Questo articolo prosegue la rassegna di “design for all” ospitata dalla Fondazione Giannino Bassetti e inaugurata con il manifesto “Innovation for All. La diversità come risorsa” nel febbraio di quest’anno.
IL DESIGN FOR ALL HA VENT’ANNI
è diventato maggiorenne. (1)
di Avril Accolla, Luigi Bandini Buti
Una storia in tre capitoli:
2 – NASCE IL DESIGN FOR ALL
(Leggi la prima parte)
Oggi sta emergendo una nuova filosofia, sempre di tipo progettuale, il Design for All, che è design per la diversità umana, l’inclusione sociale e l’uguaglianza e non vuole considerare trascurabile una categoria di persona perché statisticamente poco significativa. Perché ad un cieco non interessa sapere quale percentuale della popolazione rappresenta la sua menomazione, perché per lui è come se fosse il 100%.
Le leggi del mercato
In una economia di libero o semilibero mercato elemento di valutazione è il Ritorno sull’Investimento. Il Ritorno sull’Investimento non si origina solo da fattori tangibili come l’ampiezza del mercato, ma anche da fattori intangibili come l’immagine dell’azienda o la motivazione dei collaboratori (recita un classico esempio: il muratore che ritiene che il suo lavoro sia mettere un mattone sull’altro è meno produttivo del muratore che ritiene di edificare la “Casa del Signore”). I fattori intangibili di Ritorno dell’Investimento nel processo e nella produzione Design for All possono essere molti, ma diventano operativi solo se sono riconosciuti come valori dalla cultura dell’azienda e/o del mercato. In mancanza di riconoscimento rimangono solo i fattori tangibili e ci si orienta, quindi, o verso una produzione generalista di massa o su una produzione di nicchia specialistica di lusso. I prodotti per la disabilità non hanno quindi evidentemente fondi sufficienti per essere dei buoni progetti. Nella produzione generalistica di massa, che fa i prodotti d’uso quotidiano, i soggetti fortemente fuori dallo standard (mancinismo, gigantismo, obesità, ecc.) rappresentano infatti nicchie di scarso interesse.
Le fasce più deboli
Si rende necessario perciò un atteggiamento sostenuto dalla società civile che richieda, ed imponga, attenzione alle fasce più deboli.
E’ del 1996 la legge italiana sull’eliminazione delle barriere architettoniche (2).
In seguito ad essa gli abitati e le strutture pubbliche cominciano a diventare maggiormente accessibili. Si incrementa così l’usabilità dell’ambiente ma rimane la barriera che divide in due categorie concettuali la società: i “normali” e gli altri.
Questi interventi sull’accessibilità sono spesso mal digeriti o inseriti all’ultimo momento per soddisfare le richieste della legge. Vediamo che accanto ai sontuosi scaloni voluti dai progettisti, sorgono rampe e scivoli per gli handicappati, ottenendo ancora una forma più sottile di discriminazione. I discriminati hanno infatti finalmente i loro percorsi preferenziali, e quindi discriminanti. E’ l’era della “discriminazione funzionalmente accessibile”.
L’European Institute for Design and Disability (EIDD)
Se è vero che è il manufatto che crea l’handicap, deve essere un impegno sociale e professionale del progettista non essere egli stesso generatore di handicap.
E’ a questo punto che la cultura più avanzata del progetto propone il “Design for All”, un approccio olistico del fare civile ed una metodologia progettuale egualitaria.
Il Design for All ha radici nel funzionalismo degli anni ’50 sullo sfondo della politica scandinava del welfare, che, alla fine degli anni 60 in Svezia, genera il concetto della “società per tutti”, pensando in primo luogo all’accessibilità. Questo pensiero ideologico confluisce nelle Regole delle Nazioni Unite per le Pari Opportunità per le Persone Disabili, adottate dall’Assemblea Generale dell’ONU nel dicembre 1993.
