Capitalizzare persone
L’idea di Risorsa Umana e i suo valore economico
di Giuditta Brasca.
Questo articolo, introdotto dal precedente contributo “Risorse Umane e responsabilità“, è tratto dalla tesi specialistica in Antropologia Economica che ho svolto sui temi della pratica di ricerca e selezione del personale da parte di società di consulenza aziendale. Nell’intero lavoro sviluppo una riflessione sulle dinamiche di interazione tra soggetti economici protagonisti dell’attuale panorama aziendale e di mercato. Altro aspetto che affronto sono i processi di valorizzazione dell’individuo concepito come soggetto produttivo, definito da un preciso valore economico ed inserito in uno specifico circuito di acquisto e vendita.
Ripercorrendo alcune decisive fasi storiche che hanno portato alla nascita di un nuovo modo di intendere le persone in azienda come Risorse Umane, cerco di aprire uno spazio di riflessione che interroghi sulla possibilità di quantificazione e monetizzazione di queste stesse risorse.
Gli aspetti della ricerca legati alla responsabilità nell’innovazione sono specificatamente analizzati nel precedente articolo.
Indice
– Introduzione
– L’operaio-ingranaggio di Ford
– Verso una nuova concezione di lavoratore in azienda
– Un panorama economico in trasformazione
– La concezione del lavoratore come Risorsa Umana
– Quale responsabilità per un utilizzo economico del capitale umano
– Riferimenti bibliografici
Introduzione
La nascita della Scuola delle Human Relations, terreno di sviluppo di una serie di filosofie gestionali permeatesi nella cultura delle Risorse Umane, rappresenta uno dei momenti più significativi nella storia del management e del sistema di organizzazione aziendale. Questo orientamento, affermatosi negli Stati Uniti tra gli anni Trenta e Quaranta del Novecento e diffusosi in Europa nel secondo dopoguerra, costituisce l’epilogo di un insieme di esperimenti che portarono al discredito dei principi guida del modello di gestione e produzione fordista. Si tratta di un complesso di risultati tecnici e di rivalutazioni teoriche che rientrano in modo particolarmente interessante negli ambiti tematici dell’innovazione e della responsabilità.
L’operaio-ingranaggio di Ford
Tra gli ultimi decenni del XIX secolo e i primi del XX, un ingegnere industriale ed imprenditore statunitense di nome Frederick Winslow Taylor elaborò, all’interno delle industrie siderurgiche della Midvale Steel Corporation, un sistema di organizzazione del lavoro diventato famoso come taylorismo, che postulava la pianificazione scientifica dell’attività lavorativa al fine di ottenere una maggiore produzione ed un aumento della produttività. Per raggiungere questo obiettivo, secondo Taylor, era necessario imporre una divisione del lavoro basata sulla separazione tra progettazione ed esecuzione – affidate rispettivamente a dirigenti e operai – e fondata sulla parcellizzazione delle mansioni e sulla specializzazione dei compiti, fissi ed elementari. La rigida distinzione tra lavoro progettuale ed esecuzione manuale rappresentava, a suo parere, la condizione imprescindibile per il funzionamento ideale di un’impresa. Le conseguenze definite da questa dottrina manageriale sul significato del lavoro sono di importanza fondamentale. Da un lato, gli individui preposti alle cariche direttive diventano i titolari dell’attività astratta e conoscitiva finalizzata alla formulazione teorica del metodo di lavoro. Dall’altro lato, gli addetti all’esecuzione materiale finiscono per coincidere, in termini valoriali, con la propria capacità ed intensità produttiva e pertanto assumono la funzione di una vera e propria macchina, o meglio, di uno dei tanti ingranaggi di un lungo dispositivo meccanico.
L’erede più devoto della teoria taylorista fu Henry Ford, industriale statunitense che nel 1903 fondò la Ford Motor Company, la maggiore industria automobilistica insieme alla General Motors nel mercato delle autovetture del XX secolo. Nel 1913 Ford cominciò ad utilizzare nel suo stabilimento componenti standardizzate intercambiabili e catene di montaggio, tecniche che applicò su vasta scala diventando il principale artefice della loro diffusione e della conseguente grande espansione dell’industria americana. Egli introdusse nell’ambito produttivo reale i principi organizzativi sviluppati in teoria da Taylor ed aprì la strada alla produzione di massa, destinata a diventare una delle caratteristiche emblematiche del XX secolo. Si inaugurò così, agli inizi del Novecento, una fase industriale determinata da una profonda riorganizzazione del sistema di fabbrica, altrimenti nota come fordismo. Negli stabilimenti pianificati sul lavoro a catena di montaggio, le operazioni richieste agli esecutori sono di natura quasi esclusivamente meccanica, svolte attraverso lo sforzo fisico ripetitivo sempre identico a se stesso e coadiuvato dalle macchine, parametri che confermano una concezione strumentalmente marcata del ruolo dell’operaio. Conseguenza diretta di questo tipo di organizzazione è la svalutazione della sfera creativa, intellettuale e relazionale legata all’attività del lavoratore e relegata alla responsabilità dei dirigenti e dei programmatori, ai quali si affida in esclusiva la sfera delle competenze inventive.
