(Una recensione di Salvatore Carrubba del libro di Joel Mokyr “The Gifts of Athena – Historical Origins of the Knowledge Economy“)
In precedenza, in questa Rassegna si è visto come i prodotti della tecnologia suscitino una certa diffidenza per il fatto che molte volte sembra che l’innovazione tecnologica sia scissa dalla conoscenza scientifica e sia mossa da nessun’altra considerazione che non sia quella del consumo e del mercato.
Su un approccio diverso sembra muoversi Salvatore Carrubba nell’articolo “Contro le lobby antinnovazione” apparso sul Il Sole 24 Ore del 18 maggio. Egli inizia la recensione al libro dello storico dell’economia Joel Mokyr, “The Gifts of Athena – Historical Origins of the Knowledge Economy”, con:
‘Contraddittorio se non schizofrenico: così si potrebbe fotografare il rapporto con la conoscenza dell’uomo moderno; il quale, se da un lato non si nega alcun gadget della tecnologia, dall’altro guarda spesso con malcelato fastidio, se non con netta ostilità, ai progressi ulteriori della scienza e della ricerca, mascherando magari con una carica ideologica la propria sostanziale ignoranza’.
Per Carrubba, e per Mokyr, l’innovazione tecnologica non è “il fare per il fare” ma è l’altra medaglia della conoscenza:
‘Non uso a caso i due aggettivi “scientifico” e “tecnologico”. Perché per Mokyr essenziale è comprendere il ruolo che le due forme di conoscenza, le due facce della conoscenza ‘utile’, possono svolgere: la prima è la conoscenza sul “cosa”, la conoscenza di proposizioni sui fenomeni naturali e sulle regolarità; le seconda è la conoscenza sul “come”, la conoscenza prescrittiva, le tecniche. Mokyr dimostra efficacemente una prima realtà: le due forme di conoscenza non sono staccate l’una dall’altra. Le tecniche, è vero, possono non nascere nei laboratori scientifici, ma dall’esperienza di un artigiano intelligente piuttosto che dalla buona sorte di un’osservazione casuale. Ma anche la fortuna, per dirla con Pasteur, aiuta ‘gli animi predisposti’. Ossia, senza un deposito ricco e condiviso della prima forma di conoscenza, quella teorica e di ricerca, la seconda non ha incentivi e motivazioni: senza ricerca, dunque, non c’è tecnica, o non ce n’è a livelli sufficienti per assicurare sviluppo economico’.
E poi aggiunge:
‘Illudersi insomma che l’innovazione nasca in fabbrica è pericoloso. A una società che voglia davvero cogliere le opportunità dell’economia della conoscenza servono un sistema di ricerca diffuso e frequenti contatti tra il mondo accademico e scientifico e quello della produzione: “La conoscenza deve scorrere da quelli che sanno cose a quelli che fanno cose”.
Ma se nella coesione del sistema sociale:
‘Divulgazione affidata a pubblicazioni, enciclopedie e formazione professionale diffusa’
si attua la ricomposizione tra scienza e tecnica, nello stesso sistema sociale si realizzano le opposizioni all’innovazione:
‘Le lobby minacciate dall’avanzata delle tecniche hanno sempre saputo ingaggiare una resistenza senza quartiere. Magari facendo leva su paure ancestrali e timori indimostrabili dell’opinione pubblica. Ma è proprio la resistenza di queste lobby, come ha dimostrato Mancur Olson, che minaccia il funzionamento e la dinamica delle società democratiche, che debbono dunque darsi volontà e strumenti per resistere alle gilde e alle corporazioni di oggi, schierate come ai tempi dei luddisti contro il cambiamento solo per corposi interessi personali. [….] Come ha dimostrato Virginia Postrel in un altro bel libro (‘The Future and Its Enemics’, The Free Press, 1998), passa, ormai da qui l’autentico discrimine ideologico del nostro tempo, che oppone i fautori di una società statica a chi crede nelle virtù e nelle potenzialità della creatività, del progresso e dell’impresa’.
Considerazione personale.
In ultima analisi la risoluzione della tensione fra una tecno-scienza improntata al “tutto ciò che si può fare si deve fare” (v. in Argomenti a pag. 7) e la demonizzazione dell’innovazione per la salvaguardia di interessi consolidati (scrive Carrubba: ‘gli organismi geneticamente modificati non è chiaro se facciano male alla salute, ma fanno certamente male a molte aziende agricole’) rimanda al problema di favorire la crescita di un’opinione pubblica informata e consapevole. E questo ci rimanda al “metodo Fishkin” (v, in questa Rassegna, l’item del 29 maggio).