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Tutti gli interventi di Settembre 2005
(sotto questo elenco trovi anche gli ARCHIVI mensili)
Questi sono gli interventi del mese di Settembre 2005
Fai clic qui per vedere i più recenti
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Gli indici coprono il periodo che va fino ad Agosto 2005, mentre da Settembre 2005 gli Argomenti possono essere seguiti, in progressione cronologica, accedendo agli ARCHIVI (mensili) che si trovano in questa pagina, sotto l'elenco degli interventi.
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DiaBloghi
Blog di dialoghi sull'innovazione "poiesis intensive"
[25 maggio 2005]
"Rinnovare, cambiare o innovare?" è la nuova domanda apparsa in DiaBloghi!
[10 settembre 2005]
Leggi il "commento" scritto da Gavino Massidda in relazione al dialogo Cosa vuol dire che una cosa vale, e che vale poco o tanto?
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ARCHIVI mensili
Per gli argomenti trattati in precedenza, vedi gli INDICI
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Gli aggiornamenti nei BLOG - BLOG Updates
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Arte e impresa: la persona al centro
( 28 Settembre 2005 )
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Il progetto 'Italia in persona' alla 51a Biennale di Venezia
"Il made in Italy si trova ad affrontare una difficile fase sociale ed economica sia a livello nazionale che internazionale. Come rilanciare i valori alla base del successo del made in Italy? Quali le strade da percorrere per rinnovare la creatività e l'innovazione delle PMI dei distretti industriali? Quali i fattori su cui si gioca e si giocherà la nuova competitività globale?".
Con questi interrogativi il mondo dell'arte e quello dell'impresa si confrontano da alcuni anni grazie al progetto "Arte e Impresa" voluto dall'artista Michelangelo Pistoletto attraverso la sua Fondazione e condiviso dai Distretti Industriali italiani.
Il progetto, che vuole valorizzare l'eccellenza dei prodotti italiani attraverso un'arte capace di innovare responsabilmente, si è sviluppato attraverso fasi diverse che si possono sintetizzare in quattro parole chiave: esplorazione, ideazione, fattibilità, realizzazione.
La prima fase, quella esplorativa, ha rappresentato un viaggio attraverso le regioni italiane di alcuni membri di Cittadellarte e del Club dei Distretti Industriali. Le tappe del percorso sono state sette: Belluno con il Distretto dell'occhialeria; Nocera Inferiore (SA) con il Distretto Agro-Industriale delle conserve; Valenza (AL) e il Distretto dell'oro e dei gioielli; Matera con il Distretto del mobile imbottito; Fermo, (AP) con il Distretto delle scarpe; Valsesia-Cusio (VC-NO) con il Distretto del valvolame e del rubinetto e Biella con il Distretto del tessile. È possibile leggere alcuni documenti relativi alle impressioni raccolte lungo il viaggio scaricabili dal sito del Club dei Distretti Industriali.
Il viaggio è stato quindi un primo momento di raccolta di conoscenze e di idee per valorizzare le differenze e le specificità del "saper fare" italiano. A questa prima fase conoscitiva, ne è seguita una ideativa dalla quale è nato il progetto "Italia in persona" centrato sulla qualità della vita, in cui il prodotto italiano è costruito intorno alla persona.
Un viaggio nei Distretti. Immagini dalle aziende di Biella, Fermo, Cusio-Valsesia, Nocera
L'articolo continua nella rubrica "Segnalazioni", con la presentazione della mostra itinerante "Italia in persona. La missione culturale del prodotto italiano" e un resoconto dell'attività di un workshop dallo stesso titolo, che si concluderanno il 30 settembre 2005.
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Le responsabilità sociali dell'arte
( 23 Settembre 2005 )
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br>Installazione d'Arte al Centro a Cittadellarte Sono molti gli aspetti della pratica artistica che si riconnettono alla dimensione antropologica dell'innovazione. Il primo intervento che propongo, ospitato nella rubrica di Cristina Grasseni, è incentrato sui rapporti tra mediazione di comunità e responsabilità sociale dell'arte, partendo dall'esperienza di Cittadellarte Fondazione Pistoletto, esempio delle possibili interazioni tra pratica artistica innovativa e pratica innovativa d'impresa.
Una serie di interventi su questi temi ha lo scopo di definire i punti di contatto tra arte "responsabile" e antropologia e di dare spazio a progetti, appuntamenti, libri a carattere interdisciplinare.
Valentina Porcellana (1976) si è laureata prima in Dialettologia italiana, poi in Antropologia delle società complesse all'Università di Torino. E' dottoranda di ricerca in Antropologia ed Epistemologia della Complessità all'Università di Bergamo. Si occupa della costruzione e rappresentazione identitaria dei gruppi di minoranza linguistica, di antropologia alpina e di antropologia dell'arte.
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Principio di precauzione, ovvero: come la scienza della responsabilizzazione può affiancare la scienza delle cause [05/11/05]
( 19 Settembre 2005 )
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[5 novembre 2005] : vedi il box di destra sui nano-macchinari, nuovi materiali e materia programmabile
Non è infrequente, zigzagando fra i vari programmi televisivi, imbattersi in qualche spot dove minuscoli esseri dalle fattezze in qualche modo umane, s'intrufolano o dentro tessuti o all'interno di qualche apparato igienico, ma anche all'interno del corpo umano, e molto operosamente contribuiscono a ripulire l'ambiente in cui si trovano. Senza nessuna pretesa di fare divulgazione tecnico-scientifica a buon mercato, credo che quegli spot rappresentino una buona approssimazione di quelle che sono le nanotecnologie. Infatti, come scrivono Luciano Butti e Luca De Biase nel loro Nanotecnologie, ambiente e percezione del rischio (Giuffrè 2005, pag. 100, 8 euro):
«Le nanoscienze - e le conseguenti nanotecnologie - mirano a costruire nuovi, utilissimi, materiali e macchinari "giocando" con gli atomi... Ciò che caratterizza la ricerca nano-tecnologica più radicale è la capacità di "sistemare" gli atomi piazzandoli esattamente dove è utile che essi vadano.
Con la conseguente possibilità di produrre non soltanto nuovi materiali, ma anche del tutto nuovi nano macchinari: e senza una parte dei limiti e delle difficoltà che la necessità di manipolare organismi viventi causa alle biotecnologie».
Nano-macchinari
Una notizia recente, ripresa dalla e-zine "Punto informatico" nell'articolo " I nanocosi ora trasportano la materia" parla delle macchine molecolari:
«Un team di studiosi scozzesi è riuscito a creare il primo nanotrasportatore della storia: per il momento, questa microscopica molecola artificiale è in grado di spostare solo liquidi.
[...] La nanomacchina sperimentale è riuscita a spostare, solo per pochi millimetri, una microscopica goccia d'acqua sopra un piano.
[...] In ambito nanometrico, molecole artificiali di questo tipo verranno utilizzate per spostare componenti organici o sintetici da un punto all'altro dell'organismo.
[...] Se la ricerca scientifica progredirà a questo ritmo e soprattutto in questa direzione, entro breve verranno realizzati tessuti organici automodellanti, nanorobot curativi e migliaia d'altre cose.»
5 novembre 2005
Alcuni scienziati della Rice University, negli USA, hanno creato il più piccolo mezzo di trasporto mai realizzato. Grande appena 60 atomi di carbonio, la nanomacchina potrà trasportare molecole: v. l' articolo di "Punto Informatico" che ne parla.
