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Data: 13 settembre 2002
Da: Giacomo Correale
Oggetto: Global Compact: tre considerazioni
Non è dubbio che l'iniziativa Global Compact meriti tutto l'apprezzamento, e che
faccia piacere che almeno una azienda italiana, l'Unicredit, abbia presentato un Bilancio
Sociale e ambientale ispirato ai principi di questa iniziativa, con riconoscimenti
americani e europei.
L'articolo di Giulia Crivelli pubblicato sulla rivista di Nemetria "Etica ed Economia", n. 2/2001 |
Vorrei fare solo tre considerazioni con riferimento all'articolo pubblicato sulla
rivista di Nemetria (v. il testo dell'articolo).
1) Il sen. Enrico Pianetta dice: "E' indispensabile che le imprese non si limitino 'a
creare e distribuire ricchezza' ma che diffondano e aiutino a salvaguardare anche altri
valori sociali". Ecco, io continuo a pensare che se le aziende creassero e
distribuissero veramente (e ragionevolmente) ricchezza, sarebbe già un grande risultato.
Questo perchè molte aziende non creano ricchezza o ne creano molto poca, e spesso per
breve tempo, e a favore di poca gente che agisce secondo il principio del "prendi i
soldi e scappa". Già una azienda che basi il suo successo sul creare valore (cioè
ricchezza) per il cliente, ritenendo che questa sia una buona strategia di medio termine
per realizzare a sua volta valore per gli azionisti (il profitto), sarebbe sulla buona
strada. Se poi una azienda capisce, come dice Dubee, che se tratta male i propri
dipendenti sarà probabilmente una azienda di seconda categoria, anche quanto a risultati
economici, avrà fatto altra strada. Lo stesso vale per gli altri stakeholder, a partire
dai fornitori (e opiniuone diffusa che la Fiat sia rimasta per lungo tempo una azienda di
seconda categoria sul piano della qualità perchè prendeva - o prende ancora? - per il
collo i suoi fornitori). Certo, il problema della distribuzione della ricchezza prodotta
tra gli stakeholder è un problema complesso e aperto, che non possiamo affrontare qui.
2) Non mi piacciono molto i tre punti, tra i nove che Global Compact propone alle aziende
come "obblighi" per aderire, relativi all'ambiente. Sembrano supporre che
l'azione di una impresa sia di per sè destinata a danneggiare l'ambiente, e che quindi
l'azienda debba fare qualcosa di contrario ai suoi interessi e vocazioni per tutelare
l'ambiente. Ma chi ha detto che un complesso edilizio, una autostrada, un centro
commerciale, un insediamento produttivo debba essere di per sè lesivo dell'ambiente, e
non piuttosto un elemento di valorizzazione, di miglioramento anche estetico
dell'ambiente? Le idee di Adriano Olivetti circa l'ambiente di lavoro e il rapporto di
questo con la Comunità (il nome del movimento da lui creato) credo abbiano anticipato
molti di questi discorsi e siano ancora valide. E Olivetti non riteneva affatto che queste
idee dovessero andare a detrimento del profitto dell'impresa.
3) Trovo meritevole di grande attenzione la strategia di Unicredit (ho chisto per e-mail
di poter vedere il suo Bilancio Sociale e Ambientale). Per due ragioni: la prima perchè
è proprio a livello di economia finanziaria che la produzione di ricchezza reale (che
ovviamente non vuol dire "fisica") mi sembra più scarsa, anzi con frequenti
episodi di distruzione di ricchezza, oltre che di distribuzioni predatorie. La seconda è
che trovo un po' sorprendente (in senso positivo) che, almeno in Italia, sia una banca
(anzi due, visto che c'è anche il MPS), a preoccuparsi di aderire ai principi di Global
Compact, prima ancora di aziende manifatturiere o di servizi più tangibili. Per questo
l'affermazione di Antonio Colombo a nome della Confindustria, secondo cui "le imprese
italiane sono ormai consapevoli di avere un ruolo non solo economico ma sociale,
addirittura etico" mi sembrano una sorta di lip service e rivelare quanto meno una
sottovalutazione della questione.
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