(ovvero: il blog SPERIMENTALE di Gian Maria Borrello & C.)
sabato, agosto 13, 2005
Scientific Governance... ?
Dialogo fra Gian Maria Borrello e Daniele Navarra
--- posted by Gian Maria Borrello ---
--- Permalink (da utilizzare per segnalare questo post) ---
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Oltre ai tre articoli sopra indicati, altri documenti qui citati, o che possono essere collegati a quanto qui scritto, sono:
- "Scientific Governance" (Redazione FGB, sezione Argomenti del sito FGB, 16 settembre 2003)
- "Gli esperti, la scienza e la legge" (Jacques Testart, "Il Manifesto", Settembre 2000, traduzione italiana dell'articolo pubblicato su "Le monde diplomatique")
- "L'intelligenza scientifica e la democrazia partecipativa" (Jacques Testart, "Il Manifesto", Febbraio 2005, traduzione italiana dell'articolo pubblicato su "Le monde diplomatique")
- "Jacques Testart e il Principio di precauzione" (sito FGB, Percorso composto da citazioni tratte dall'articolo "Gli esperti, la scienza e la legge")
- "L'onorevole non crede alla scienza" (Riccardo Viale, "Il Sole 24 Ore", 11 febbraio 2001)
- "Scienza e politica, dialogo fra sordi" (Riccardo Viale, "La Stampa" del 6 agosto 2003)
- "Come (non) si parlano scienza e politica" (Vittorio Bertolini, Rassegna stampa nel sito FGB, 30 agosto 2003)
------------------------------------------------------In "
The democratic responsibility of scientific power", in apertura, usi l'espressione "
public governance of science"
e prosegui riferendoti al dibattito sulla "scientific governance". A me
pare che il significato di "scientific governance" andrebbe tenuto ben
distinto da quello di "governance della scienza". La governance della
scienza è politica della scienza, riguarda cioè gli
indirizzi da dare all'attività scientifica. La "scientific
governance" è una forma particolare di politica della scienza,
consistendo nel coinvolgere gli scienziati nelle decisioni politiche.
Se la governance diventa solo "scientifica", viene a coincidere con una
moderna forma di scientismo.
---
"
In
today's knowledge society science is under pressure to open up and
include the opinions of a wider and better informed part of the
population with the means to control the work of scientists and
participate in the political debate on scientific governance."
Osserverei
che la scienza è assediata dalla pubblica opinione perché
le persone si rendono conto che il loro benessere, la loro salute,
persino la loro vita, dipendono da decisioni che vengono prese in
ambito scientifico e pertanto chiedono di avere voce in capitolo;
chiedono di conseguenza che la politica faccia sentire la loro voce. La
politica, in tal senso, rappresenterebbe una via di accesso riguardo a
decisioni che determinano il futuro di tutti. La politica, che adotta
(o dovrebbe adottare...) criteri e metodi di governance che non
appartengono alla scienza, si farebbe carico di dare il giusto peso
alle opinioni di chi è altrimenti escluso dal processo
decisionale.
Quindi, il problema non sarebbe soltanto quello di rendere i cittadini meglio informati ("
...
how can scientists inform citizens better and how can they help to
bridge the various communication failures in the formation of public
decisions"). Il problema consiste anche nell'adottare metodi per
prendere decisioni che non si risolvano in un dialogo esclusivo fra
scienziati e politici, ma che nel processo decisionale coinvolgano la
società intera, in modo più diretto, e cioè meno
delegato.
La percezione del rischio che l' "uomo della strada" ('
layman')
ha è quasi certamente molto diversa da quella dell'esperto, ma
può essere frutto di un giudizio di sintesi che racchiude una
visione delle cose che attribuisce dignità ad aspetti, fattori,
elementi, che la razionalità scientifica trascura, o considera
irrilevanti. In una prospettiva che tenta di concentrarsi sul "come"
una decisione debba essere presa affinché sia responsabile,
può darsi che la visione dell' "uomo qualunque" sia da
considerarsi come degna di maggior attenzione rispetto a quella
scaturente dalla razionalità scientifica.
A mio modo di
vedere, la questione alla base della governance non è arrivare a
una verità che possa essere considerata socialmente accettabile
("
... determining which truth can be considered socially acceptable").
La questione consiste piuttosto nel domandarsi quali procedure
decisionali siano in grado di tenere in debito conto "voci" diverse da
quelle degli esperti tecnico-scientifici, di modo che la decisione
risulti legittimata proprio dal metodo democratico seguito.
Dopodiché, è vero che la decisione presa in questo modo
sarà anche accettata da più ampie fasce della
società, ma questa è una conseguenza. I rischi,
certamente, sono: da un lato, il populismo; dall'altro, lo scientismo.
---
"
It
is possible to delineate two different abstract principles which guide
these decisions. On one hand is the principle of responsibility, which
is based the ethical foundation of scientific rationality. A call to
the universal principle of giving trust to the experts to provide
appropriate representations of the world. This is a clear
epistemological choice, opposite to the precautionary principle, which
instead rejects this view because, as Testart explains, it would only
lead to compromise. His argument is that the scientist himself does not
'know' and, for this reason, is not exempt from prejudices of various
types."
La posizione di Testart riguardo al Principio di
precauzione è legata a un suo punto di vista radicale in merito
alle posizioni politiche degli scienziati. Il nocciolo duro della sua
critica al principio di precauzione non penso che risieda nella sua
considerazione secondo cui il Principio condurrebbe a soluzioni di
compromesso: questa è una conseguenza che egli sì rileva,
ma non costituisce il fondamento della sua critica al Principio.