In questo sito, si è fatto un accenno ai cosiddetti "robot assemblatori" in uno dei cinque articoli che hanno parlato delle tecnologie GNR (genetica, nanotecnologie, robotica), l'articolo è " L'inevitabile e il desiderabile", del luglio 2004. Per saperne di più sui 5 articoli, si veda, nell'Indice degli argomenti 2004-2005: " Tecnologie GNR (Ingegneria Genetica, Nanotecnologie e Robotica), Meccanismi autoevolventi, Autopropagazione, Autoriproduzione: a partire dalle riflessioni di Bill Joy"
Nuovi materiali: programmare la materia
Si veda l'articolo " Nanoalchimia", dell'ottobre 2003, nel blog KataGene.
Le applicazioni delle nanotecnologie investono diversi settori. Alcune, come quelle destinate a migliorare la nostra capacità di controllare e curare le malattie o di "ripulire" l'ambiente, possono migliorare notevolmente la nostra vita quotidiana e sociale e la loro applicazione sembra ormai ragionevolmente vicina; ma ve ne sono altre che promettono successi nel settore della sicurezza dei veicoli e per le politiche ambientali; si potrebbe ad esempio permettere di ridurre la quantità di acqua necessaria nell'industria e nell'agricoltura, aumentare la nostra capacità di stoccare a basso costo energia (così rendendo più competitiva quella solare), di diminuire la quantità e la pericolosità ambientale dei rifiuti e degli imballaggi. Sono state ipotizzate anche applicazioni più azzardate come la possibilità di inserire nel corpo umano reti di sensori in grado di migliorare drasticamente le nostre abilità mentali, fisiche o sensoriali.
Per comprendere come il tema della Nanotecnologie sia stato trattato in questo sito, si rimanda alla voce " Nanotecnologie", nell'Indice degli Argomenti più recente (Settembre 2004 - Agosto 2005)
Poiché - più in generale - la "nano-tecnologia molecolare", consiste nella abilità di programmare la materia con precisione molecolare, sembra ragionevole ipotizzare, a meno che i nanotecnologi non intendano giocare al piccolo chimico, che le nuove tecnologie siano scevre da quei rischi imputabili all'incertezza dei risultati. E che perciò non ci sia bisogno di alcuna misura precauzionale.
Ma purtroppo non è proprio così. I comportamenti delle molecole nella dimensione dei nano-materiali possono essere molto diversi da quelli in dimensione "macro" e in larga parte sono ancora sconosciuti.
Scrivono Butti e De Biase:
«Un primo significativo profilo di rischio ambientale e sanitario deriva dalla stessa ridottissima dimensione dei materiali in questione [...] alcune nanoparticelle sono più tossiche, per unità di massa, rispetto a particelle più grandi del medesimo prodotto chimico».
Oltre a ciò esistono però altri possibili fattori di preoccupazione indotta dalle applicazioni nanotecnologiche, come l'inserimento di nano-dispositivi nel corpo umano ed altre riconducibili a considerazioni etiche e sociali che vanno dalla tutela della privacy ai possibili usi distorti che possono farne dittatori o Stati senza scrupoli.
Per gli autori del saggio, il Principio di precauzione diventa essenziale perché le potenzialità positive delle nanotecnologie possano svilupparsi pienamente rassicurando l'opinione pubblica di fronte ai rischi ipotizzabili. Purtroppo, a giudizio di Butti e De Biase...
«In Italia i princìpi europei di prevenzione e di precauzione hanno avuto - come anche questo studio documenta - un'applicazione altalenante e non equilibrata».
Un'applicazione che viene definita "isterica", dove il rispetto dell'esame dei fatti e delle più accreditate fonti scientifiche ha lasciato il posto agli interessi ideologici ed elettorali. Esemplare il caso del cosiddetto inquinamento elettromagnetico:
«Nonostante la mancanza - secondo il giudizio di tutta la comunità scientifica più accreditata (e delle stesse istituzioni internazionali competenti) - di qualsiasi significativo ed individuato rischio, tale da giustificare l'applicazione del principio di precauzione, sono state proposte ed approvate normative statali e regionali comportanti elevati costi di "risanamento elettromagnetico": in assenza di un apprezzabile vantaggio per la salute e per l'ambiente e nonostante la drammatica insufficienza delle risorse rese invece disponibili per gestire rischi sanitari ed ambientali assai più concreti».
Rispetto alla versione "forte" del Principio di precauzione (non si può portare avanti un'attività se non vi è la prova che non è nociva) gli autori optano per una versione "attiva" che, rispetto alla versione "rigida" che a volte impone l'inazione (a sua volta con rischi che possono anche essere elevati) consente di scegliere alternative meno rischiose e di assumere responsabilità di fronte ai rischi. Una versione non esasperata del Principio di precauzione presuppone l'attenzione verso alcune condizioni; per esempio l'"effetto galleria", cioè l'eccessiva attenzione verso il lavoro di agenzie ambientalistiche, pubbliche e private, che operano in modo monotematico, così come non bisogna trascurare che a volte un'eccessiva applicazione del Principio di precauzione può determinare rischi maggiori (vedi il bando del DDT o degli OGM nei paesi in via di sviluppo), in altre parole l'applicazione del Principio di precauzione va correlata al Principio di proporzionalità.
Infine, occorre considerare i profili - importanti, ma spesso trascurati in sede di studio del Principio di precauzione - concernenti il grado di conoscenza del rischio da parte dei suoi possibili assuntori. Ciò rimanda alla tematica, spesso trascurata dagli studiosi, dell'analisi costi-benefici.
Gli ultimi due capitoli della prima parte del saggio sono indirizzati sia all'esposizione della normativa europea, delle tendenze negli Usa e alla sua applicazione in ambito italiano, sia a definire i parametri per un Principio di precauzione rivolto sì alle nanotecnologie, ma non solo.
La seconda parte del saggio, che ha come titolo "Il potere della scienza sull'informazione", espone in modo chiaro come la versione "attiva" del Principio di precauzione abbia un presupposto che è fondamentale: il rapporto della scienza con i media.
Scrivono gli autori all'inizio di questa parte:
«L'informazione, di questi tempi, ha bisogno della scienza meno di quanto la scienza abbia bisogno dell'informazione. La scienza non è più soltanto un insieme di discipline che servono ad ampliare le conoscenze umane su come funziona l'universo e le sue componenti: oggi la scienza modifica l'universo. Il rapporto tra scienza e società si fa dunque più complesso, perché un tempo si poteva anche credere davvero all'autonomia della ricerca scientifica dalle forme di pensiero meno controllate e controllabili, come le credenze popolari o i sistemi mediatici, mentre oggi l'intreccio è ben più nodoso. Sicché oggi la scienza è paragonabile a un grande ecosistema nel quale i ricercatori e gli scienziati sono una componente non totalitaria e che per svilupparsi equilibratamente ha bisogno di un contesto educativo capace di appassionare i giovani, di un meccanismo efficiente di selezione e reclutamento dei migliori talenti, ovunque essi siano, di un'industria in grado di trasformare la ricerca in tecnologia, prodotti e servizi».
L'intreccio fra scienza, tecnologia e società richiede alla scienza di essere credibile verso il grande pubblico. Solo se la scienza mostra di essere sicura e utile essa può accedere agli ingenti finanziamenti di cui ha bisogno.
E' nella consapevolezza da parte degli uomini di scienza che occorre uno sforzo maggiore...
«per spiegare al resto della società come funziona il mondo della ricerca».
Infatti, se la scienza vuole essere autonoma rispetto ai condizionamenti del mondo politico essa deve essere capace di attivare un rapporto di fiducia e comunicazione con il grande pubblico. In questo contesto l'informazione va vista come risorsa strategica e perciò va gestita come tale, imponendo agli scienziati nuovi obblighi e doveri:
«In realtà, occorre un approccio umano all'informazione scientifica, il che si comprende meglio quando si pensa che attraverso i media si parla ai network sociali, alle persone, a gente in carne e ossa. Non promettere quello che non si sa se si può mantenere è una buona regola quando si parla con gli altri: perché non dovrebbe valere anche parlando con i media? Ma anche raccontare con precisione e approccio proattivo quello che si sta scoprendo è una buona regola: il segreto non è adatto a una società aperta, democratica, critica, preoccupata del futuro e incessantemente protesa a costruirne una migliore.
