Rassegna stampa del sito della Fondazione Bassetti  

ovvero: il blog di Vittorio Bertolini (pagina personale dell'autore)

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 Democrazia e sondaggi. Il "metodo Fishkin"

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«La crescente importanza dei sondaggi ha reso ancor più essenziale una attenzione specifica alla loro qualità scientifica e di realizzazione, accentuando il dibattito attorno a questi temi. Uno dei limiti principali dei sondaggi è costituito dalla scarsa informazione di chi risponde. Vengono posti infatti quesiti sui temi più diversi, che l’intervistato spesso ignora totalmente o sui quali ha una conoscenza generica e approssimativa. Di conseguenza, le risposte sono spesso improvvisate o basate sul "sentito dire". Per la verità, un problema analogo si pone spesso anche in occasione delle elezioni "vere", ove si finisce di frequente con lo scegliere sulla base di mere impressioni, senza avere la possibilità (o, sovente, la voglia) di approfondire realmente le diverse proposte sottoposte agli elettori».

Queste considerazioni le troviamo all'inizio dell'articolo di Renato Mannheimer apparso sul Corriere della Sera del 22 maggio con il titolo "I sondaggi su temi politici hanno acquisito sempre più ..."
L'articolo di Mannheimer trae occasione dalla presentazione, avvenuta lunedì 26 maggio alla Camera dei deputati, del libro di James Fishkin "La nostra voce. Opinione pubblica e democrazia. Una proposta" (ed. Marsilio - I libri di Reset). Si veda in proposito la prefazione di Giuliano Amato al libro di Fishkin "Il sondaggio deliberativo, l'innovazione di Fishkin" [su www.caffeeuropa.it].
Il libro di Fishkin è stato commentato in una pagina de Il Sole 24 Ore del 22 maggio con due articoli di Fabio Carducci e Fabrizio Forquet.
Il primo "Antidoto contro l'ignoranza" è una intervista a Fishkin. Due stralci di questa intervista:
«La democrazia deliberativa è pensata come un antidoto, o almeno un contributo, contro i rischi di populismo. Che provengono da due fronti: primo, il pubblico non è ben informato a proposito delle questioni su cui viene consultato e, in secondo luogo, vi sono gruppi auto-selezionati e non rappresentativi che cercano di parlare a nome di tutti gli interessati».
«La democrazia deliberativa è particolarmente utile in ogni circostanza in cui: 1) il pubblico non è già ben informato; 2) la massa del pubblico deve prendere una decisione, come i referendum; 3) può avere ottime informazioni, ma non è stato esposto agli opposti punti di vista su un argomento».

Del secondo articolo, "Il fascino della democrazia del villaggio" riportiamo la parte che esemplifica in cosa consista il "metodo Fishkin":
«Ipotizziamo che il Governo italiano stia considerando un intervento legislativo sul tema dell'immigrazione. Una questione di grande interesse popolare, ma anche di difficile soluzione tecnica. Sarà, perciò, necessario intervenire con leggi popolari ma anche efficaci. Ecco allora che si ricorre a un esperimento di democrazia deliberativa. Viene selezionato un campione rappresentativo di popolazione di alcune centinaia di persone.
Quindi si effettua un primo sondaggio che servirà da riferimento. Ma siamo solo all'inizio. Quel gruppo di persone viene successivamente riunito in un luogo più o meno isolato. E qui per alcuni giorni viene impegnato in una serie di incontri e gruppi di lavoro con esperti di immigrazione, politici di diversa ideologia, amministratori pubblici. Al termine si rifà il sondaggio e lo si confronta con il primo. Il risultato finale serve di base alla deliberazione del potere politico. Non senza aver prima diffuso l'opinione del campione "informato" fra tutta la popolazione attraverso un'ampia copertura mediatica».

Sul "metodo Fishkin" segnaliamo la punta di scetticismo espressa da Angelo Panebianco in "Una democrazia col fiato grosso" su Il Corriere della Sera del 25 maggio:
«Fishkin propone il deliberative polling : l'esposizione di campioni selezionati di cittadini a una informazione massiccia e pluralistica sui vari temi di interesse pubblico al fine di favorire scelte consapevoli. Buona idea, detto per inciso, anche se un po' di scetticismo è lecito. C'è molto di giusto nelle critiche al funzionamento della democrazia, tranne quando viene evocata un'età dell'oro (mai esistita).»