Infatti, egli spiega, anche in presenza di un'assenza di dubbi riguardo
ai rischi di un'innovazione, i termini del problema non si
sposterebbero ("Anche quando si arrivasse a supporre che un'innovazione
tecnologica sia esente da rischi potenziali secondo il principio di
precauzione, un tale verdetto non sarebbe sufficiente a giustificarne
l'uso in piena responsabilità", v. "
Gli esperti, la scienza e la legge").
Ciò perché, se è importante capire quando una
determinata innovazione comporti, o meno, un rischio e, nel caso, in
quale misura, è altrettanto importante dare voce a valutazioni
(percezioni) del rischio che non siano esclusivamente frutto della
razionalità scientifica.
Sulla valutazione di rischio
richiesta per decidere sull'introduzione di innovazioni
tecnico-scientifiche esiste molta incertezza e tutto lascia pensare che
i casi in cui neppure gli esperti sono d'accordo fra loro siano
destinati ad aumentare. Questi sono appunto i casi in cui troverebbe
applicazione il Principio di precauzione, ma Testart ritiene che esso
abbia un vizio d'origine, sia cioè figlio dell'ottica che
attribuisce un ruolo egemonico alla razionalità scientifica
tanto quanto le tesi che si contrappongono ad esso.
In ultima
analisi, l'obiettivo della critica di Testart non è il Principio
di precauzione, bensì quel processo politico-decisionale che si
svolgerebbe attribuendo importanza esclusiva a una valutazione
scientifica del rischio, una valutazione che non darebbe concreto
rilievo a fattori differenti da quelli che gli scienziati prendono
canonicamente in esame. Per esempio, a parametri di giustizia sociale.
Infine
(e pur sfiorando il paradosso), mi pare che sia possibile aggiungere
(anche se non posso dire che sia la mia opinione) che il Principio di
precauzione rischia di diventare (se non lo è già) un
mezzo di controllo sociale al servizio delle lobby tecnocratiche e
scientifiche. Un'idea, cioè, messa a punto per far fronte a
situazioni in cui la pubblica opinione potrebbe mettere in crisi
attività e iniziative dietro le quali ci sono cospicui
investimenti finanziari. In altre parole, uno stratagemma che,
ammantando di "scientificità" un atteggiamento demagogico,
garantirebbe ai politici il pubblico consenso e, al contempo,
riuscirebbe ad esorcizzare il conflitto sociale, a tutto vantaggio dei
poteri forti dell'Economia, della Scienza e della Tecnica. La prudenza
che si ispira al Principio si disvelerebbe come un modo per far passare
il tempo sufficiente a preparare l'accettazione sociale attraverso
l'assuefazione, giocando sulla solubilità dell'etica nel tempo.
Ciò
detto, riferendomi al punto del tuo articolo che ho citato, ho
l'impressione che porre su due versanti contrapposti Principio di
responsabilità etica e Principio di precauzione sia
un'operazione che necessiti di qualche delucidazione. Se per "Principio
di responsabilità" si intende riferirsi a quello elaborato dalla
riflessione di Hans Jonas [
1 ], ciò andrebbe detto. Testart, effettivamente, a un certo punto della sua riflessione (v. "
Gli esperti, la scienza e la legge")
fa un richiamo al principio etico di responsabilità formulato da
Jonas, apprezzandone lo slancio dirimente in contrapposizione alle
soluzioni del Principio di precauzione, che egli giudica come frutto di
compromesso tra interessi di lobby. Però, non dimenticherei che
Testart è un intellettuale al quale importa prima di tutto
mettere in luce le ragioni ideologiche e la portata politica di un
percorso logico-argomentativo. Esistono altri punti di vista secondo
cui i due Principi appartengono a dimensioni epistemologiche tanto
distanti da essere imparagonabili, o anche secondo i quali
il Principio di responsabilità dev'essere considerato come ispiratore proprio del Principio di precauzione.
---
Mi chiedo se l'affermazione "Foresight and the capacity to prefigure a possible future are not typical of the rigor of scientific method"
non necessiti di precisazioni. A me pare, infatti, che la scienza si
nutra di previsioni, e per l'appunto di previsioni che hanno rigore
scientifico (ricerca operativa, simulazioni, modelli matematici, ecc.).
Il fatto che previsioni ottenute con rigore scientifico non si avverino
appartiene a un ordine concettuale diverso: ciò che conta
è che esse possano essere considerate attendibili.
E' vero che le previsioni "should be discussed in the political realm",
ma questo non perché esse contrastino col rigore scientifico, ma
perché il politico applica (o forse sarebbe meglio dire
"dovrebbe applicare") criteri di valutazione che possono essere anche
molto diversi da quelli di uno scienziato.
---
"It
is in the process of democratic responsibility that trust can be
created to promote innovations which support the well being of society
as a whole".
Penso che parlare di un "processo di
responsabilità democratica" all'interno del quale possano essere
promosse innovazioni per il benessere della società sia, nel
migliore dei casi, un po' vago. Mi vengono in mente le critiche,
plausibili, di coloro che guardano con sospetto (essi parlano di
"disincanto") a forme di coinvolgimento democratico del pubblico ("i
giochi sono già fatti e il coinvolgimento del pubblico serve a
chi detiene il potere solo per acquisire legittimazione"). E poi mi
viene il dubbio che un processo definito come "di responsabilità
democratica", e che sia concepito per generare fiducia nella gente al
fine di promuovere innovazioni, possa (senza intenzione, a voler pensar
bene) edulcorare le problematiche, rendendole fiacche. E possono
sorgere dubbi non soltanto sul suo valore democratico, ma anche sulla
sua concreta efficacia (sempre che questa non sia soltanto quella della
demagogia...).
---
Vengo quindi al secondo articolo, "On the governance of scientific innovation (part 1)", dove leggo che "The definition of a space of governance immune from this pressures is what the advocates of the precautionary principle prescribe".
