Una volta letti gli articoli su Punto Informatico e l’efficace sintesi su Quinto Stato, mi chiedo: ma cos’è esattamente che preoccupa?
In altre parole: che cos’è che ha di davvero diverso un’etichetta con l’RFID rispetto a una con soltanto un normale codice a barre?
Non è un interrogativo banale, perché non basta elencare le differenze tra l’RFID e il codice a barre per innescare immediatamente preoccupazioni di violazione della privacy.
Sembra quasi, cioè, che dietro all’allarme suscitato dall’RFID vi sia una sua applicazione non detta (o non detta con precisione), o una sua modalità d’uso non chiarita, o qualcos’altro che motiverebbe l’allarme delle associazioni di consumatori.
Per focalizzare la discussione, ho pensato di partire dal sito del Garante della privacy italiano. Infatti su di esso c’è un riferimento preciso: è il testo trascritto qui sotto.
Etichette intelligenti, privacy a rischio?Cresce l’interesse delle aziende per i chip che “seguono” le merci
Rfid è un acronimo (Radio Frequency ID Devices) con cui si indicano dispositivi microscopici simili a microchip contenenti un identificativo (ad esempio, un numero di serie), che è possibile riconoscere attraverso un lettore compatibile funzionante in radiofrequenza. Questi dispositivi suscitano un interesse crescente fra le imprese produttrici, perché offrono la possibilità di verificare i movimenti (magazzino, carico/scarico) dei singoli articoli in vendita – e quindi di ottenere un’istantanea dei flussi merceologici. Tuttavia, essi comportano anche rischi per la privacy delle persone, poiché in potenza essi permettono di rintracciare (e monitorare) i singoli acquirenti degli articoli nei quali sono stati inseriti.
Proprio in considerazione di questi rischi potenziali, da alcune settimane si moltiplicano le segnalazioni relative ai dispositivi Rfid; in particolare, Junkbusters – uno dei siti pro-privacy più attivi negli USA – ha realizzato una pagina in cui informa sull’argomento e sulle prospettive di sviluppo (www.junkbusters.com/rfid.html ; www.rfidjournal.com) dedicato esclusivamente al tema (dal punto di vista delle imprese produttrici).
I timori di Junkbusters ed altri organismi pro-privacy si appuntano, in particolare, sulla possibilità che questi dispositivi non si disattivino “automaticamente” una volta che il cliente lasci il perimetro del negozio (o del concessionario, o di un altro esercizio) – come dichiarato dalle aziende che li producono. In tal caso, essi consentirebbero di tenere traccia degli spostamenti della persona – soprattutto se quest’ultima avesse utilizzato per l’acquisto una carta di credito o uno strumento analogo, che permetta di associare le informazioni identificative del singolo oggetto con una persona determinata. Anche le prospettive di marketing che si aprono attraverso l’uso di dispositivi Rfid sono ovviamente infinite – soprattutto in considerazione della possibilità di inserirli su capi di abbigliamento e oggetti di uso personale.
In primo luogo, è dunque necessario garantire che i clienti siano adeguatamente informati dell’esistenza di tali dispositivi negli articoli in vendita; in secondo luogo, le aziende produttrici, secondo Junkbusters, devono garantire l’effettiva disattivazione dei chip all’uscita dall’esercizio commerciale, oppure inserire i chip in elementi asportabili (ad esempio, l’etichetta o la targhetta ove è indicato il prezzo). Ed è interessante osservare che proprio su riviste specializzate come l’Rfid Journal sopra menzionato si dà ampio spazio al tema privacy – in particolare, alla necessità di “educare” l’opinione pubblica relativamente ai risvolti positivi di questa tecnologia ed alle strategie messe in atto per tutelare la privacy dei consumatori. Evidentemente, anche fra le aziende del settore cresce la percezione dell’importanza delle tematiche connesse alla protezione dei dati personali, e dei rischi potenziali inerenti all’utilizzazione di strumenti di questo genere per il trattamento dei movimenti, dei gusti e delle abitudini delle persone.
Il Garante segue con attenzione la materia, e continuerà a monitorarne gli eventuali sviluppi anche in settori o applicazioni diverse dalle prime esperienze emergenti.