Per quanto riguarda il "metodo Fishkin" segnaliamo nel sito FGB la rassegna stampa del luglio 2002 "Dell'uso improprio del sondaggio, della sua carica deresponsabilizzante e dei possibili correttivi" e sul sito di Caffè Europa (che in pratica è il sito della rivista Reset) "Se non deliberi, come fai a decidere?".




giovedì, maggio 29, 2003  

 Una "Camera Alta" per la responsabilità della scienza. La proposta di Veronesi e le osservazioni di Bassetti [AGGIORNATO il 30 maggio]

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In occasione del conferimento della laurea "honoris causa" in biotecnologie ad Umberto Veronesi, l'illustre clinico milanese ha scritto su Il Corriere della sera del 19 maggio (Una "Camera Alta" per etica e scienza):
«Il mondo delle biotecnologie solleva interrogativi, gli sviluppi dell'informatica e delle telecomunicazioni pongono problemi per il futuro non meno complessi. Attraversiamo un momento difficile e la società dovrà affrontare il futuro della scienza con la forza della ragione. Il rischio è che lo sviluppo tecnologico diventi incontrollabile e si svincoli dai grandi principi universali della scienza e della sua funzione civilizzatrice. [...]
Chi dovrà proporre regole e comportamenti, che siano in linea con lo sviluppo scientifico che ci attende ma che rispettino dei codici morali prestabiliti? Non abbiamo risposte. In linea teorica, il potere legislativo. Ma sono i parlamenti in grado di affrontare con la necessaria profondità una materia così difficile, che il mondo politico può valutare in modo divergente e con il rischio, già constatato in passato, di una paralisi decisionale?

Di qui, perciò, l'idea di una "Camera Alta":
«composta da intellettuali indipendenti, che possono disegnare l'evoluzione futura della nostra civiltà. [...] e per la quale sento il dovere di precisare che non sto pensando ad un super-organismo di filosofi e di scienziati che decidono in nome di tutti, ma a gruppi di veri esperti che esaminino i problemi con grande serietà e approfondimento, per poi sottoporre le loro conclusioni - come si fa in democrazia - ad una società civile che è stata informata in modo obiettivo e che, quindi, può decidere con cognizione di causa».

[AGGIORNAMENTO del 30 maggio]
Sulla "Camera Alta" proposta da Umberto Veronesi è intervenuto Piero Bassetti, presidente della Fondazione Giannino Bassetti, con una lettera inviata al Corriere, pubblicata il 28 maggio col titolo "Conciliare etica e scienza". Al centro delle osservazioni di Bassetti vi è il rapporto irrisolto fra la la legittimità democratica delle decisioni politiche e il ruolo degli esperti.
«[Veronesi] Sembra condividere la diffusa tendenza secondo la quale, di fronte alla difficoltà delle società moderne di stabilire chi è responsabile di valutare qual è il rischio sociale connesso a scelte tecnicamente difficili, si abbandona la fiducia nella politica e si pretende di potersi affidare alla presunta expertise scientifica. [....] Vuota [...] di valori e di fini la mediazione dei quali è compito insostituibile della politica. A questa tendenza bisogna invece reagire soprattutto in vista delle incombenti decisioni costituzionali europee. Tanto più che le alternative cominciano a delinearsi. Sono le proposte istituzionali che vanno lungo la via dei nuovi luoghi deliberativi quali le “Consensus Conferences”o i “Sondaggi deliberativi” nei quali il paradigma istituzionale è quello a tutti noi ben noto del “Processo” e l’espediente metodologico di base è la “proceduralizzazione" o in alternativa l'idea di Agenzia.»



venerdì, maggio 23, 2003  

 Bohr e Heisenberg a Copenhagen nel 1941: un chiarimento definitivo?

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«Perché Heisenberg, che era a capo del progetto tedesco per la costruzione dell'arma atomica, nel 1941 volle andare a Copenhagen, città occupata dai tedeschi, per far visita a Bohr, suo maestro e amico, metà ebreo e tutt'altro che filo-tedesco? Su questa domanda Michael Frayn ha costruito uno spettacolo che dal 1999 sta riscuotendo grande successo. Di "Copenhagen" l'editore Sironi pubblica ora il testo (Milano, pagg. 176, € 14,50) accompagnato dalla documentatissima prefazione di Frayn e da una nuova post-postfazione che rende conto di quanto è successo negli ultimi anni nel dibattito tra gli storici della scienza proprio in relazione alla pièce».