Non
capisco da cosa si tragga l'affermazione secondo cui sarebbero i
sostenitori del Principio di precauzione ad auspicare che le decisioni
venissero prese in una zona franca, immune da lobby e da pressioni di
vario genere. A me, infatti, pare quasi il contrario, e cioè che
chi è favorevole a decisioni politiche che siano ispirate al
Principio di precauzione lo faccia proprio perché prende atto
che non esistono valutazioni del rischio immuni da pregiudizi, che
quelle degli scienziati non lo sono e che, quindi, prima di procedere
con un'innovazione il cui impatto è critico, sia più
saggio soppesare opinioni di diversa origine e contrastanti, adottando
di conseguenza un atteggiamento attendista.
Semmai è Testart
che, come prima ho osservato, riguardo al Principio la pensa
diversamente: dato che non ritiene giusto che chi è chiamato a
prendere decisioni su innovazioni scientifiche si conformi all'egemonia
della razionalità scientifica, egli sottopone a critica proprio
il Principio di precauzione; ma non perché questo sia uno
strumento improntato al relativismo culturale, bensì
perché lo considera un derivato della stessa ottica che, in
ossequio alla razionalità scientifica, privilegia l'opinione
degli esperti. Direi che, a parere di Testart, la precauzione assurta a
Principio è diventata un modo compromissorio con cui gli
scienziati darebbero una giustificazione --la prudenza appunto-- alla
loro incapacità di fornire indicazioni sugli effetti negativi di
un'innovazione. E, in quest'ottica, la precauzione diviene un disvalore
quando occulta i problemi invece di farli emergere.
Ad ogni modo, se lo spazio immune da pressioni di lobby è individuato nelle Conferenze di cittadini [ 2 ]
tipiche della democrazia deliberativa, le guarentige e le attenzioni di
metodo e di procedura, messe a punto per questo genere di iniziative,
rappresentano una risposta alle critiche di coloro che, nella
riproduzione "in vitro" della dinamica reale delle forze sociali,
vedono nient'altro che novelle forme di demagogia e di controllo
sociale.
Da ultimo.
In "On the governance of scientific innovation (part 2)" affermi che "an
emerging trend sees governments around Europe to give less support for
basic research in the public sector, while considering research that
lead to faster commercialisation both a way to generate good science as
well as strong economic growth." e di conseguenza affermi che "if
science becomes involved in the formulation of complex political
decisions, even if scientists do not have any responsibility of the
impact of their discoveries, the outcome could be more irresponsibility
rather than less".
Osserverei che questo è il tema del conflitto d'interesse [ 3 ]. Non ti pare?
Nella conclusione dello stesso articolo riprendi il termine "failures"
in relazione al mercato e in un'ottica di sistema. C'è
un'analogia col concetto di "asimmetrie informative" tipico degli studi
sul mercato?
Potresti rendere più esplicito a che fenomeno, o a quali accadimenti, intendi fare riferimento parlando di "failures"?
---> Continua: il post di Daniele Navarra del 23 agosto
e il
---> post di Gavino Zucca del 26 agosto
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Estratti dall'articolo, di Jacques Testart, "Gli esperti, la scienza e la legge", che trovo presentino attinenze con quanto detto sin qui
--------------
«Gli
scienziati valutano i potenziali rischi di una nuova tecnologia
soprattutto rispetto alla salute dell'uomo e all'ambiente: i risultati
di questa valutazione costituiranno poi la base concreta su cui si
fonderà la decisione politica. Tra la scienza e la legge, non
c'è quindi nessun elemento intermedio, o quasi. I cittadini, in
nome dei quali questa innovazione dovrebbe essere introdotta, ne
restano in larga misura esclusi: sono l'anello mancante della
catena.»
«La deriva della ragione semplificatrice,
che dimentica la complessità dei fenomeni analizzati, comincia
nel momento in cui si concede la qualifica di esperti esclusivamente
allo scienziato, all'ingegnere, o anche all'economista, trascurando
tutti gli altri saperi che pure concorrono alla conoscenza.»
«A
meno che non si voglia affermare la competenza del politico anche in
ambiti quali sensibilità, emozione, umanità, rapporto con
la natura, gioia e dolore - tutte qualità che non hanno concorso
alla sua nomina o elezione - , tra valutazione tecnica e decisione di
diffondere una tecnologia resta, volutamente vuoto, un vasto campo di
valori.»
«Tutto avviene come se la comune devozione
all'impresa tecnologica non ammettesse dubbi sui suoi vantaggi, e
concedesse solo la fatica di verificarne l'innocuità.»
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Miei schemi mentali e riduzioni
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Scientific governance
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Se
per "scientific governance" si intende "governance delegata agli
esperti scientifici (o rimessa in buona misura agli esperti)", parlare
di "scientific governance" significa discutere del ruolo degli esperti
scientifici nella formazione delle decisioni pubbliche.
Olivier
Postel-Vinay afferma che il Principio di precauzione non è
principio di prudenza. Il primo si applica quando la scienza è
incerta sull'esistenza di un rischio. Si veda il suo articolo apparso su La Recherche, n. 341, Aprile 2001 (Francia) e tradotto su Internazionale n. 380 del 6 aprile 2001.
Jacques Testart è refrattario rispetto al considerare la scienza come sorgente di indicazioni decisionali.
Le decisioni frutto di razionalità scientifica non sono da considerarsi per ciò stesso giuste.
Nel
raggiungere una decisione che riguarda tutti, una decisione politica,
quello che è primariamente importante è il metodo.
Scienza, Politica ed Etica seguono metodi profondamente diversi, e
dev'essere così.
Il metodo (decisionale) è, per la politica, fonte di legittimazione.
E'
importante disvelare i fondamenti di una decisione, a maggior ragione
quando questa ricade nel campo della cosiddetta "scientific governance".