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Verso una nuova concezione di lavoratore in azienda
Una delle prime feconde occasioni che mise seriamente in discussione i principi del management scientifico e del sistema organizzativo fordista, formalizzandosi nella scuola di pensiero delle Human Relations, fu una ricerca sul campo che tra il 1927 e il 1932 si protrasse all’interno della Western Electric Company di Hawthorne, nell’Illinois, diretta da Elton Mayo, professore di Sociologia Industriale all’Harvard Graduate School of Business Administration. Partita su commissione della direzione aziendale e finalizzata alla valutazione di variabili prettamente tecniche, logistiche ed ambientali, l’indagine arrivò progressivamente a focalizzarsi su contenuti di natura diversa, legati al significato e al valore della dimensione umana e relazionale nel contesto d’impresa.
L’aspetto innovativo di questi studi è duplice. In primo luogo, l’esperienza di Hawthorne si distinse nettamente dagli approcci utilizzati fino a quel momento nel quadro degli studi in ambiente di fabbrica per aver dato avvio all’impiego degli strumenti del metodo antropologico, caratterizzato dall’osservazione diretta e soprattutto dalla partecipazione da parte dei ricercatori alla vita lavorativa degli operai, con i quali essi trascorsero e condivisero tempi e spazi quotidiani. In secondo luogo, il gruppo di Harvard arrivò ad elaborare una teoria sull’occupazione dei lavoratori in azienda che prendeva nettamente le distanze dalla visione prettamente numerica, impersonale, anonima e parcellizzata concepita da Taylor. Essi posero l’accento sui temi della collettività, dei rapporti interpersonali, della possibilità di espressione personale, delle componenti motivazionali, decisionali, collaborative e di iniziativa dei singoli individui come problemi fondamentali dell’industria moderna, dimostrando come questi siano fattori di primaria importanza nella determinazione dell’organizzazione aziendale e dei risultati produttivi.
La questione della considerazione delle aspettative e delle aspirazioni dei lavoratori, nell’ottica delle Human Relations, divenne sempre più urgente. Secondo questa concezione, per ottenere risultati soddisfacenti in azienda, non sono sufficienti delle chiare e rigide regole scientifiche ed una valutazione prettamente funzionale e meccanica del ruolo dell’operaio. Al contrario, è indispensabile valorizzare le attitudini sociali e relazionali del lavoratore. Per garantire il successo dell’organizzazione bisogna passare attraverso la cooperazione tra gruppi di lavoro ed il miglioramento dei legami tra personale e dirigenza. Il valore economico dell’individuo, con la scuola di pensiero delle Human Relations, non deriva più esclusivamente dalle sue competenze meccaniche ed operative, ma, in misura maggiore, dagli aspetti della sua personalità. La prospettiva fondata sull’efficienza tecnica venne così rimessa in discussione a favore di un’analisi puntuale del sistema delle relazioni umane tra individui all’interno dell’impresa, utile a definire un efficiente progetto di organizzazione aziendale.
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Un panorama economico in trasformazione
Tale filosofia manageriale trovò un fertile terreno di sviluppo ed applicazione nelle mutate condizioni di mercato che progressivamente andarono affermandosi nei decenni successivi.
