid per controllare i dipendenti e una persona dà il suo consenso pur di essere assunto: è qui che la nostra Authority deve intervenire per garantire i cittadini.
In fondo siamo pagati per questo’.
RFID – Identificazione automatica a radiofrequenza: impatto sulla privacy.
Nel Blog Kata Gene: altri articoli sulla Radio Frequency Identification.