I due articoli di Riccardo Viale "L'onorevole non crede alla scienza" e "Scienza e politica, dialogo fra sordi" contengono una definizione di "scientific governance".
Viale
afferma che non v'è concordia nelle valutazioni di analisi del
rischio. Un motivo di questo sta nel fatto che ci sono istituzioni
scientifiche più permeabili rispetto ad altre alle pressioni di
carattere sociale e politico. Il Principio di precauzione è
figlio delle istituzioni più permeabili.
Le decisioni politiche che danno ascolto alle istituzioni più permeabili propendono per tesi di tipo relativista.
Nell'articolo "L'onorevole non crede alla scienza",
Viale fa un riferimento all'Epistemologia sociale mostrando come la
"corrente costruttivista" (Fuller) abbia lo scopo di decostruire le
tesi, individuandone le componenti prescrittive, mentre Alvin Goldman
ritiene che scopo dell'Epistemologia sociale sia guidare le policy di
produzione e utilizzo della conoscenza empirica. In ciò si
coglie la componente prescrittiva dell'Epistemologia sociale. Ma
l'Epistemologia sociale ha anche una componente valutativa, nel senso
che essa serve alla scienza per salvaguardare la propria autonomia
dalle influenze inquinanti di tipo ideologico e politico. Goldman fa
anche delle proposte riconducibili al concetto di "mercato trasparente".
-----------------
Note in calce
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[ 1 ]
Hans
Jonas, Il principio responsabilità: un'etica per la
civiltà tecnologica, Einaudi, Torino 1993 [1979]. Si veda, nel
sito della Fondazione Bassetti, la relativa voce nella Bibliografia a cura di Corrado Del Bò
[ 2 ]
Jacques Testart dà un'esauriente spiegazione del loro funzionamento in: "L'intelligenza scientifica e la democrazia partecipativa".
Si vedano anche:
- "Dell'uso improprio del sondaggio, della sua carica deresponsabilizzante e dei possibili correttivi" (Rassegna stampa di Luglio 2002, a cura di Vittorio Bertolini, nel sito della Fondazione Bassetti)
- "Democrazia e sondaggi. Il 'metodo Fishkin' " (Rassegna stampa del 29 maggio 2003, a cura di Vittorio Bertolini, nel sito della Fondazione Bassetti)
- "Democrazia deliberativa: Bosetti, Amato, Enzensberger, Lehmann" (Rassegna stampa del 29 luglio 2003, a cura di Vittorio Bertolini, nel sito della Fondazione Bassetti)
- " Dalla democrazia di Pericle ai 'sondaggi deliberativi' " (Rassegna stampa del 4 dicembre 2003, a cura di Vittorio Bertolini, nel sito della Fondazione Bassetti)
- "Che cos'e' la 'democrazia deliberativa' " (Rassegna stampa del 9 dicembre 2003, a cura di Vittorio Bertolini, nel sito della Fondazione Bassetti)
[ 3 ]
Per
"conflitto d'interesse" si intende quando un ricercatore, uno
scienziato, ha una qualche forma di interesse finanziario nel campo di
studi di cui si occupa. Nel sito della Fondazione Bassetti si veda "Il conflitto di interesse nella scienza".
---> Continua: il post di Daniele Navarra del 23 agosto
e il
---> post di Gavino Zucca del 26 agosto
martedì, agosto 23, 2005
posted by Daniele Navarra
--- posted by Daniele Navarra ---
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---> Segue dal post di Gian Maria Borrello del 13 agostoSono
lieto di affrontare in questo spazio alcuni dei temi degli ultimi
articoli pubblicati nel blog 'Innovation, Risk and Governance' che curo
all'interno del sito della Fondazione Bassetti. Mi accingo dunque a
fare alcune considerazioni, tendendo però presente che queste
rappresentano il mio punto di vista personale.
Innanzi tutto, a mio avviso la politica andrebbe intesa come luogo di riconciliazione, un '
topos'
dove si sviscerano e ponderano argomentazioni dalle quali scaturiscono
decisioni che dovrebbero mirare al raggiungimento del benessere della
società nel suo insieme e delle comunità che questa racchiude. In tal
senso la razionalità (se si può descrivere in questi termini) politica
e quella scientifica corrono su due binari diversi, ma a volte
(aggiungerei) per certi versi complementari. Le competenze scientifiche
e le opinioni politiche sono entrambe rappresentative delle comunità
politiche e scientifiche che fanno parte della società sopra descritta.
Ma a mio avviso entrambi i termini sono usati in modo assai vago, senza
considerare che anche nella politica vi e' scienza e anche nella
scienza vi e' politica. La politica, ed in particolare quella espressa
dai rappresentati dei cittadini e che ha il mandato elettorale di
governare, dovrebbe essere all'altezza di rappresentare al meglio la
volontà di coloro che rappresenta.
La scienza in tal senso e'
molto diversa e per questo terrei a precisare che l'utilizzo dei
termini 'governance of science' e 'scientific governance' sono spesso
usati in modo complementare. In risposta al quesito posto, e con
riferimento all'articolo citato, direi che i due termini potrebbero
anche essere intesi in maniera esattamente opposta a come vengono
esposti nell'introduzione di questo dialogo, ma in realtà non e' cosi.
Quindi la 'governance of science' si può sintetizzare nel rapporto che
governa le interazioni tra la scienza e la politica, mentre la
'scientific governance' invece si riferisce ad una particolare capacità
della scienza di potere fornire di volta in volta degli elementi alla
politica, sui quali ponderare scelte cruciali per il benessere della
collettività. Di questi esempi ne vengono citati diversi negli
articoli, tra cui le modalità deliberative (o 'feedback') che vengono
utilizzate in tal senso. Pur condividendo la necessità di distinguere
tra i due termini noto come nel loro uso (o comprensione) comune vi sia
un'associazione con un qualche tipo di attività politica. Ma in tal
senso forse l'Italiano e' meno ricco di termini dell'Inglese (una delle
poche circostanze) dal momento che la politica come 'politics' e la
politica come 'policy' rappresentano due diversissimi ambiti di
attività e necessitano dei distinguo con la D maiuscola.