Durante gli anni Sessanta il mondo del lavoro delle nazioni occidentali industrializzate fu caratterizzato da una diffusa economia del benessere e attraverso il sistema fordista di produzione di massa si consolidò il fenomeno del consumismo allargato. Tutto questo portò all’apogeo dell’economia di scala, contraddistinta da crescita costante e prosperità. Questo florido panorama economico crollò soprattutto per due ragioni di fondo. Prima di tutto, l’immensa espansione di beni e servizi a basso costo, causata dalla standardizzazione produttiva del sistema fordista, poté funzionare e raggiungere la grande massa di compratori solo fino a quando alla base vi fu una solida domanda. Fintantoché la produzione di merci standardizzate trovò corrispondenza nelle richieste degli acquirenti, questa struttura di mercato dominò. Nel momento in cui la domanda si fece più esigente e le pretese del consumo di massa cominciarono ad articolarsi in maniera più distinta e diversificata, si resero evidenti i limiti di un metodo produttivo basato sulla fabbricazione in serie. Un secondo e non meno trascurabile fattore storico determinò il decadimento del modello economico vigente. Dalla fine degli anni Sessanta agli inizi degli anni Settanta i livelli di inflazione cominciarono a crescere vertiginosamente. L’apice di questo fenomeno si ebbe con la crisi petrolifera del 1973, dovuta principalmente all’improvvisa ed inaspettata interruzione del flusso dell’approvvigionamento di petrolio proveniente dalle nazioni appartenenti all’Opec nei confronti delle nazioni importatrici. Come diretta conseguenza si registrò una rapida accelerazione nell’aumento del prezzo del greggio, che stroncò le economie dei paesi occidentali industrializzati ferendole nel punto più delicato del loro funzionamento economico: il rifornimento e l’utilizzo delle risorse energetiche.
La progressiva saturazione della domanda di massa e la serie di shock del 1973 causarono un’inedita turbolenza ed instabilità dei mercati, modificarono i ritmi di crescita delle economie industrializzate ed aprirono la scena a nuove forme di competizione su scala mondiale.
Sulla base di queste trasformazioni, si definirono delle discontinuità soprattutto in relazione a due elementi: il rapporto tra impresa e mercato e la concezione della funzione e del valore dell’individuo in seno all’impresa. Come sottolineato, il sistema fordista era legato alla considerazione, propria dell’epoca di produzione di massa, di un mercato illimitato e di una domanda infinitamente espandibile. In tali circostanze la fabbrica poteva dettare, produrre e controllare le condizioni del mercato stesso. In tempi e condizioni di limitatezza e precarietà dello scenario economico, fattosi più esigente, differenziato e selettivo, fu la domanda a cominciare a stabilire i termini dell’offerta e questa si ritrovò costretta a rivedere i propri criteri produttivi concependo merci maggiormente diversificate in quote minori. Di fronte ad un mercato sempre più volubile, competitivo e sofisticato, le imprese dovettero adattare modalità e parametri organizzativi in funzione di una produzione più flessibile.
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La concezione del lavoratore come Risorsa Umana
La prima concreta risposta a questo nuovo tipo di dinamiche arrivò tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta dal Giappone, alla Toyota Motor Corporation. Taiichi Ohno, dirigente della casa automobilistica, fu teorizzatore del Toyota Production System e padre di un approccio gestionale e di valorizzazione dell’individuo in azienda che fece propri gli apporti teorici di Mayo e i concetti emersi dalla Scuola delle Human Relations.
Alla Toyota si mise a punto un processo manageriale e produttivo battezzato lean production (produzione leggera, snella, flessibile), legato ad una modalità diversa di concepire l’organizzazione aziendale. Il metodo della produzione leggera si basa prima di tutto sull’eliminazione della gerarchia manageriale tipica del modello taylorista, che impone la separazione tra lavoro intellettuale e fisico e concentra tutto il potere decisionale nelle mani dell’alta sfera direttiva. La divisione del lavoro prospettata da Taylor ostacolava nettamente i lavoratori nello sviluppo di capacità multifunzionali e diversificate, mentre all’interno della Toyota il lavoro venne progettato attraverso un approccio cooperativo di gruppo che consentiva di sfruttare tutte le facoltà intellettuali e le capacità operative dei singoli dipendenti coinvolti nel processo di fabbricazione. Un lavoratore costretto a ripetere meccanicamente come un automa la stessa operazione tutto il giorno, a cui oltretutto non era concessa alcuna iniziativa progettuale né occasione di proposta personale, diventò un costo inutile alla Toyota. Per assicurare una costante adattabilità e flessibilità della produzione alle richieste del mercato, fu necessario creare un gruppo di lavoratori multifunzionali, polivalenti e partecipativi. L’isolato operaio-ingranaggio di Ford, inchiodato definitivamente ad un posto fisso per compiere mansioni parcellizzate e standardizzate, lasciò il posto ad un insieme collettivo e collaborativo di lavoratori le cui funzioni non erano statiche e meramente esecutive, ma dinamiche e decisionali. Per gestire un tipo di produzione utile ad un sistema di mercato diventato più volubile, divenne importante attribuire valore alla cooperazione, alle esperienze ed alle competenze di tutti i lavoratori coinvolti nel processo produttivo, incoraggiando lo sviluppo di molteplici capacità per incrementare e sfruttare al meglio le componenti intuitive, pratiche e risolutive di ciascuno.