Insomma: il primo compito degli esperti di scienza e tecnologia quando hanno a che fare con i media è quello di informare nel modo più umano, diretto e veritiero su quello che sanno. Ma c'è un altro passaggio, persino più delicato. Quegli stessi esperti, per i giornali, diventano autorità in grado di testimoniare non solo sui risultati delle loro ricerche ma anche sull'opinione diffusa nel mondo scientifico e tecnologico riguardo a temi sociali e culturali più ampi. Sono considerati in questo modo come delle autorità anche su argomenti che normalmente gli esperti chiamati in causa non considererebbero propri della loro specializzazione. La buona norma, in questo caso, è quella di pensare non solo alla ristretta specificità del proprio filone di ricerca ma anche alle conseguenze sociali e culturali delle proprie scoperte per essere aperti a parlarne, in base a quanto effettivamente conosciuto e non in base a informazioni raffazzonate. È l'insieme della società che chiede agli scienziati di uscire dal guscio della specializzazione».
Grazie al Principio di precauzione...
«la scienza della responsabilizzazione si affianca alla scienza delle cause»,
con questo decretando, almeno nei rapporti fra scienza e società, la fine dell'iperspecializzazione come alibi per rifugiarsi in improbabili principi cautelari difficilmente giustificabili. La società democratica richiede una nuova alleanza fra politici e scienziati, nuova alleanza basata sul presupposto di una informazione equilibrata attraverso cui superare le incomprensioni fra un potere politico a volte incapace di assumersi le sue responsabilità di fronte all'innovazione e una scienza spesso incapace di comprendere le ragioni della società.
Consiglierei di regalare questo libro a qualche opinion maker, scienziato o politico. Per parte mia l'ho già fatto: a voi scegliere fra un ambientalista intransigente o un ricercatore iperspecialista.
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A favore del Principio di precauzione per far fronte ai possibili rischi del Riscaldamento globale [18/09/05]
( 16 Settembre 2005 )
( scritto da
Luciano Butti
)
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Tratto dal mio libro Principio di precauzione e ambiente. Come difendersi senza farsi troppo male, che uscirà tra la fine del 2005 e l'inizio del 2006, il paragrafo nel quale si esamina il rapporto fra il principio di precauzione e le problematiche collegate all'effetto serra: "Estati che scottano: il difficile caso del riscaldamento globale tra Principio di Precauzione e strategia 'No-Regrets'".
Segue l'indice del volume.
PRINCIPIO DI PRECAUZIONE E AMBIENTE
di Luciano Butti
Avvocato
Docente
di diritto internazionale dell’ambiente presso l’Università
di Padova
(Facoltà
di Ingegneria – Corso di laurea di Ingegneria ambientale)
www.buttiandpartners.com
SOMMARIO
Introduzione
I. LA PRECAUZIONE COME IDEA
I.1) Rischio, incertezza della scienza e Precauzione
I.2) "L'ambientalista scettico": anche l'emergenza ambientale è incerta
I.3) "Better Safe than Sorry": un'idea apparentemente ovvia
I.4) La "precauzione" nel linguaggio e nella percezione dell'opinione pubblica
II. LA PRECAUZIONE COME PRINCIPIO GIURIDICO
II.1) Diritto internazionale
II.2) Diritto comunitario
II.3) Diritto italiano
II.4) Precauzione rigida o precauzione attiva? La posizione della Commissione europea
II.5) "Effetto galleria", "Risk Tradeoff" e rapporto dose-rischio (relazione lineare, soglia, effetto ormetico)
II.6) Precauzione e proporzione
II.7) Precauzione e analisi costi-benefici
II.8) Precauzione e procedure: l'esempio della tracciabilità
III. LE REGOLE AMBIENTALI E IL PRINCIPIO DI PRECAUZIONE: ERRORI IN ENTRAMBE LE DIREZIONI
III.1) Principio di precauzione e normativa sulle bonifiche dei siti contaminati
III.1.1 Applicazione estrema del principio: l'acqua è potabile, ma contaminata...
III.1.2 Applicazione insufficiente del principio: la contaminazione nascosta per legge
III.2) Principio di Precauzione ed inquinamento atmosferico ed elettromagnetico
III.2.1 Danni da elettrosmog: "Non esistono, ma ci crediamo"
III.2.2 Danni da fumo, radon e traffico: "Esistono, ma non adottiamo tutte le necessarie cautele"
III.2.3 Estati che scottano: il difficile caso del riscaldamento globale tra Principio di Precauzione e strategia "No-Regrets"
III.3) Bizzarrie da insufficiente precauzione: il mercurio in bocca
III.4) Possibili danni da eccessiva precauzione: fa più male il DDT o la malaria?
III.5) Indecisioni della precauzione: il caso dell'utilizzo in agricoltura dei fanghi di depurazione
III.6) Le Corti comunitarie e la Corte costituzionale di fronte al Principio di Precauzione
IV. UN CASO DI STUDIO: PRINCIPIO DI PRECAUZIONE E NANOTECNOLOGIE
IV.1) Cosa sono le nanotecnologie
IV.2) Le straordinarie opportunità applicative
IV.3) I rischi ipotizzabili
IV.4) Linee guida per lo sviluppo delle nanotecnologie nel quadro del principio di Precauzione
V) CONSIDERAZIONI FINALI
V.1) Il giurista del nuovo millennio come utente della scienza ed esperto di "peer review"
V.2) "Piccolo non è più bello": dal Principio di Precauzione nuove responsabilità per le Agenzie tecnico-scientifiche nazionali ed europee
V.3) Né "arbitrario" né "capriccioso": il Principio di Precauzione eleva l'equilibrio a dovere costituzionale degli Stati europei
Bibliografia
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[18/09/05]
Da: Gian Maria Borrello (18 settembre 2005)
In relazione alla seguente osservazione che Luciano Butti fa nel testo "Estati che scottano...", paragrafo del suo libro di prossima pubblicazione e da qui raggiungibile...
«Probabilmente nel 2100 l'ulteriore riscaldamento sarà di circa 3 gradi, dunque nella metà inferiore dell'ambito di ipotesi formulato da IPPC (v. nota [*]), ma i modelli matematici oggi disponibili non ci consentono di escludere il rischio di un aumento maggiore.
[*] Le più recenti previsioni IPCC per il 2100 variano da un aumento minimo compreso fra uno e due gradi ad un aumento massimo compreso fra cinque e sei gradi.
[...] sappiamo che, secondo la Comunicazione 2 febbraio 2000 della Commissione, l'applicazione del Principio di precauzione richieda sempre la presenza di un rischio (incerto, ma) individuato»
...mi pare utile richiamare quanto dice Marino Gatto, Professore ordinario di Ecologia al Politecnico di Milano, riguardo alla corretta interpretazione della previsione e dell'incertezza:
«La stragrande maggioranza degli studi condotti da centinaia di scienziati (fisici, chimici, ecologi, oceanografi, ecc.) con le più diverse idee politiche indica che, se non vengono presi solleciti provvedimenti, entro il 2040 la temperatura media della superficie terrestre sarà aumentata di almeno (notate almeno !) un grado con una probabilità del 90%. La vera incertezza è sull aumento massimo, che potrebbe raggiungere i due gradi e mezzo. Un grado può sembrare poco, ma dal punto di vista climatico corrisponde a spostare la latitudine dai tropici ai poli di circa 10 gradi. E comunque quello che succederà effettivamente nel 2100 dipenderà anche dalle politiche ambientali condotte a livello planetario. Se passerà la linea Crichton dobbiamo aspettarci una terra piuttosto calda!».