'Politics'
e tutto cio' che in Italiano viene inteso come politica nelle sue
innumerevoli sfaccettature che includono la divisione dei poteri dello
stato, le modalità di voto ed i partiti, le coalizioni di governo.
'Policy' dall'altro lato e' un termine più ambiguo, ecco alcune
definizioni fornite dall'Oxford English Dictionary:
- Government, administration, the conduct of public affairs; political science
-
Political sagacity; prudence, skill, or consideration of expediency in
the conduct of public affairs; statecraft, diplomacy; in bad sense,
political cunning
- A course of action adopted and pursued by a
government, party, ruler, statesman, etc.; any course of action adopted
as advantageous or expedient.
III. 8. attrib. and Comb., as
(sense 5) policy decision, document, -maker, -making, statement;
policy-making adj.; policy science (see quot. 1951); hence policy
scientist. 1960 I. JEFFERIES Dignity & Purity iv. 66 Their purpose is the application of scientific method to policy decisions. 1964 GOULD
& KOLB Dict. Soc. Sci. 510/1 Current interest centres on such
questions as the nature of policy decisions... Policy decisions are
contrasted, for instance, with judicial decisions by reference to the
relatively greater freedom of choice in the former. 1974 S. GULLIVER
Vulcan Bulletins 11 A policy decision had meant more careful buying.
1976 Burnham-on-Sea Gaz. 20 Apr., Mr Shore..can hardly have had time to
read the policy documents before he was expected to stand up and defend
them in the House. 1943 J. S. HUXLEY
TVA xix. 137 The Board was always a policy-making body. 1946 Nature 9
Nov. 646/1 Authoritative information which those..at the policy-making
or executive level might be expected to need. 1950 N.Y. Times 20 Apr.
1/3 The cataloging of persons eligible for policy-making positions
would be..done without regard to their party affiliations. 1968 E. A. POWDRILL
Vocab. Land Planning ii. 5 Policy~making and technique are a symbiosis,
but it must be supported by wise and sound administration. 1951 H. D.
LASSWELL in Lerner & Lasswell Policy Sciences i. 4/1 We may use the
term 'policy sciences' for the purpose of designating the content of
the policy orientation during any given period. The policy sciences
includes (1) the methods by which the policy process is investigated,
(2) the results of the study of policy, and (3) the findings of the
disciplines making the most important contributions to the intelligence
needs of the time. 1964 I. L. HOROWITZ
New Sociology 30 Sociology cannot be a ?policy science? 1970 Nature 19
Sept. 1189/2 There will have to be changes in the ways in which ?prime
television time? is allocated so that the policy scientists can have
their say..when people are most likely to be glued to their television
sets. 1979 Bull. Amer. Acad. Arts & Sci. Mar. 28 International
consultants and policy scientists serve as the conveyors and preservers
of these untested staff papers until their ideas, approaches, and
methodologies develop a life of their own. Questo ci
ricollega al principio di precauzione. Devo ammettere che non mi
stupisce (al contrario) il fatto che gli esperti non siano d'accordo
sui temi fondamentali della scienza e della ricerca, che i risultati
degli studi siano a volte contraddittori ed idiosincratici e che non vi
sia una fonte 'sicura al 100%' su quale si possa stabilire l'impatto
relativo all'introduzione di un innovazione tecnologica sul lungo
periodo. A un economista (e statista) come Keynes questo poco sarebbe
importato dal momento che 'over the long term we are all dead'. Di
conseguenza riterrei che se un giorno si dovesse raggiungere la
certezza scientifica 'al 100%' questo rappresenterebbe l'inizio della
fine della democrazia come la conosciamo oggi e come avremmo voluto che
fosse ieri.
Di conseguenza fare un leitmotiv (che molti hanno
gia' fatto e che e' un dibattito continuo sul quale probabilmente non
posso intervenire se non nel riconoscere il bisogno di un dibattito
costruttivo su questi temi) sulla validità o meno del principio di
precauzione mi pare molto vago nei termini discussi finora in questo
contesto che ci porta lontano da altri problemi. Il principio di
precauzione si basa su una importante verità dei processi di ricerca
(ma anche per certi versi dei processi di decisioni politiche),
naturalmente con i dovuti distinguo e senza piombare nelle insidie
della generalità. In entrambi i casi si possono riscontrare giudizi,
ideologie e valori. La ricerca che porta allo sviluppo di una
tecnologia e ad i suoi effetti non e' del tutto esente. Nella
concezione 'ideale' della scienza che ho esposto questo non dovrebbe
accadere, ma non significa chiudere gli occhi e non chiedersi innanzi
tutto: chi ha prodotto le informazioni? Chi ha pagato la ricerca? In
che modo i valori vengono tradotti nello sviluppo delle innovazioni
(sociali e tecnologiche)? Per chi i risultati sono importanti e chi ne
beneficia?