L'incontro fra i due fisici, aveva dato luogo a due interpretazioni. Heisenberg, responsabile del progetto atomico tedesco, voleva avvertire Bohr, affinchè a sua volta ne rendesse edotti gli alleati, che il progetto tedesco era in fase avanzata, oppure, più semplicemente, chiedeva a Bohr di affiancarlo a superare le difficoltà tecniche per la realizzazione della bomba.
La pubblicazione di una lettera di Bohr sembra chiarire la questione. Ne parla lo stesso Michael Frayn nell'articolo "Nuove interpretazioni di Copenhagen", pubblicato su il Sole 24 Ore dell'11 maggio.
Nel sito della FGB sono presenti alcuni documenti che riguardano l'argomento. Si vedano:

A Modena, al Teatro Storchi, fino al 25 maggio 2003, viene rappresentata la pièce teatrale di Frayn: si veda la segnalazione a pagina 10 degli Argomenti.



giovedì, maggio 22, 2003  

 Piero Bassetti, servono regole per gestire il rischio

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« (ANSA) - LONDRA, 15 MAG - La società moderna è priva di regole per la gestione del rischio: serve una struttura che consenta l'individuazione dei diversi ruoli di responsabilità.
E' il messaggio lanciato ieri sera dal presidente della Fondazione Giannino Bassetti, Piero Bassetti, intervenuto a Londra su questo tema con una lezione alla London School of Economics (Lse) dal titolo Innovazione, Rischio Sociale e Responsabilità Politica.
"La nostra civiltà è costruita sul rischio - ha osservato Bassetti -. Dobbiamo prendere consapevolezza di come si gestisce il rischio sociale". I rischi sociali possono essere molteplici: dal terrorismo alla nanotecnologia, al cibo transgenico (Ogm).
Ma il problema, ha sottolineato, "non è come ridurre il rischio. Il problema è come gestirlo". Per il presidente della fondazione, infatti, "c'è una mancanza del controllo del rischio perché le predisposizioni per rendere la responsabilità chiara non ci sono. Il problema - ha aggiunto - è creare una struttura che consenta l'individuazione dei diversi ruoli di responsabilità.
Un problema, questo, che nasce quando "c'è una discrasia tra il rischio oggettivo nel quale la gente viene messa e lo scarico di responsabilità, cioé quando non c'è nessuno che si assume la responsabilità". Serve dunque, secondo Bassetti, "una struttura che consenta l'individuazione dei diversi ruoli di responsabilità".
Per questo, è importante stabilire il metodo. "Il problema non è di stabilire chi risponde - ha infatti spiegato - ma di fissare delle regole che rendano chiaro chi si candida a rispondere". La giustizia, come dicevano i romani, "non è degli uomini, ma il processo giusto sì".
Ciò significa che "non si può dire dov'é la giustizia, si può dire invece che, con una procedura propria, le probabilità di avvicinarsi a una situazione che in termini astratti si chiamerebbe giusta sono molto maggiori", ha concluso Bassetti.
(ANSA)».

La conferenza del dr. Bassetti alla London School Economics, il cui testo è leggibile alla pagina 10 degli Argomenti, è stata commentata su Il Sole 24 Ore del 15 aprile nell'articolo "Rischio-innovazione. Chi ne risponde" a firma Cristina Miglio.
«L'innovazione, quella vera, non è né una scoperta né una novità, ma l'agente di un cambiamento in qualche modo imprevedibile. E la sua imprevedibilità implica inevitabilmente un rischio sociale. Ma a chi tocca la responsabilità di valutarlo?»

Per Bassetti l'11 settembre (è già di per sé significativo che la sola enunciazione del giorno, come il "venerdì nero" o l'"8 settembre", sia sufficiente a identificare un avvenimento abbastanza complesso) è paradigmatico di come il terrorismo si presenti come un «agente di cambiamento imprevedibile».
«Questo tragico avvenimento è stato infatti una vera e propria innovazione, tale da far riconsiderare l'intero quadro del rischio sociale connesso alla vulnerabilità di edifici come le Due Torri. Insomma, quel che è successo ha - per Bassetti - cambiato il quadro delle responsabilità, spostandole da un soggetto di mercato (le società assicuratrici) a un soggetto istituzionale (il Governo)».