Le parole di Gatto sono tratte dalla sua risposta a un articolo con cui il Corriere della Sera, lo scorso gennaio, aveva dato ampio spazio all'ultimo romanzo di Michael Crichton, "Stato di paura", e alle tesi in esso sostenute. Il testo scritto da Gatto è "Michael Crichton: esempio di catastrofismo antiambientale" (documento in formato PDF, nel sito del WWF).
Il quotidiano La Repubblica, quasi in contemporanea, diede a sua volta risalto ad autorevoli opinioni contrarie a quella di Crichton, segnalando peraltro il dibattito apertosi nel Web a partire dal sito del WWF.
Nel blog "Tout se tient" ripercorro appunto questo dibattito.
Ancora, nel testo di Luciano Butti, alla nota 15, si legge:
«Nel caso dell'effetto serra i costi delle misure volte alla riduzione dei gas sono assai elevati. Ciò non significa che -- secondo il punto di vista dei critici -- sia comunque meglio risparmiare denaro piuttosto che subire le possibili consegue dell'effetto serra. Il problema è un altro ed è assai impegnativo: quali altre e diverse politiche (lotta alla fame, alla povertà e alle malattie, sviluppo della risorsa idrica nel mondo, ecc.) sarebbero astrattamente possibili con le stesse risorse necessarie per contenere i gas serra? Quale impiego di queste risorse è il più efficiente?»
A riguardo può essere interessante la posizione espressa da Tony Blair, in occasione dell'assunzione della presidenza del G8, in un'intervista del 29 dicembre scorso all'Economist:
«I due obiettivi di evitare il riscaldamento globale e di avere acqua pulita non sono mutuamente esclusivi: Senza un clima stabile sarà impossibile affrontare altre minacce ambientali e ci assicureremo un futuro con acque e suoli più degradati (Without a stable climate, addressing other environmental threats will be impossible, ensuring a future of more degraded water and land)».
(brano tratto dallo stesso documento di Marino Gatto, già citato sopra).
(La posizione del Governo britannico si trova ricordata anche nell'articolo di David Adam, corrispondente scientifico di The Guardian, del 27 gennaio, "Oil firms fund climate change 'denial'":
«Tony Blair yesterday attempted to urge George Bush to sign a climate change accord. At the World Economic Forum he said climate change was "not universally accepted", but evidence of its danger had been "clearly and persuasively advocated" by a very large number of "independent voices".»)
Sottolineo anche che Luciano Butti, nel suo testo, segnala come appaia...
«di eccezionale rilievo la recente iniziativa del Governo del Regno Unito, che ha avviato un programma scientifico ad altissimo livello mirante proprio a determinare quale sia il livello di riscaldamento atmosferico effettivamente "pericoloso": nella convinzione che -- se il programma avrà successo -- le iniziative di contenimento miranti a scongiurare il superamento di tale livello appariranno a tutti "proporzionate" e potranno perciò guadagnare il sostegno anche dei Paesi (come U.S.A., Cina ed India) sino ad oggi non coinvolti dal Protocollo di Kyoto»
... indicando, in nota, la fonte informativa www.stabilisation2005.com
Infine, in merito al richiamo al romanzo di Michael Crichton fatto da Luciano Butti nel suo post precedente, osservo che la questione del problema mondiale al quale dare la precedenza (lotta alla fame, risorse idriche, ecc.) costituisce anche un'argomentazione, artatamente addotta da Crichton, ma in senso contrario alle conclusioni a cui Butti perviene. Sarà soltanto un romanzo, ma (a parte il fatto che l'autore non è "soltanto" un romanziere) andrebbe considerato che si tratta di un "best seller" (più o meno) e che il suo genere letterario può rendere un buon servizio a chi è contrario alle tesi ambientaliste, essendo un medium funzionale alla diffusione capillare di un certo "état d'esprit".
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Il paradigma del rapporto tra uomo e natura
( 15 Settembre 2005 )
( scritto da
Claudio Tugnoli
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Il volume di saggi Antropocentrismo e biocentrismo. Due paradigmi a confronto, a cura di Maria Antonietta La Torre, è concepito come contributo alla comprensione dei temi di fondo dell'ambientalismo contemporaneo.
Maria Antonietta La Torre (a cura di), Antropocentrismo e biocentrismo. Due paradigmi a confronto, Hybris, Bologna 2004, pp. XVI - 126, euro 15,00.
La riflessione sui danni ambientali provocati dallo sviluppo della scienza e della tecnica, nonché dallo sfruttamento indiscriminato delle risorse energetiche del pianeta, ha contribuito negli ultimi decenni a una revisione del rapporto tra l'uomo e la natura e alla ricerca di un nuovo paradigma. La prospettiva antropocentrica è stata sempre più bersaglio di critiche, perché ritenuta storicamente responsabile degli effetti devastanti provocati nel pianeta dall'opera dell'uomo (estinzione di numerose specie di viventi e diminuzione progressiva della biodiversità, mutamenti climatici, distruzione di equilibri ecosistemici, ecc.). Il paradigma biocentrico è così divenuto il nuovo criterio di valutazione riguardo al ruolo dell'umanità e al suo destino sulla terra. Un autentico antropocentrismo non può che essere biocentrico, giacché la stessa vita dell'uomo poggia interamente sulla rete infinita di rapporti con gli altri esseri viventi.
La responsabilità nei confronti delle altre specie
Come osserva Maria Antonietta La Torre nell'Introduzione al volume, il vecchio antropocentrismo si fonda sul razzismo rispetto alle altre specie viventi. L'uomo è considerato il solo fine, mentre le altre specie di viventi sono semplicemente un mezzo per il soddisfacimento dei suoi bisogni. L'opposizione è forse troppo schematica, giacché va riconosciuto che, se i bisogni dell'uomo sono intesi in modo corretto e profondo, l'antropocentrismo non perde la sua validità teoretica e pragmatica, a condizione che consista nell'assunzione, da parte dell'uomo, di una precisa responsabilità nei confronti delle altre specie. Vorremmo ricordare che anche i più strenui assertori del biocentrismo anti-antropocentrico si trovano comunque nella necessità operativa di conferire all'umanità il potere e il ruolo di intervenire per promuovere la realizzazione delle finalità che si raccomandano come positive e irrinunciabili.
Bruno Lauretano denuncia "il carattere esclusivo e discriminatorio" dell'umanesimo. L'antropocentrismo vanta una lunga tradizione. Nella filosofia greca, secondo Lauretano, sono presenti tratti che sono riconducibili sia alla visione antropocentrica sia a quella cosmocentrica. Nel cristianesimo l'interesse dell'uomo per gli altri esseri viventi è puramente strumentale, come dimostra la predilezione assoluta di Dio per l'uomo in cui si è incarnato, tuttavia il francescanesimo rappresenta una rottura significativa rispetto a tale impianto fondamentale. In tal modo Laureano può indicare due anime del cristianesimo: «l'una antropocentrica, l'altra orientata verso la logica creaturale e cosmocentrica» (p. 5). L'arroganza antropocentrica dell'uomo ha dominato per millenni; l'umanesimo, l'ebraismo e la scienza moderna si sono alleati nel perseguimento dello stesso scopo: soggiogare la natura. Perché meravigliarsi, si chiede Laureano, dei disastri ambientali e del collasso generale del sistema-ambiente? Finché la natura appariva come una risorsa illimitata l'uomo non era costretto a prendere coscienza del proprio "delirio di onnipotenza" e l'umanesimo poteva ignorare le proprie inclinazioni anti-umanistiche e autodistruttive. Ora non più. Le osservazioni di Lauretano giungono a conferma di un'autorevole tradizione critica che si è affermata nel campo della bioetica, della ecoetica e della zooantropologia. La nuova etica del vivente ha bisogno di un nuovo paradigma, che al modo dell'antico pitagorismo metta in primo piano l'intreccio e la parentela profonda di tutti i viventi, non per l'affermazione retorica di un astratto universalismo etico, ma per ragioni profondamente vitali. L'etica deve rispecchiare l'ordine oggettivo, deve possedere un fondamento ontologico.