L'irresponsabilita' sistemica sulla quale mi sono
soffermato in 'On the Governance of Scientific Innovation and the
Avoidance of Irresponsibility' prende in esame proprio il fatto che la
conoscenza, e tutto cio' che la nutre, risulta da una molteplicità
('the old and the new') che non svilisce e non nega dignità ad alcun
punto di vista. Tengo a riscontrare che non e' forse anacronistico
discutere di questi principi soltanto in questi termini dal momento che
viviamo nella società della conoscenza? Non sarebbe il caso che
entrambi vengano aggiornati in luce dei nuovi processi in atto (o
meglio dire emergenti) in questo tipo di società. La definizione in
atto di nuove procedure di democrazia deliberativa, che coinvolgono la
società civile in esperimenti di forum e discussioni 'on-line' e
'off-line' non stanno forse cambiando il panorama decisorio anche da un
punto di vista politico? Mi sembra un punto di non poco conto dal
momento che da come esponi 'l'anello mancante', cioè il punto di vista
dei cittadini, che sono anche state discusse nella prima parte di 'On
the Governance of Scientific Innovation and the Avoidance of
Irresponsibility':
"Citizens armed with new sources ok
knowledge over the internet, civil society groups representative of
various public and private sector stakeholders, networked individuals
and other 'knowledge agents' are gaining increased recognition as a
result of their ability to be more responsive to the challenges posed
by the knowledge society".
Le istituzioni ed il governo
nella società della conoscenza non sono più basati come un tempo sul
'monologo', ma sul 'dialogo' sulla capacità di capire e aprire il
'fare' policies. Questa nuova apertura riguarda anche il '
design of
a new policy mix for the governance of issues of collective concern and
to reach a broad based agreement for decisions regarding the emerging
opportunities and threats in the field of science and technology'.
Di conseguenza dal momento che (almeno da un punto di vista teorico)
nella società della conoscenza anche 'l'anello mancante' della catena
dei processi decisionali può essere espressa attraverso la
partecipazione resa possibile dalle tecnologie della informazione e
comunicazione vi e' la possibilità che tale coinvolgimento possa
ridurre le 'failures' relative ai processi decisionali della democrazia
tradizionale, ma allo stesso tempo non vengono del tutto eliminate
durante la fase di transizione.
Infine, non e' nuovo il
corollario che il governo (e per certi versi anche la governance)
esiste del momento che altrimenti il mercato da solo fallirebbe. Ma
prioprio per questo la scienza contribuisce all'identificazione di
rischi che altrimenti non verrebbero presi in esame dalla classe
politica. In tale processo, che e' in tutto e per tutto una innovazione
di grandiosa portata (come d'altronde ci mette in guardia Beck),
bisogna stare attenti al ruolo giocato da alcuni 'esperti' (e da coloro
che si credono tali) nella fabbricazione di rischi che inducono un
bisogno collettivo e radicalizzano gli aspetti che meglio fanno il
gioco degli interessi di chi li 'ingaggia'. Ed e' proprio quando non
abbiamo piu' bisogno di porre domande, dal momento che conosciamo gia'
le risposte, che siamo seriamente a rischio ed in questo sta la miopia
di una tecnocrazia che non si confronta con la scienza e con la
politica.
"That is precisely where the future of democracy
is being decided: are we dependent in all the details of life-and-death
issues on the judgment of experts, even dissenting experts, or will we
win back the competence to make our own judgment through a culturally
created perceptibility of the hazards? Is the only alternative still an
authoritarian technocracy or a critical one? Or is there a way to
counter the incapacitation and expropriation of daily life in the age
of risk?"
(Beck, 'World Risk Society')
La
responsabilità democratica e' dunque una responsabilità collettiva che
induce a prendere sotto considerazione critica qualunque fonte di
informazione prima che questa venga utilizzata come attendibile per
basare una policy di grande impatto sociale, e non solo nel campo delle
innovazioni tecnologiche. Ne consegue che il 'come' non si può
discutere in maniera dissociata dal 'chi',
the ultimate question:
Chi decide dunque su queste innovazioni? E chi dovrebbe decidere? Su
cosa? Gli esperti? Il governo? I politici? Direi che e' la società che
dovrebbe decidere, nel suo insieme composta da tutti i gruppi sopra
elencati compresi i cittadini e tutti coloro che sono interessati a
partecipare in un dialogo costruttivo che possa favorire processi e
risultati per il bene della collettività. Ma allo stesso tempo ci sono
nuove sfide anche per rendere questi processi a beneficio di tutti
coloro che ne sono coinvolti e nella società della conoscenza le
decisioni prese in un punto del pianeta hanno un risvolto globale.
Esiste dunque un problema di rappresentanza globale che e' tutta da
definire alla luce di queste considerazioni. Un problema che si
riscontra anche nello studio
'Modern Biotechnology in LDCs: Governing innovation in India's Agricultural Markets' e che sarei lieto di approfondire con i lettori.
---> Continua: il post di Gavino Zucca del 26 agosto
venerdì, agosto 26, 2005
Scientific Governance? Intervento a commento del dialogo fra Gian Maria Borrello e Daniele Navarra
--- posted by Gavino Zucca ---
--- Permalink (da utilizzare per segnalare questo post) ---
---> Segue dal post di Daniele Navarra del 23 agostoe dal
post di Gian Maria Borrello del 13 agostoDopo
aver letto i tre articoli di Daniele Navarra e il successivo intervento
di Gian Maria Borrello, vorrei esprimere alcuni commenti, con
particolare riferimento al Principio di Precauzione (PdP).
Mi sembra che siano sostanzialmente due le osservazioni avanzate da Borrello su questo tema:
1)
la contrapposizione, prospettata da Navarra (e desunta dall'articolo di
Jacques Testart del 2000), fra una presa di decisione basata sul
principio di responsabilità da un lato, e una fondata invece sul
principio di precauzione dall'altro
2) l'affermazione di Navarra
sulla richiesta, da parte dei fautori del PdP, della definizione di uno
spazio di governance immune da pressioni di vario genere
Su
entrambi i punti mi trovo in piena sintonia con i commenti avanzati da
Borrello, e a quanto già da lui espresso vorrei aggiungere alcune
ulteriori considerazioni.
1) Rapporti tra PdP e principio responsabilità.