L’orientamento delle regole sociali verso l’accessibilità è fonte d’ispirazione per lo sviluppo di una dichiarazione stesa nel 1995 a Barcellona. Questa dichiarazione, sottoscritta da molti paesi, riguarda la città e i disabili (the city and the disabled). Dopo aver premesso il diritto di tutti di godere di uguali opportunità anche se disabili, impegna le città sottoscrittici a diffondere la dichiarazione in tutte le occasioni nazionali ed internazionali, ad iniziare il processo di adeguamento delle rispettive città ai principi espressi dalla Dichiarazione, ed infine a stabilire dei canali di comunicazione per armonizzare gli interventi.
Concetti analoghi si sviluppano in parallelo in altre parti del mondo. Con l’Americans with Disabilities Act, gli statunitensi contribuisco all’evoluzione dell’Universal Design mentre l’Inclusive Design si sviluppa nel Regno Unito.
Il Design for All dialoga e si confronta con questi due approcci e prospetta una proposta olisticamente radicale: fondarsi sul processo (3) e sulla partecipazione dell’utente (4) e non presentare decaloghi paternalistici (check lists e insiemi di regole definite, usati come strumenti facilitativi applicati “da esperti che sanno meglio di te di cosa tu hai bisogno”). Il DfA si dissocia da una visione leguleia e dogmatica che rischia di ingessare e mettere sul piedestallo soluzioni forse già superate. Propone e definisce una metodologia d’approccio, una filosofia di pensiero, una cultura alternativa.
Oggi la pianificazione e il progetto per tutti si riconoscono sempre di più quali elementi imprescindibili delle strategie propositive per lo sviluppo sostenibile.
La dichiarazione di Stoccolma
Poco dopo la sua costituzione nel 1993, l’Europan Institute of Design and Diability (EIDD) si da lo scopo di “migliorare la qualità della vita attraverso il Design for All”. Dieci anni dopo a Stoccolma viene formulata una dichiarazione che si rivolge innanzitutto ai decisori, conscia che la qualità progettuale si gioca ancor prima che si prenda in mano la matita.
Afferma che, per raggiungere risultati aderenti ai principi della filosofia Design for All, è necessaria una forte volontà politica che consenta l’opportuna dotazione di mezzi, non tanto economici, in quanto gli investimenti tendono ad essere compensati dall’allargamento del mercato, ma soprattutto metodologico-organizzativi per il coinvolgimento degli utenti e la formazione di decisori, specialisti e gruppi progettuali preparati e sensibilizzati.
La dichiarazione prosegue chiarendo come, per ottenere l’inclusione sociale, bisogna occuparsi di ogni aspetto del progetto: l’ambiente costruito, gli oggetti quotidiani, i servizi, la cultura e le informazioni.
Infine afferma che per ottenere i risultati voluti si devono attuare l’analisi dei bisogni e delle aspirazioni dell’utente in modo partecipato, quindi, aggiungiamo noi, sfruttando le metodologie messe a punto ed applicate dall’ergonomia.
(Leggi il testo della Dichiarazione di Stoccolma dell’EIDD©)
Note:
1. Il Design for All è stato fondato a Dublino nel 1993 ed è sbarcato in Italia l’anno successivo. Ha quindi vent’anni ed è diventato maggiorenne. (torna al testo)
2. Eliminazione delle barriere architettoniche in spazi pubblici (DPR 24 luglio 1996, n. 503) (torna al testo)
3. Il processo di Design for All deve tener conto dello sviluppo sostenibile e del coinvolgimento di decisori che possono o meno attivare processi progettuali virtuosi, quali amministratori pubblici, politici, dirigenti d’azienda e che vedranno i progettisti come tecnici sensibilizzati e specializzati. (torna al testo)
4. La partecipazione dell’utente deve essere attuata non a cose fatte, ma nelle varie fasi del processo decisionale, progettuale e di test. (torna al testo)
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(foto: Design Avril Accolla)
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