La tesi di Lauretano che nessuno ha diritto di stabilire quali esseri hanno il diritto ad esistere si propone come rimedio contro l'antropocentrismo, ma di fatto risulta astratta (perché in natura i rapporti tra le specie si decidono in modo darwiniano, come dimostra l'estinzione di numerose specie in epoca anteriore alla comparsa dell'uomo sulla terra) e contraddittoria (perché di fatto la concezione biocentrica non sospende il giudizio, ma invoca un criterio non antropocentrico nella risposta alla domanda posta). La posizione dell'uomo è di per sé ambigua e paradossale. Egli fa parte della natura, ma al tempo stesso se ne distingue. Nella misura in cui ne fa parte è indotto a richiedere la legittimazione del suo comportamento in quanto dettato dalle regole e dalle caratteristiche della specie di appartenenza. Nella misura in cui se ne distingue si attribuisce il compito di determinare l'ordine al quale tutte le specie devono essere subordinate, l'equilibrio tra le specie che a tutti i costi deve essere conservato nel suo stesso interesse, anche a costo di dimenticare che la storia della terra annovera l'apparizione incessante di nuove specie, in ragione del mutamento, talvolta catastrofico, subito dagli habitat del pianeta. L'affermazione della profonda parentela di tutti i viventi, di per sé inconfutabile, non sembra però fornire, da sola, indicazioni normative sul giusto comportamento dell'uomo nei confronti della natura. Anche l'etica biocentrica è il risultato dell'elaborazione dell'uomo, l'effetto di una decisione in qualche modo antropocentrica.
Noi contro l'ambiente; noi contro gli altri uomini; è il singolo (o la singola compagnia, o la singola nazione) che conta; possiamo avere un controllo unilaterale sull'ambiente e dobbiamo sforzarci di raggiungerlo; viviamo all'interno di una frontiera che si espande all'infinito; il determinismo economico è cosa ovvia e sensata; la tecnica ci permetterà di attuare tale determinismo economico
Pasquale Giustiniani discute la posizione del teologo Jürgen Moltmann e ne coglie le convergenze con l'analisi di Gregory Bateson, che già nel 1972 (Verso un'ecologia della mente) aveva esposto le idee dominanti della nostra civiltà responsabili dell'inevitabile distruzione dell'ambiente e dell'umanità. L'elenco di tali idee è il seguente: noi contro l'ambiente; noi contro gli altri uomini; è il singolo (o la singola compagnia, o la singola nazione) che conta; possiamo avere un controllo unilaterale sull'ambiente e dobbiamo sforzarci di raggiungerlo; viviamo all'interno di una frontiera che si espande all'infinito; il determinismo economico è cosa ovvia e sensata; la tecnica ci permetterà di attuare tale determinismo economico (p. 70). La salvezza dell'umanità dipende secondo Moltmann dalla comprensione del Dio trino come Dio comunitario, «il quale apre dunque alla comunione con gli altri, per gli altri e negli altri; difatti tutto esiste da Lui e mediante Lui, ma anche tutto esiste "in" Lui: si tratta di percepire lo Spirito divino presente nelle cose (con relativa sostituzione dell'immagine atomistica e meccanicistica del mondo mediante un'immagine organica ed energetica)» (p. 72). Perciò l'umanità potrà salvarsi solo a condizione di reinterpretare la tradizione teologica.
Roberto Marchesini avverte che troppi attacchi all'antropocentrismo sono condotti in modo acritico, dimenticando che la difesa del biocentrismo è possibile solo partendo dalla dimensione antropocentrata dell'ente stesso che studia il rapporto tra umano e non umano. Partendo dal concetto di ibridazione e all'interno di una concezione post-umanistica alla quale egli ha dato un contributo teorico di assoluta rilevanza, Marchesini interpreta il rapporto tra umano e non umano con la categoria dell'ospitalità: la "soglia antropocentrica" è il luogo in cui il non umano è ospitato dall'umano e a sua volta lo ospita.
L'alterità animale non è più concepita come un ostacolo alla realizzazione dell'uomo e alla costruzione della sua cultura, bensì quale condizione della stessa evoluzione culturale
L'alterità animale non è più concepita come un ostacolo alla realizzazione dell'uomo e alla costruzione della sua cultura, bensì quale condizione della stessa evoluzione culturale. La rivoluzione post-umanistica è tutta in questo mutamento del ruolo attribuito al referente animale nel processo di civilizzazione: «da strumento/oggetto o luogo del rifiuto da cui ci si deve allontanare, il referente non-umano si è trasformato in un partner in grado di incentivare lo sviluppo conoscitivo e con cui ci si deve ibridare se si desidera uscire dagli ostacoli epistemologici propri del pensiero antropocentrato» (p. 89).
La cultura non è il risultato di un processo autarchico in cui l'uomo si è distanziato progressivamente dall'alterità animale. Il paradigma umanistico della separatezza ha dominato incontrastato per gran parte del Novecento, svelando però alla fine la sua inconsistenza. Lo sgretolamento dell'antropocentrismo, l'idea che l'uomo sia misura e fine dell'universo, ha permesso di comprendere in profondità il significato del non umano e il ruolo di protagonista dell'animale nella costruzione della cultura. L'uomo deve la sua cultura non alla negazione del non umano, bensì all'alleanza con le altre specie
All'interno di questo sito si veda:
Post Human in Indice 2002 - 2003
La cultura non è il risultato di un processo autarchico in cui l'uomo si è distanziato progressivamente dall'alterità animale. Il paradigma umanistico della separatezza ha dominato incontrastato per gran parte del Novecento, svelando però alla fine la sua inconsistenza. Lo sgretolamento dell'antropocentrismo, l'idea che l'uomo sia misura e fine dell'universo, ha permesso di comprendere in profondità il significato del non umano e il ruolo di protagonista dell'animale nella costruzione della cultura. L'uomo deve la sua cultura non alla negazione del non umano, bensì all'alleanza con le altre specie. L'animale è stato da sempre motore e grande protagonista della cultura; l'uomo, apparso per ultimo sulla terra, ha subito fatto dell'animale il suo maestro: «l'imitazione, il confronto, la partnership sono state le vie che hanno consentito al modello animale di forzare l'etologia umana dando vita a un sistema meticciato e aperto» (p. 90). L'animale non è ciò da cui l'uomo deve emanciparsi per conseguire la cultura, bensì l'altro polo del dialogo, della contaminazione e dell'ibridazione. Il post-umanesimo, così radicalmente provocatorio, riprende in fondo l'insegnamento del totemismo, reinterpretando la referenza animale come repertorio di modelli al quale l'uomo ha potuto attingere per creare nuove forme di esistenza. In questa prospettiva antropocentrismo e biocentrismo appaiono convergenti e non in rapporto di esclusione reciproca, giacché se la cultura è il risultato dell'interazione dei due poli, dell'umano e del non umano, nessuno dei due può esistere né essere concepito senza l'altro. Il post-umanesimo rappresenta il modo migliore per mettere in guardia dalla scomparsa delle specie viventi e dalla distruzione del non umano, perché nessuna cultura è possibile senza l'interazione profonda con il non umano.