Il valore del talento personale, della professionalità soggettiva e della capacità collaborativa, innovativa e creativa dei singoli dipendenti come strumento di affermazione aziendale si fece spazio a poco a poco attraverso le maglie di un discorso teorico che confluì nella filosofia manageriale delle Risorse Umane, secondo la quale il valore economico di un’impresa è dato prima di tutto dall’insieme delle risorse umane immateriali che ne costituiscono il patrimonio e il capitale. L’interesse delle imprese si aprì così verso i vantaggi di un impiego “umano” del personale, allo scopo di affrontare il tipo di richieste e di competitività imposte dalla mutata economia capitalistica mondiale. Per avere successo nel mercato capitalistico, le aziende iniziarono a sviluppare una strategia profondamente orientata alla valorizzazione delle componenti conoscitive, professionali, propositive, progettuali e di iniziativa dei propri dipendenti, facendo della conoscenza intellettuale la propria materia prima, nonché più importante fattore produttivo. Questa nuova concezione gestionale si distinse per la scelta di ottimizzare come risorse imprescindibili per il vantaggio competitivo quell’insieme di fattori della persona che vanno al di là delle caratteristiche strettamente materiali, collocandosi, al contrario, in un bagaglio particolare di intangible assets. La funzione e l’importanza delle persone che lavorano in azienda cominciò così a legarsi in misura sempre maggiore a quel complesso di facoltà ed attitudini definito come capitale intellettuale.
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Quale responsabilità per un utilizzo economico del capitale umano
Queste osservazioni aprono uno spazio di riflessione relativo all’impiego economico del patrimonio umano intangibile ed al genere di attività produttiva che si sviluppa a partire dalla filosofia aziendale delle Risorse Umane. Esse contribuiscono in modo attuale a sollecitare un discorso sul tipo di responsabilità che la cultura d’impresa è chiamata ad assumere nei confronti di questo capitale, concepito come condizione del successo.
In primo luogo è importante considerare come un orientamento manageriale fondato sulla cultura delle Risorse Umane operi in direzione di un ampliamento significativo dell’oggetto di produzione dell’azienda. Oltre ai beni e ai servizi di consumo da offrire sul mercato, l’azienda è ora interessata anche a produrre, scambiare ed investire un insieme immateriale di fattori produttivi, intangibili ed inafferrabili, ma soggetti a precise valutazioni e misure, individuabili tra le caratteristiche soggettive, i talenti personali e le facoltà intellettive, creative e progettuali degli individui. Produrre, dunque, non significa più soltanto creare un oggetto o un risultato collocabile nell’ambito di un mercato esterno di circolazione delle merci, ma anche e soprattutto costruire un complesso di risorse di natura incorporea, ritenute imprescindibili per la realizzazione di qualsiasi altro prodotto.
La difficoltà che si pone a questo riguardo, e forse il paradosso, è quella di definire, dare un prezzo ed un valore economico agli aspetti umani che prendono parte al meccanismo di produzione e dunque quantificare e ricondurre il patrimonio di conoscenze, competenze, qualità e talenti dell’individuo ad un prezzo e alle leggi del mercato. L’idea di Risorsa Umana e lo sviluppo di una concezione aziendale imperniata sul valore del capitale umano come principale fattore produttivo danno origine ad una più ampia possibilità di impiego economico dell’individuo, che si estende fino a comprenderne gli aspetti intellettivi, del carattere e della personalità. Le capacità di mercato dei soggetti e il loro grado di spendibilità, in questo senso, mutano. Gli elementi della soggettività, le doti caratteriali e le inclinazioni affettive e sentimentali diventano, per gli attuali bisogni delle aziende, componenti molto preziose ed assumono un valore economico piegandosi alle condizioni della capitalizzazione e della monetizzazione. Il sapere si fa forza produttiva fondamentale, viene quantificato e si immette nel circuito di acquisto, vendita e scambio di mercato.