La conferenza è stata segnalata anche dall'agenzia on line News Italia Press.



martedì, maggio 20, 2003  

 Ancora sulla Sars. Dati epidemiologici e percezione del rischio

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«Provoca meno vittime di quelle causate dalla malaria, un milione quest'anno; dall'Aids, quasi tre milioni e quasi tutti poveri; dall'infarto o dalla febbre dengue. Tuttavia la polmonite atipica viene vissuta anche in Europa e in Sudamerica come un pericolo tangibile, imminente e personale: ora, oggi, qui.»

Così scrive Yurij Castelfranchi nell'articolo "Un epidemia da paura", apparso su Il Manifesto del 3 maggio.
Al di là dei dati epidemiologici, il coronavirus è diventato il paradigma del rischio e dell'incertezza in una società che comincia a dubitare dell'onnipotenza del progresso tecnico-scientifico.
«Ci sono due virus della Sars, non uno. Il primo è un coronavirus, costituito di un filamento singolo di Rna e appartenente alla famiglia virale che causa le nostre più banali influenze. [...] Il secondo virus è immateriale: è fatto di idee, emozioni, parole. È un virus cognitivo, si è propagato molto più rapidamente del primo e ha colpito infinitamente più persone, di tutte le razze e culture, di ogni censo e nazione. Fa sì che le persone memorizzino la sigla Sars, abbiano una vaga idea di che malattia sia e quali siano i suoi sintomi. E collochino tale malattia, persino nei paesi in cui non è arrivata o non arriverà, nella propria «agenda» di chiacchiere, pensieri, preoccupazioni».

«Il primo virus, biologico, ci mostra ancora una volta il meccanismo stupefacente della propagazione delle epidemie nel mondo globalizzato: anzichè a macchia d'olio, localmente, come nei secoli passati, e poi a ondate che seguivano le rotte commerciali e migratorie (coi ritmi dei mezzi di trasporto di un tempo), i contagi di oggi si propagano sul pianeta intero in tempi brevissimi, dell'ordine delle settimane o persino dei giorni».

«Il secondo virus è meno drammatico ma altrettanto notevole. Suoi veicoli non sono l'Rna e le goccioline d'acqua nebulizzate, ma la parola e l'emozione. [...] Tale virus è dimostrazione di come la percezione del rischio sia una costruzione sociale e di quanto vedesse bene il sociologo Ulrick Beck [ndr: vedere in sito FGB], molti anni fa, nel preconizzare che la nostra era divenuta una "società del rischio"».

Se per il primo virus sono sufficienti, almeno ce lo auguriamo, i provvedimenti dell'OMS e delle varie autorità sanitarie, di fronte al secondo "virus" sarebbe riduttivo limitarsi a confrontare i dati della Sars rispetto ad altre patologie:
«In un solo giorno, da anni e per i prossimi anni, si ammalano e si ammaleranno di tubercolosi 20mila persone: 8 milioni di nuovi malati ogni anno. (Molte di più, una ogni secondo, sono quelle contagiate dal bacillo ma che non mostrano i sintomi della Tbc). I morti per Sars sono stati, da novembre a oggi, poco meno di 400. Le altre malattie contagiose respiratorie che esistono oggi sul pianeta provocano 4 milioni di morti l'anno. In un solo giorno, solo in Africa, solo fra i bambini, ci sono tremila morti per malaria (ogni anno la malaria uccide fra 1 e 3 milioni di persone)».

«La realtà è che [....] la mente umana è fatta, evolutivamente, per costruire in maniera differente, e usando facoltà differenti, il calcolo probabilistico di un rischio (quando questo sia calcolabile), la percezione di tale rischio e, infine, la sua accettabilità. Il calcolo di un rischio è fatto di numeri. La percezione del rischio è una costruzione sociale (e mediatica) fatta di numeri, cultura, immaginario, emozioni».

Sullo stesso argomento Ida Dominjanni su Il Manifesto del 29 aprile, nell'articolo "La sorpresa dei virus canaglia", traccia un parallelo tra gli aerei bomba dell'11 settembre e il coronavirus. Entrambi visti come simbolo dell'insicurezza che l'uomo deve pagare al progresso tecnico-scientifico e alle prospettive della globalizzazione.
«Sarebbe più onesto ammettere che l'insicurezza è il costo che paghiamo alla libertà di volare, viaggiare, spostarci, parlare tre lingue, andare a trovare gli amici di un altro continente, per non parlare di quella di comprare a caro prezzo le scarpe logate prodotte a basso prezzo nei villaggi cinesi. Non c'è libertà, dalla più nobile alla più mercantile, che non comporti un costo, quasi una tassa, di insicurezza. Così come non c'è forma di vita, dicono saggiamente i biologi, che non sia attaccabile da un'altra forma di vita, talvolta ignota e imprevedibile come un coronavirus dagli strani comportamenti. Prima impariamo a conviverci, prima appronteremo misure proporzionate per sapercene anche difendere».