Claudio Tugnoli ( Scheda biografica nel sito mondodomani.org)
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Sul Principio di precauzione: intervento
( 11 Settembre 2005 )
( scritto da
Luciano Butti
)
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Questo intervento di Luciano Butti si riferisce al dialogo aperto da Gian Maria Borrello, nel blog "Tout se tient", con riguardo al tema svolto da Daniele Navarra in tre suoi recenti articoli pubblicati nel blog a sua cura, "Innovation, Risk and Governance", nel sito della Fondazione Bassetti:
Per tutti i riferimenti, si veda l'articolo pubblicato il 23 agost nella sezione "Argomenti" del sito della Fondazioneo: " Governance dell'innovazione scientifica e tecnologica: decisioni politiche".
Per facilitare la lettura del presente intervento di Luciano Butti, i precedenti di Borrello, Navarra e Zucca, che sono stati pubblicati nel blog "Tout se tient", sono qui riuniti, in ordine cronologico, in
un'unica pagina
(fai clic sul link per vederli in una finestra a sè stante).
Ho letto le stimolanti osservazioni di Daniele Navarra, Gavino Zucca e Gian Maria Borrello sul Principio di Precauzione.
Non mi pronuncio sugli aspetti più strettamente filosofici, che ovviamente sono laterali rispetto alle mie competenze, se non per condividere il riferimento all'etica della responsabilità di JONAS. Del resto, non si può non condividere il punto di vista di questo filosofo, quando scrive, in modo sintetico e persino lirico: "la responsabilità è la cura per un altro essere quando venga riconosciuta come dovere.... Che cosa capiterà a quell'essere, se io non mi prendo cura di lui? Quanto più oscura risulta la risposta, tanto più nitidamente delineata è la responsabilità".
Il problema diviene tuttavia più complesso quanto vengono in considerazione, da un lato, le pressioni e le paure (non sempre giustificate) dell'opinione pubblica, e dall'altro le regole giuridiche.
Quanto al primo aspetto (pressioni e paure dell'opinione pubblica), decine di studi obiettivi (cito per tutti il volume di un grande giurista "liberal" americano: BREYER Stephen., Breaking the Vicious Circle. Toward Effective Risk Regulation, Harvard University Press, 1993) dimostrano inequivocabilmente che "sometimes people are fearful when they ought not to be, and sometimes they are fearless when they should be frightened" (SUNSTEIN Cass R., Laws of Fear. Beyond the Precautionary Principle, Cambridge University Press, 2005). Sono ben consapevole che -- come scrive Gian Maria Borrello -- la scienza non è tutto, e che il processo democratico richiede di coinvolgere e ascoltare le voci di tutti: ma occorre anche preoccuparsi di non finire sotto l'elefante, di cui parla la favola indiana citata da Gavino Zucca.
Quanto al secondo aspetto, non bisogna dimenticare che ogni regola giuridica (e, particolarmente, ogni divieto) ha i propri (spesso consistenti) "Trade-Off": in altre parole, le proprie controindicazioni. Solo a titolo di esempio, ricordo che innumerevoli studi (fra i molti: TREN Richard e BATE Roger, Malaria and the DDT Story, IEA Research Paper No. OP 117, in www.ssrn.com/abstract=677448) dimostrano (anche in questo caso, "oltre ogni ragionevole dubbio") che il bando mondiale del DDT insistentemente richiesto dagli ambientalisti avrebbe direttamente cagionato la morte per malaria di un numero rilevante di persone nei Paesi in via di sviluppo. In cambio, si sarebbe rallentata l'estinzione di alcune specie di uccelli. Fortunatamente, la Convenzione di Stoccolma del 22 maggio 2001 sugli inquinanti organici persistenti ha respinto la richiesta di proibizione immediata del DDT nei Paesi in via di sviluppo.
[18/09/05]Sul dibattito apertosi riguardo alle tesi, che alcuni ritengono pilotate, sostenute da Crichton nel suo ultimo romanzo, si veda il commento di Gian Maria Borrello all'interno del post che ha fatto seguito a questo.
Non è del resto solo Michael CRICHTON ("State of Fear", che ovviamente è un romanzo e va letto soprattutto come tale), ma anche tutta la scienza più autorevole a spiegare: "Non possiamo impedire che l'ambiente si modifichi e che le specie si estinguano. Quello che possiamo fare è cercare di agire sulla velocità di estinzione e sulla direzione del cambiamento in modo tale da rendere la vita più accettabile per gli esseri umani.Quello che non possiamo fare è mantenere le cose nella condizione attuale" (LEWONTIN Richard C., Gene, organismo e ambiente, Laterza, 2002): soprattutto, aggiungerei, se il prezzo da pagare è in termini di vite umane.
Precisamente a causa dei due problemi che ho segnalato (paure infondate dell'opinione pubblica e inevitabili controindicazioni dei divieti giuridici) il Principio di Precauzione si trova oggi sul banco degli imputati. La mia opinione è che la necessaria difesa del Principio di Precauzione, nei suoi fondamenti culturali e giuridici, richieda in primo luogo di tener conto delle buone ragioni dei suoi detrattori.
Conseguentemente, il Principio di Precauzione deve essere chiaramente coordinato (anche a livello giuridico) con:
- il Principio di Proporzione;
- l'analisi costi-benefici (considerata anche sotto il profilo qualitativo);
- la necessità di tenere conto anche dei possibili effetti negativi di determinate misure precauzionali.
Soltanto in questo modo, la disciplina giuridica del Principio di Precauzione raggiungerà il proprio vero obiettivo: che è quello di fornire le regole metodologiche ed il contesto formale tali da consentire che -- secondo la felice espressione di Daniele Navarra -- la politica possa effettivamente essere un luogo di (efficiente) riconciliazione.
Luciano Butti, Avvocato, è Docente di diritto internazionale dell'ambiente presso l'Università di Padova
(Facoltà di Ingegneria - Corso di laurea di Ingegneria ambientale) - www.buttiandpartners.com
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L'innovazione secondo Cavalli Sforza
( 8 Settembre 2005 )
( scritto da
Claudio Tugnoli
)
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Il testo L'evoluzione della cultura. Proposte concrete per studi futuri, di
Cavalli Sforza, è interessante perché esprime la concezione che un genetista
ha dei processi culturali; dimostra, se ancora ce ne fosse bisogno, che il
concetto di evoluzione per selezione e adattamento possiede una potenza
esplicativa che lo rende praticamente insostituibile; e ricorda che anche gli
animali hanno una cultura.
Luigi Luca Cavalli Sforza, L'evoluzione della cultura. Proposte concrete per studi futuri, Codice edizioni, Torino 2004, pp. 145.
Il linguaggio ha permesso all'umanità quell'accumulo di esperienze, conoscenze, tecniche e innovazioni che va sotto il nome di cultura. Pur essendo divenuta ormai molto più di un'ipotesi di lavoro presso la comunità degli scienziati, l'evoluzione deve fare i conti con il fatto che le sue leggi non possono essere accertate con il metodo sperimentale. Infatti ogni processo evolutivo, pur essendo un fatto, è irreversibile e questo impedisce a priori la possibilità di effettuare esperimenti. Sotto questo aspetto le scienze storiche, la storia della terra, l'astronomia e la storia dell'universo si trovano in condizioni simili. Pur essendo l'evoluzione culturale in larga misura indipendente da quella biologica, non è del tutto esclusa la possibilità, avverte Cavalli Sforza, che determinate differenze culturali siano influenzate da differenze genetiche. Tale influenza risulta perfettamente evidente se si mettono a confronto le diverse specie animali con il genere umano. Ma l'indipendenza della cultura umana dai geni è dimostrata dalla capacità della cultura di influenzare l'evoluzione genetica. L'evoluzione culturale è determinata dal successo che registrano le innovazioni, ma è evidente che anche le società apparentemente statiche sono soggette a un cambiamento continuo. L'avversione degli umanisti nei confronti dell'espressione "evoluzione culturale" dipende dal pregiudizio contro la scienza, che umanisti disinformati considerano priva di valore conoscitivo e asservita al potere politico. L'importanza della cultura non è diminuita, ma accresciuta dal fatto che essa esiste anche presso gli animali, pur essendosi sviluppata al massimo grado solo tra gli esseri umani. La differenza fondamentale è data da quell'unicum che è il linguaggio, ma numerose esperienze con gli animali, programmate o spontanee, hanno dimostrato che, a vari gradi, gli animali non umani sono in grado di apprendere (i segnali di allarme, le tecniche per procurarsi il cibo, ecc., sono appresi da molte specie di mammiferi e uccelli al loro ingresso nella vita sociale). Anche gli animali comunicano tra loro, permettendo così in qualche misura l'apprendimento e la trasmissione culturale, per quanto in misura molto più modesta che presso la specie umana. L'idea che il comportamento delle specie animali si trasmetta da una generazione all'altra senza alcun mutamento è stata smentita da osservazioni sperimentali che hanno registrato numerosi casi di innovazione che in alcune colonie di animali non umani si sono diffuse rapidamente per imitazione (pp. 18-20).
