Esistono farmaci che hanno la capacità di incrementare le prestazioni intellettuali nelle persone sane, sebbene siano studiati e prescritti per curare disturbi di attenzione e iperattività nei bambini (anche in Italia). Alcuni aumentano la concentrazione, (temporaneamente) la memoria e la flessibilità mentale; altre sostanze, permettono di studiare per molte ore, vincendo il sonno e la fatica. Si stima che il sette per cento degli universitari americani vi abbia fatto ricorso; in alcuni campus il tasso salirebbe al venticinque per cento.
Ma c’è un solo modo per procurarsele (oltre a tentare un ordine su Internet): comprare una ricetta sul mercato nero, rischiando sanzioni penali. Dal momento che un recente sondaggio condotto dalla rivista scientifica «Nature» ha svelato che anche scienziati e ricercatori assumono tali farmaci per accrescere le proprie performance, il tema del potenziamento cognitivo («Cognitive Enhancement») sta diventando di grande attualità.
I farmaci che potenziano le prestazioni cognitive vanno equiparati a una forma di doping, per cui andranno sanzionati gli studenti “positivi”, come accade per gli atleti? I farmaci psicoattivi possono determinare cambiamenti persistenti della personalità e, quindi, del vivere sociale? Si creeranno ulteriori disparità sociali legate all’accesso differenziato ai potenziatori cognitivi?
L’innovazione farmacologica in questo caso deve fare i conti con i risvolti morali delle sue applicazioni. E ciò rientra nel vasto campo della neuroetica, che si occupa degli straordinari progressi delle scienze del cervello e del complesso delle loro implicazioni etiche, legali e sociali (Elsi nell’acronimo inglese – si veda anche il Research Program del National Human Genome Research Institute).
Se nel mondo anglosassone ci si è già incamminati sulla strada di una ricerca di alto profilo, l’Italia, che pur vanta punte d’eccellenza nelle neuroscienze e nella scienze cognitive, non ha ancora messo a tema questi dilemmi che sempre più entrano nella vita quotidiana.
Se ne è cominciato a discutere in modo aperto e approfondito, in un proficuo dialogo tra scienziati e filosofi, al convegno “Neuroetica. Le scienze del cervello e il loro impatto sulla società“, svoltosi presso l’Università di Padova il 5 e 6 febbraio scorsi. Tra i partecipanti, Pietro Pietrini (Università di Pisa), Salvatore Aglioti e Alberto Oliverio (La Sapienza), Alberto Priori (Milano Statale) e Giuseppe Sartori (Padova) sul fronte dei neuro scienziati; Michele Di Francesco (San Raffaele Milano) Mario De Caro (Roma Tre), Adriano Pessina (Università Cattolica), Laura Boella (Milano Statale) e Antonio Da Re (Padova) sul fronte filosofico.
L’evento è stato promosso con il contributo della Fondazione Giannino Bassetti e il presidente, Piero Bassetti, nel suo intervento di fronte a una vasta platea ha sottolineato il concetto di responsabilità nell’innovazione, rimarcando i ruoli distinti di scienziati, imprenditori e politici nella promozione e nel “governo” del progresso scientifico e tecnologico, con tutte le sue conseguenze.
Andrea Lavazza è giornalista (attualmente caporedattore centrale ed editorialista di “Avvenire”) e studioso di scienze cognitive. Tra le sue più recenti pubblicazioni, “L’uomo a due dimensioni. Il dualismo mente-corpo oggi“, Bruno Mondadori, 2008.