giovedì, maggio 08, 2003  

 Quale armonia fra uomo e natura? Intervista ad Alberto Oliverio

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Sulla Gazzetta di Parma del 2 maggio, Maria Mataluno nell'articolo "Cloni senza frontiere" intervista Alberto Oliverio in occasione dell'uscita del saggio "Dove ci porta la scienza" (Laterza, 156 pagine, 12,00 euro), dove lo psicobiologo della Sapienza tenta di definire il confine tra le incredibili opportunità aperte dalle ultime scoperte scientifiche e i rischi che esse portano con sé.
«Il progresso è per sua natura ambivalente, perché per portare benessere e prosperità chiede immancabilmente qualcosa in cambio. L'uomo ha sempre cercato di controllare la natura, compresa la natura umana. Anche in epoche in cui si pensa esistesse un'armonia tra uomo e natura, come l'età del bronzo, gli uomini incendiavano i boschi per lasciare spazio a case e campi coltivati, andavano a caccia e sfruttavano insensatamente le risorse naturali.»

Se l'armonia fra un uomo e natura appartiene al mito dell'età oro, il progresso tecnico scientifico del giorno d'oggi riveste di nuove luci e nuove ombre il rapporto dell'uomo con la natura:
«Con l'avvento delle tecnologie legate alla riproduzione, la nostra concezione dell'essere umano è diventata più aderente alla sua realtà biologica. [...] E' anche vero, però, che questo indubbio passo avanti, rendendo sempre più labile il confine tra mondo naturale e mondo artificiale, rischia di promuovere una concezione meccanicistica dell'uomo, visto come un essere fatto di parti che si possono togliere e sostituire a piacimento».

Se la scienza ha un ruolo decisamente importante, occorre, però, non considerare la conoscenza scientifica come l'unica chiave di lettura del mondo:
«Il compito della scienza è di dare una delle spiegazioni possibili della realtà. Una spiegazione che, per quanto importante, non escluda altre forme di interpretazione».



mercoledì, maggio 07, 2003  

 Una nuova etica per la scienza

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«Io distinguo la scienza dalla tecnica. Oggi i problemi morali non nascono dalla scienza ma dalla tecnologia, perché la scienza scopre, e quindi essa ha a che fare con la verità, per cui non ci può essere contrasto tra la verità e il bene, cioè l'etica. In questo senso la ricerca scientifica deve essere libera, non può mai avere limiti. Viceversa la tecnologia non scopre ma inventa, cioè introduce il possibile, il quale può essere a favore o contro l'uomo. Inoltre la logica che è alla base della tecnologia non è la verità ma la potenza».

Questo passo è stato tratto da una intervista da Francesco Bellino, direttore del Dipartimento di Bioetica dell'Università di Bari, rilasciata a Mary Sellani della Gazzetta del Mezzogiorno il 16 aprile "Far bene la scienza è anche fare la scienza del bene" in occasione della pubblicazione del testo di V. R. Potter (1911-2001), "Perspectives in Bio Biology and Medicine», nel quale è stato utilizzato per la prima volta il termina bioetica.
Prendendo spunto dall'affermazione di Potter che «l'umanità ha bisogno urgentemente di una nuova saggezza che fornisca la "conoscenza di come utilizzare la conoscenza"», Bellino più che affrontare i temi canonici della bioetica, fecondazione assistitita, eutanasia, impiego delle cellule staminali e così via, sofferma la sua riflessione sui problemi etici posti dalla crescita della scienza nel mondo d'oggi.
«E' sbagliato credere che ogni crescita sia sempre positiva, anche la crescita va sottoposta a criteri di valutazione etica. Un criterio che dovrebbe valere altresì per la conoscenza poiché siamo immersi in un eccesso di conoscenze specialistiche, tanto che non sappiamo più distinguere le conoscenze che ci servono davvero per vivere».





sabato, maggio 03, 2003  
Fondazione Bassetti -- Informazioni e contatti Questa Rassegna stampa appartiene al sito della Fondazione Giannino Bassetti: <www.fondazionebassetti.org>

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