Ovunque sulla terra la vita in tutte le sue manifestazioni presenta la capacità di riprodursi generando figli che sono identici ai genitori; il rimescolamento del patrimonio genetico dei due genitori comporta variazioni e mutazioni che si affermano e si diffondono nella misura in cui il mutante ha maggiori probabilità di sopravvivere e di avere discendenti. Lo stesso meccanismo di selezione in base al criterio del più adatto funziona anche nel caso delle culture, solo che, a differenza dell'evoluzione biologica, l'evoluzione culturale è di tipo lamarckiano, giacché «le "mutazioni" che avvengono nell'evoluzione culturale, cioè le innovazioni e le invenzioni che vengono trasmesse culturalmente, non sono ereditate necessariamente dai figli, ma possono essere ereditate anche da qualche altro membro della società» (p. 26). Inoltre la mutazione culturale, l'invenzione, non è un fenomeno indipendente dalla volontà e la sua trasmissione avviene in modo molto più veloce rispetto al passaggio da genitori a figli, che invece è obbligato per la diffusione della mutazione biologica. L'evoluzione biologica e quella culturale sono quindi governate da due meccanismi distinti, ma possono influenzarsi reciprocamente, fenomeno questo denominato "coevoluzione biologico-culturale".
Lo studio della genetica delle popolazioni e la correlazione tra aree linguistiche e distribuzione delle aree geneticamente omogenee ha permesso di accertare che le differenze genetiche tra uomini di continenti diversi sono infime. Sappiamo fin troppo bene che il razzismo è tanto privo di fondamento quanto è antico e universale. Con l'ausilio di una lingua particolare, esso è al fondo del nazionalismo in tutte le sue forme - nazionalismo al quale Cavalli Sforza riconosce la funzione originaria di difendere la comunità e i suoi confini dalle pressioni esterne. È molto probabile che il culto della lingua come fattore di identità nazionale spieghi la duratura e profonda avversione della linguistica nei confronti della stessa nozione di origine ed evoluzione del linguaggio. Il razzismo ha sempre difeso e promosso l'uniformità della popolazione sotto ogni aspetto, mentre la scienza oggi ha definitivamente dimostrato che la sopravvivenza dei gruppi umani e dell'umanità in generale è assicurata non dall'omogeneità, bensì dalla varietà genetica, che produce mutazioni casuali, molte delle quali saranno utili in circostanze nuove (p. 48).
L'innovazione svolge nell'evoluzione culturale la stessa funzione della mutazione, ma nel caso della cultura la selezione è doppia. La prima selezione è quella culturale e si verifica quando un'innovazione è consapevolmente accettata o respinta. A differenza dell'innovazione, l'invenzione è un fenomeno motivato dall'esigenza di soddisfare un bisogno reale. Naturalmente la capacità dell'invenzione di soddisfare un bisogno ne assicura la rapida diffusione e generalizzazione (p. 71). Cavalli Sforza propone di definire la cultura "un meccanismo di adattamento all'ambiente straordinariamente efficiente". L'adattamento all'ambiente per via genetica è molto lento, ma non è auspicabile alcuna manipolazione genetica che vada oltre i geni somatici. Va quindi respinto ogni programma eugenetico, principalmente per il fatto che non siamo in grado di giudicare buoni o cattivi i geni, tranne che in casi molto limitati, quelli in cui è possibile collegare univocamente determinati geni a malattie di particolare gravità. Cavalli Sforza sostiene che «il ragionamento morale suggerisce fortemente di limitarsi a imitare quello che già fa la selezione naturale, cioè sopprimere le malattie con l'interruzione precoce della gravidanza, solo su richiesta dei genitori o almeno della madre, nelle situazioni in cui il nascituro sarebbe comunque destinato a non riprodursi o a patire e arrecare alla famiglia sofferenze troppo gravi» (pp. 77-78).
Con il termine "totipotenza" Cavalli Sforza indica la flessibilità della cultura come meccanismo biologico di adattamento che ci consente di applicare qualunque idea utile e a escogitare soluzioni adeguate dei problemi che via via si presentano. Il linguaggio è giustificato dall'uso nella comunicazione tra gli esseri umani e tra gruppi diversi; l'evoluzione linguistica comporta una differenziazione tra lingue vicine che è tanto maggiore quanto minore è la necessità dei gruppi interessati di comunicare tra loro. A sua volta la differenziazione linguistica riduce la frequenza degli scambi e aumenta quindi le differenze culturali tra i gruppi umani. La differenza culturale tra gruppi è maggiore di quella che sussiste tra individui all'interno dello stesso gruppo, un fenomeno opposto a quello che si verifica sul piano genetico: la differenza di variazione genetica tra diverse popolazioni è minore rispetto a quella che si registra all'interno di ciascuna popolazione. La differenza tra variazione culturale e genetica può essere motivata dal fatto che, se ogni gruppo trae vantaggio dalla massima coerenza culturale al proprio interno, è vantaggioso per il gruppo che la variazione genetica sia mantenuta al livello più elevato possibile, condizione che presuppone e incoraggia l'interfertilità accertata tra gruppi umani anche molto lontani dal punto di vista delle loro caratteristiche genetiche (p. 79). Tali circostanze rappresentano un argomento che di per sé incoraggia l'emigrazione, la tolleranza e gli interscambi sia culturali che matrimoniali. Il parallelismo tra la trasmissione genetica e quella culturale mostra un'analogia interessante tra i geni che si autoriproducono variando pochissimo nel tempo e certi tratti culturali che dimostrano un'elevata persistenza nel tempo e che, erroneamente, possono essere scambiati per effetti dell'eredità genetica, portando spesso a meccaniche conclusioni razziste. L'evoluzione culturale è influenzata dall'evoluzione genetica, poiché la costituzione genetica predispone all'elaborazione cognitiva e quindi all'innovazione.
La selezione culturale presenta due livelli. Il primo è la decisione se accettare o respingere una certa innovazione in rapporto ai nostri valori e desideri. Ma il secondo livello è quello in cui interviene la selezione naturale, la quale decide in base alla nostra sopravvivenza e riproduzione il peso che avranno presso le generazioni successive le decisioni assunte. La selezione naturale ha l'ultima parola nella scelta e nella decisione riguardo al comportamento della specie nel lungo periodo. Al carattere disastroso delle nostre scelte attuali potrà essere posto rimedio esclusivamente da parte della selezione naturale: «Basti pensare, lamenta Cavalli Sforza, alla nostra influenza sui cambiamenti del tempo, la globalizzazione economica, i contrasti religiosi che non sono una novità, dato che le guerre religiose sono state tra le più tremende, ma che continuano a esserlo aggiungendosi a quelle tribali, nonché i nuovi mezzi di distruzione di massa».