È rilevante, a questo riguardo, chiedersi se, come e in quali circostanze sia possibile scambiare sul mercato elementi della personalità, conoscenze e competenze intellettive, inserendole in precisi circuiti di vendita ed acquisto con lo scopo di utilizzarle come fattori produttivi nell’ambito dell’odierna organizzazione d’impresa. Che le componenti intangibili della soggettività siano oggetto di traffico e di attività commerciali rimane indiscusso, così come è certo il fatto che vengono sottoposte a valutazioni di tipo economico e fatte corrispondere a parametri monetari. Allo stesso tempo è difficile credere che il valore di tali elementi possa essere paragonato, nel contesto della compravendita, a quello dei manufatti e degli altri articoli di produzione artificiale. Il sapere, in quanto maggiore forza produttiva, passa attraverso l’interazione della domanda e dell’offerta, assumendo il valore e la forma di un prezzo nel mercato di circolazione delle merci. Alcune facoltà propriamente umane sono immediatamente ritenute incommensurabili, non conformi al calcolo in quanto intangibili, eppure diventano a tutti gli effetti monetizzabili, capitalizzabili, materia di fruizione e funzionalità economica, nonché produttivamente valide e per questo commercializzabili. Per essere acquisite all’interno di un’azienda e venire adoperate come fattori di produzione, le proprietà intangibili della persona sono soggette ad una quotazione in denaro.
Prendere in considerazione questo processo offre la possibilità di approfondire il problema generale della definizione di equivalenti monetari per componenti umane e rapporti sociali, spesso pensati spontaneamente, per antonomasia, come irriducibili a qualsiasi condizione di mercato. In altre parole, nell’ambito di un confronto sul tema della responsabilità nell’innovazione, diventa interessante domandarsi come si determinano i parametri di valorizzazione della persona, in particolare dei suoi attributi caratteriali, delle sue qualità e dei suoi talenti, con l’obiettivo di renderli disponibili ad un utilizzo economico.
Detto questo, è certamente complesso offrire un riscontro immediato e risolutivo agli interrogativi fin qui sollevati. Si tratta, per ora, di un tentativo volto ad aprire uno spazio di riflessione che possa sollecitare un confronto su temi così attuali ed urgenti, lasciando aperte alcune domande. Nel momento in cui conoscenze, competenze, motivazioni, inclinazioni, creatività, doti personali e tendenze attitudinali dell’individuo vanno a costituire la materia prima su cui si fonda l’attività produttiva, diventando i fattori portanti del capitale di risorse d’impresa, è lecito chiedersi: a chi appartiene questo capitale? In quali circuiti di mercato si scambia? Chi ne decide il prezzo e in base a quali criteri? Chi lo detiene? È assoggettabile alle leggi della domanda e dell’offerta? È inflazionabile? Deflazionabile? Si può investire, risparmiare, depositare, accumulare? E ancora: come interpretare il concetto di capitalizzazione quando applicato ad un essere umano? In quali forme concrete e tangibili si traduce l’acquisto e la vendita di assets immateriali come gli elementi della soggettività?
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Riferimenti bibliografici
Auteri E., Management delle risorse umane. Fondamenti professionali, Guerini, Milano 2009.
Caillé A. (a cura di), Il lavoro dopo «la fine del lavoro», Città Aperta Edizioni, Troina 2003.
Macciocca Massimo L., Massimo R., Gestione e valorizzazione delle Risorse Umane. Come gestire con successo la più importante risorsa aziendale, Maggioli Editore, Santarcangelo di Romagna 2009.
Mayo E., I problemi umani e socio-politici della civiltà industriale, UTET, Torino 1969.
Ohno T., Lo spirito Toyota, Einaudi, Torino 1993.
Rifkin J., La fine del lavoro. Il declino della forza lavoro globale e l’avvento dell’era post-mercato, Mondadori, Milano 2002.
Solinas P.G., Il limite umano del denaro. Programmi per una antropologia del valore della persona, in «Parolechiave. Risparmio», Dicembre 1994, 6, Donzelli, Roma 1995.
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Zelizer V. A., Vite economiche. Valore di mercato e valore della persona, Il Mulino, Bologna 2009.
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Giuditta Brasca
è nata a Tradate nel 1984. Ha conseguito la Laurea Magistrale in Antropologia Culturale ed Etnologia presso l’Università degli Studi di Siena, con una tesi in Antropologia Economica dal titolo “Cacciatori di teste. Elementi del valore economico della persona nella pratica di ricerca e selezione del personale”. Attualmente lavora in un progetto di ricerca etnografica su memorie, comunità e tradizioni intorno all’economia ed alle imprese della Valle Olona.
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(fotografia: New Office di Phillie Casablanca da Flickr )