Se
il principio di responsabilità cui si fa riferimento è, come
specificato anche da Testart, una diretta derivazione di quanto
enunciato da Hans Jonas, credo che la storia e l'evoluzione del PdP
testimonino maggiormente a favore di una filiazione più o meno diretta
di quest'ultimo dal primo piuttosto che di una loro contrapposizione.
Non si deve dimenticare infatti che il PdP nacque nella Germania
dell'Ovest degli anni '70 (il Vorsorgeprinzip), in un periodo in cui
l'opinione pubblica era scossa a causa della scoperta di alcune grosse
minacce all'ambiente naturale, come il fenomeno delle piogge acide. Il
Vorsorgeprinzip riconosceva la necessità da parte delle autorità
governative di intervenire per la salvaguardia dell'ambiente, in
un'ottica di cura e protezione per le generazioni presenti e per quelle
future, anche in mancanza di prove scientifiche sufficientemente certe
sull'effettiva esistenza di una relazione tra una determinata causa e
un effetto ambientale.
Può essere utile osservare che il termine
tedesco Vorsorge combina la cautela con il prendersi cura del futuro,
ed è composto dal prefisso vor, che indica un anticipo temporale, e
Sorge, che significa preoccupazione, pensiero, apprensione, ma anche
cura, premura, sollecitudine. Corrispondentemente, il verbo vorsorgen
significa sostanzialmente preoccuparsi e prendersi cura di qualcosa in
anticipo. C'è qualcosa di più e di diverso rispetto alla semplice
azione preventiva: una sorta di cura del futuro, nell'idea che si abbia
la responsabilità di gestire bene ciò che abbiamo ricevuto dai nostri
antenati per consegnarlo alle generazioni future in condizioni
possibilmente non peggiori di come l'abbiamo trovato. Non si può non
vedere in tutto ciò, a mio parere, un legame con l'idea di Jonas di una
responsabilità etica verso le generazioni future.
Bisogna tuttavia
ammettere che successivamente il PdP ha subito un'evoluzione, frutto
anche di compromessi fra diverse culture e realtà nazionali, che ne ha
modificato l'iniziale slancio, pur senza arrivare a stravolgerne il
significato. In particolare, in ambito anglosassone si è sviluppata una
differente concezione, basata sulla richiesta di prove scientifiche e
razionali forti per giustificare la richiesta di misure precauzionali.
In sintesi, semplificando al massimo, a una iniziale concezione tedesca
di stampo politico-sociale, se ne affiancò e oppose una seconda fondata
su un approccio scientifico-razionale:
· Approccio politico-sociale:
- intervento diretto delle autorità, anche in mancanza di prove scientifiche
- definizione relativamente forte del principio
- attenzione alle preoccupazioni dell'opinione pubblica
· Approccio scientifico-razionale
- visione debole del principio
-
giustificazione dell'intervento mediante valutazioni scientifiche e
razionali costi-benefici delle misure precauzionali e della loro
efficacia
La posizione della Commissione Europea, espressa nella
famosa Comunicazione del 2-2-2000, può essere considerata una sorta di
compromesso fra queste diverse concezioni, resosi necessario anche per
far fronte a possibili accuse di protezionismo o di chiusura alle
regole del libero scambio imposte dal WTO. Se è forse vero che da un
lato l'iniziale slancio, volto alla "cura del futuro", sembra essere in
parte perduto a favore di una maggiore attenzione alla giustificazione
scientifico-razionale degli interventi precauzionali, è anche vero che
resta il richiamo all'enunciato della Dichiarazione di Rio e la
comunicazione resta fedele, in generale, all'idea della precauzione
come azione preventiva in situazioni in cui le conoscenze scientifiche
sono insufficienti o assenti.
Proprio a questo proposito,
l'articolo di Jacques Testart, cui fa riferimento Navarra, fa sorgere
qualche perplessità, come ad esempio quando imputa alla Commissione
Europea la definizione di regole di implementazione del PdP che
riconoscono alla valutazione scientifica lo statuto di conoscenza
incontestabile, sufficiente per l'elaborazione delle decisioni
politiche, ed escludono al processo decisionale qualunque altro tipo di
sapere. A questo proposito, ritengo utile richiamare alcuni punti della
Comunicazione:
"Giudicare quale sia un livello di rischio
'accettabile' per la società costituisce una responsabilità
eminentemente politica. I responsabili, posti di fronte ad un rischio
inaccettabile, all'incertezza scientifica e alle preoccupazioni della
popolazione, hanno il dovere di trovare risposte. Tutti questi fattori
devono quindi essere presi in considerazione.
(...) La procedura
di decisione dovrebbe essere trasparente e dovrebbe coinvolgere tutte
le parti interessate, quanto più precocemente e quanto più ampiamente
possibile."
"I responsabili debbono costantemente affrontare il
dilemma di equilibrare le libertà e i diritti degli individui, delle
industrie e delle organizzazioni con l'esigenza di ridurre o eliminare
il rischio di effetti negativi per l'ambiente o per la salute."
"L'applicazione
del principio di precauzione appartiene, invece, alla gestione del
rischio, quando l'incertezza scientifica non consente una valutazione
completa di tale rischio e i responsabili ritengono che il livello
prescelto di protezione dell'ambiente o della salute umana, animale o
vegetale possa essere minacciato."
Senza entrare ulteriormente
nel merito, si può osservare come la Commissione riconosca la necessità
di un coinvolgimento delle parti interessate, e che la decisione di
applicare il PdP sia eminentemente politica. L'assegnazione del PdP
alla fase di gestione del rischio, e non a quella di analisi del
rischio, risponde del resto proprio a questa impostazione.