Claudio Tugnoli ( Scheda biografica nel sito mondodomani.org)
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Dialogo fra Gian Maria Borrello e Claudio Tugnoli
Borrello
Interessante il tipo di distinzione concettuale fra "innovazione" e
"invenzione": la prima corrisponde a un processo volontaristico, mentre la
seconda risponde a un processo meccanicistico. L'innovazione alla volontà,
l'invenzione a un bisogno.
La minigonna di Mary Quant non rispondeva a un "bisogno" della società, ma ha
generato mutazioni "relazionali" nel tessuto sociale.
Mary Quant in Wikipedia
Innovazione relazionale
(nell'Indice degli argomenti 2004 - 2005)
Preciso meglio: il talento innovatore di Mary Quant fu tale in quanto frutto
di intuizione e volontà: capì che nell'aria, nelle relazioni sociali, c'era
in atto qualcosa di nuovo --se non di rivoluzionario-- e che quello era il
momento giusto per darsi da fare. Volontà, capacità di cogliere l'attimo,
intraprendenza, spirito imprenditoriale: queste le sue doti. Se quello che
percepì vogliamo definirlo anche come "bisogno sociale", allora potremmo
benissimo dire che Mary Quant "inventò" la minigonna: a conferma del fatto
che il confine fra innovazione e invenzione può essere molto labile e che,
anzi, fra le due "categorie" non v'è soluzione di continuità.
Inoltre, l'innovazione è avaloriale: corrisponde alla volontà, ma non
necessariamente a un'etica.
Se la cultura è «un meccanismo di adattamento all'ambiente», potrebbe essere
possibile affermare che l'innovazione è una sorta di "leva di archimede" atta
a favorire questo meccanismo.
Se la selezione culturale presenta due livelli, il primo dei quali consiste
nella «decisione se accettare o respingere una certa innovazione in rapporto
ai nostri valori e desideri», penso che in questa chiave potrebbe essere
discusso il tema della responsabilità nell'innovazione (che è proprio il tema
che costituisce la missione della Fondazione voluta da Bassetti). E, a
riguardo, è denso di implicazioni il fatto che la selezione naturale abbia
l'ultima parola. Ciò mi richiama alla mente tante cose... ma usciremmo
dall'orbita che sto cercando di individuare. Però, per farLe capire a cosa
stia pensando, dico che a questo punto vi sarebbe forse da chiedersi se
esista (e quale sia) un'interazione fra primo livello e secondo livello: le
implicazioni possono essere espresse nelle domande: "esiste un libero
arbitrio?", "fino a che punto l'uomo è artefice del proprio destino?"
Domande che, mi sembra, sono anche presenti nell' "ultimo" Giuseppe O.
Longo: v. i punti sul libero arbitrio in
Seminario del Prof. Giuseppe O. Longo e Forum su "Progresso e responsabilità: il passaggio dalla scienza alla tecnologia" (sito Fondazione Bassetti, 10 - 15 febbraio 2003)
La citazione è qui sotto riportata:
«La questione del libero arbitrio è spinosa quanto quella del "caso" e
anch'essa è legata all'opposizione determinismo/casualità. Secondo alcuni il
libero arbitrio è una sensazione soggettiva, derivante dall'ignoranza di
molte delle condizioni che stanno alla base della decisione presa. Chi
conoscesse a fondo tutte le circostanze sarebbe costretto a una scelta
deterministica. E' chiaro che la locuzione "tutte le circostanze" invoca
un'onniscienza che possiamo solo attribuire a entità superumane. Dunque di
fatto il libero arbitrio esisterebbe (non esisterebbe per Dio, che, vista la
sua onniscienza, sarebbe obbligato alle scelte che fa: ma qui si entra in un
campo molto sdrucciolevole...). Un osservatore A che osservi B prendere una
decisione ma conosca più circostanze di quante ne conosca B potrebbe
dichiarare che la scelta di B è "obbligata" da quelle circostanze che B
ignora. Ma a sua volta un osservatore C che osservi A e B e conosca più
circostanze di A potrebbe concludere che A ha torto e che B sta
davveroesercitando il suo libero arbitrio... Così argomentando il libero
arbitrio, che per tradizione fa parte del territorio etico o morale, si
trasferirebbe nel territorio empirico-conoscitivo. Le nozioni di
responsabilità, di colpa, di peccato, di redenzione e via elencando, che sono
intimamente legate al libero arbitrio, si collocherebbero in una prospettiva
diversa (si ricordi Socrate: chi conosce il bene non può non farlo; e il
codice afferma che l'ignoranza della legge non cancella la colpa...). E'
forse una forma di riduzionismo della morale alla cognizione?»
[ passaggio della discussione da cui la citazione è tratta]
Tugnoli
Le sue osservazioni sono pertinenti.
Per quanto riguarda la questione del libero arbitrio, mi limito a osservare
che se per libero arbitrio si intende l'indeterminismo o l'acausalità, allora
l'espressione 'libero arbitrio' non può che significare l'ignoranza cognitiva
rispetto a certi processi (psichici, neurologici?) di cui ignoriamo i nessi
causali. Ma la questione è così spinosa e complessa che liquidarla in poche
battute è ridicolo. Si potrà riprendere in altra occasione. Il libero
arbitrio non si esercita mai nel vuoto: vale la pena di evocare l'esempio
kantiano della colomba: essa immagina che, se non ci fosse l'aria che le fa
resistenza, potrebbe volare più liberamente e velocemente. Ma s'inganna,
perché senz'aria non potrebbe volare affatto. In massima parte i nostri
comportamenti sono in fondo delle risposte a eventi ambientali determinate da
tutto ciò che siamo diventati in quel momento, con tutto il passato che
siamo, lo vogliamo o no. La libertà che la cultura permette è una presa di
coscienza delle possibilità oggettive e una scelta tra diversi modelli di
comportamento, non è in alcun caso una libertà assoluta e svincolata. La
libertà possibile è quella che costruisce sfidando o sfruttando a proprio
favore forze e resistenze di varia origine e natura, come sempre è accaduto
nella storia dell'umanità. A che cosa mi serve una condizione di perfetta
libertà interiore se poi sono del tutto impotente sul piano operativo?
Borrello
L'affermazione che «l'evoluzione culturale è influenzata dall'evoluzione
genetica, poiché la costituzione genetica predispone all'elaborazione
cognitiva e quindi all'innovazione», non potrebbe dare luogo a una forma di
razzismo?
In altri termini, non potrebbe forse costituire una giustificazione
legittimante di una coscienza collettiva che troverebbe giusto favorire una
determinata predisposizione genetica perché più adatta all'innovazione (che
sarebbe in sé "cosa buona e giusta")?
No ! --si potrebbe rispondere-- in quanto la chiave di volta di tale questione
starebbe proprio nella considerazione secondo cui l'innovazione non sarebbe
in sè e per sè "cosa buona e giusta", ma lo sarebbe solo a seguito di una
corrispondenza con dei valori, con un'etica. Ciò però implicherebbe una
distinzione fra "innovazione" e "innovazione rispondente a", cioè fra
"innovazione 'pura e semplice' " e, per esempio, "innovazione responsabile".
Tugnoli
Riguardo al rischio di favorire una determinata predisposizione genetica
perché più adatta all'innovazione, posso solo dire che l'immagine che abbiamo
dell'uomo è limitata e parziale. L'uomo allo stato attuale è il risultato di
una lunga evoluzione, peraltro non ancora terminata. In quanto l'uomo è parte
della natura, deve rassegnarsi a sottostare a meccanismi che non governa e
nei quali prevale la logica dello spreco e l'indifferenza per il singolo
individuo; in quanto invece l'uomo riesce a controllare i processi naturali,
sociali e politici volgendoli a proprio vantaggio (del singolo e delle
collettività) può contribuire a quella personalizzazione dei processi
educativi e formativi degli individui che esalta la singolarità irripetibile
di ciascuno.
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