Certo,
nella comunicazione esiste una ambiguità non risolta che riguarda il
processo di definizione di un rischio potenziale. Chi riconosce i
rischi potenziali? E chi stabilisce che i rischi potenziali siano
plausibili? La comunicazione assegna un ruolo importante alla
valutazione scientifica, ma soprattutto in relazione alla decisione
circa quali misure intraprendere, poiché è nella natura di questi
rischi potenziali che le conoscenze scientifiche in merito siano
insufficienti o inconcludenti al fine di poterne stabilire la
plausibilità. Tuttavia un ricorso ad analisi scientifiche è inevitabile
anche da un puro punto di vista politico, non fosse altro che per far
fronte alle possibili accuse di protezionismo o di violazione delle
regole del WTO. E l'uso di tutta la conoscenza scientifica disponibile,
per quanto incompleta, è fondamentale per la definizione di risposte
adeguate. L'attivazione del PdP richiede infatti che i rischi cui si
vuol far fronte siano plausibili e le misure adottate siano adeguate.
Il problema in realtà non è quello di un uso della conoscenza
scientifica, ma di integrare nelle decisioni politiche tutti i
possibili tipi di conoscenza che possono essere utili per prendere una
decisione che sia buona da un punto di vista adattativo. E a questo
proposito non si può dimenticare che al di là della comunicazione, è
proprio in Europa che sono nate e si stanno sempre più diffondendo
iniziative di coinvolgimento e partecipazione dei cittadini guidate
anche dagli stessi governi (si veda, per fare solo un esempio, il
dibattito GM Nation? in Gran Bretagna).
2) Anche per ciò che
concerne la definizione di uno spazio asettico concordo con il commento
di Borrello. Il PdP, se bene inteso, parte proprio dal riconoscimento
della incertezza di qualunque conoscenza (non solo scientifica) in
merito a una qualche attività. I sistemi in cui dovrebbe trovare
applicazione il PdP sono pertanto, a mio parere, gli stessi a cui fa
riferimento la cosiddetta "scienza post-normale", secondo la
definizione introdotta da Silvio Funtowicz e Jerome Ravetz. In tali
sistemi, in cui:
· i fatti sono incerti
· i valori sono in disputa
· le poste sono molto alte
· la decisione è urgente
la
soluzione può essere trovata solo in maniera collegiale, utilizzando
tutte le forme di conoscenza che siano in grado di apportare qualche
contributo utile. Nessuna conoscenza da sola è sufficiente, e le
considerazioni di valore diventano fondamentali accanto a quelle
fondate sui fatti. In altri termini, i fatti scientifici non sono più
sufficienti, sia perché incerti (fatti morbidi), sia perché è
necessario anche tener conto dei giudizi di valore su questioni
fondamentali (valori duri). In tal modo siamo sempre più spesso di
fronte alla necessità di dover prendere delle decisioni urgenti su
questioni di fondamentale importanza basandoci su fatti morbidi
(incerti, discutibili, non del tutto verificabili) e dovendo fare i
conti con valori duri in contrasto fra loro, mentre le poste in gioco
sono molto elevate. Questo è l'ambito di applicazione del PdP,
ottimamente descritto dalla metafora della favola indiana del "sentire
l'elefante" proposta da Funtowicz: cinque uomini ciechi cercano di
capire quale oggetto stiano toccando. Ognuno di essi ha una visione
parziale e crede di riconoscere da questa un oggetto differente dalla
realtà (ad esempio, la zampa è un albero, la proboscide un serpente).
Solo un osservatore esterno può formarsi un'idea esatta della
situazione, ma quando non vi è alcun osservatore esterno un risultato
simile, o almeno paragonabile, può essere conseguito mettendo insieme
tutte le osservazioni, con in più la consapevolezza di ciascuno che la
propria è una visione parziale e limitata. Questa è una delle idee base
della scienza post-normale. La ricerca di soluzioni politiche a
problemi tecnologici e scientifici complessi richiede una
partecipazione estesa in cui è importante non solo la soluzione
trovata, ma anche il processo che ha condotto ad essa. Un'altra delle
idee fondamentali è che intorno a ciascun problema vi è una
molteplicità di prospettive legittime. Ogni sistema complesso può
essere studiato solo a costo di inevitabili approssimazioni e
troncamenti, e ogni scelta di questo tipo comporta naturalmente delle
differenze nel modo in cui si osserva il sistema, e nella particolare
visione che se ne ha. Non vi è nessuna prospettiva particolarmente
privilegiata.
Certo, chi richiede un'applicazione forte del PdP
non aderente alla Dichiarazione di Rio potrebbe anche essere portato a
credere nell'esistenza di uno spazio di decisione "puro", in cui magari
basta semplicemente bloccare una attività per risolvere ogni cosa. Uno
spazio in cui sia possibile prendere decisioni pienamente razionali, in
cui ogni alternativa viene esaminata, e di ognuna è possibile definire
le possibile conseguenze di cui possono essere quantificati gli
effetti. Il risultato sarebbe una ideale decisione ottimale. Tuttavia,
anche solo la considerazione dei limiti della nostra razionalità rende
utopistico questo tipo di approccio, per non parlare della complessità
del compito richiesto e della incertezza di tutti i dati che sarebbero
necessari per prendere una simile decisione.
Però, se la decisione
ottimale razionale è impossibile da conseguire, quella che invece si
può cercare di conseguire è invece una decisione "buona" in senso
adattativo, ovvero una decisione in grado di garantire il successo, o
quanto meno di evitare l'insuccesso, del gruppo che la prende. E una
buona decisione in queste condizioni può essere solo quella che deriva
dall'utilizzo di tutte le conoscenze pertinenti e dall'adattamento dei
livelli di aspirazione di tutti coloro che a tale decisione sono
interessati. Le procedure partecipative (non solamente consultazione,
ma partecipazione vera e propria) rappresentano probabilmente la strada
più promettente per ottenere queste buone prese di decisione sociale.