“Etica pratica” è una nuova collana di saggi diretta da Roberto Mordacci per la Bruno Mondadori dove si intende sondare le forme concrete dell’agire individuale, sociale e politico, per rintracciare in esse i valori e i problemi che le rendono di forte rilievo morale. In contrasto con l’idea che l’etica sia una sorta di dottrina da applicare al mondo del fare, la prospettiva degli studi qui proposta cerca piuttosto di far emergere dall’interno delle pratiche le questioni aperte e i possibili criteri per dirimerle.
Attività diverse come l’economia, la ricerca scientifica, la medicina, la politica, la tecnologia, la produzione e l’uso delle risorse energetiche hanno ripetutamente sollecitato la riflessione morale di filosofi e altri studiosi, in termini anzitutto pratici: in vista, cioè, di analisi realistiche e di soluzioni possibili. Uno spazio di approfondimento in questo ambito è una risorsa importante per la cultura contemporanea.
In questa stessa ottica proponiamo una recensione di Silvia Zullo, dell’Università degli Studi di Bologna, del libro “Giustizia e Genetica” di Michele Loi.
Enhancement umano e giustizia
di Silvia Zullo
Nell’ambito dei problemi inerenti il rapporto tra gli sviluppi futuri della genetica e le questioni di giustizia sociale, il volume di Michele Loi rappresenta un contributo interessante e innovativo, soprattutto nel dibattito italiano dove sinora tali problematiche sono state poco discusse.
Il tema dell’enhancement umano e genetico, cioè del miglioramento delle caratteristiche del genoma attraverso la tecnica, è al centro dell’indagine condotta dall’autore che ne coglie le criticità attraverso una riflessione incentrata sull’ idea “di esplorare il modo in cui i possibili utilizzi di queste tecnologie ci costringono a ripensare la natura della giustizia sociale“.
In questo intreccio tra miglioramento genetico e giustizia risiede l’originalità e la novità del volume, infatti il tema dell’enhancement è stato perlopiù indagato nelle sue implicazioni etiche mentre l’autore offre un segmento della riflessione filosofico-politica contemporanea su questo tema.
Nello specifico, l’autore indaga il problema dell’accesso alle potenzialità offerte dal miglioramento genetico delle caratteristiche ereditarie degli individui prima della loro nascita, reso possibile dalle tecniche di manipolazione della linea germinale e dalla selezione pre-impianto. Nell’ambito di queste tecniche, la riflessione sul tema della giustizia sociale, che si sviluppa a partire dalla distinzione tra interventi sul genoma normale che migliorano le aspettative di salute e interventi sul genoma normale che migliorano le aspettative di altre caratteristiche (altezza, sesso, ecc…), si pone l’obiettivo di ripensare una teoria ideale normativa della giustizia che tenga conto delle ineguaglianze sollevate dall’accesso ai potenziamenti genetici all’interno dello schema di cooperazione sociale.
Cosicché, un esame delle istituzioni fondamentali dello Stato si rende necessario per configurare la società futura, segnata dalle nuove opportunità derivanti dalle tecnologie genetiche e per regolamentarne il mercato.
L’analisi non può che partire da quella che è considerata, in ambito contemporaneo, la più importante tra le teorie relative alla distribuzione delle risorse e delle opportunità per ridurre le diseguaglianze, ossia la teoria della giustizia come equità di John Rawls.
L’autore muove da un riferimento imprescindibile, il secondo principio di giustizia rawlsiano, che mira a promuovere l’eguaglianza delle opportunità e dà priorità al miglioramento della posizione di chi è più svantaggiato in termini economici e sociali, per mostrare poi come l’applicazione di tale principio al contesto post-genomico sia problematica e richieda alcune modifiche sul piano concettuale e interpretativo.
Sullo sfondo del suddetto principio rawlsiano di giustizia vengono sottoposte a critica le attuali proposte liberali ed egualitarie, accomunate dalla difficoltà di applicare il suddetto principio nell’era post-genomica, dove la tradizionale distinzione rawlsiana tra beni naturali e beni sociali rende trasparenti e controllabili quei fattori che stanno alla base delle diseguaglianze genetiche e che nel modello rawlsiano di giustizia sono chiamati “fattori arbitrari”.
Viene dunque a cadere la netta distinzione tra beni naturali e beni sociali, tra dotazioni naturali iniziali e dotazioni realizzate, e ciò porta a domandarsi se stiamo considerando i genomi modificati o selezionati alla stregua di beni sociali genetici o come beni naturali socialmente aumentati.
Alla luce di questa ambiguità non è chiaro come dovrebbe essere interpretato il secondo principio di giustizia rawlsiano.
L’autore prende in considerazione, dapprima, gli studi di Norman Daniels che hanno esteso i principi di giustizia rawlsiani al contesto reale delle cure e dell’assistenza sanitaria, nel tentativo di garantire socialmente servizi necessari a mantenere e a ristabilire il “normale funzionamento della specie”.
Se Rawls non tiene conto delle abilità naturali come distribuenda, la teoria di Daniels invece si applica al problema dell’accesso alle biotecnologie per migliorare o rimuovere diseguaglianze naturali.
Tuttavia, nella teoria di Daniels l’enhancement genetico delle abilità normali non rientra nella domanda di giustizia, il cui obiettivo è far fronte solo alle diseguaglianze di abilità dovute a cause naturali e che si collocano al di sotto della soglia normale,
dunque l’enhancement dei tratti non patologici non è considerato.
Un ulteriore passo in avanti si ha con le dottrine dell’egualitarismo della sorte (luck egalitarism) che rappresentano il compimento della concezione della giustizia implicita in Rawls, perlomeno nelle tesi proposte dai tre principali esponenti di questo approccio, Dworkin, Arneson e Cohen.
L’autore esamina l’intuizione di fondo comune agli egualitaristi della sorte, secondo la quale le diseguaglianze dovute a fattori di cui l’individuo non è responsabile sono ingiuste, sottolineando come anch’essa non si riveli convincente se la si applica in ambito genetico perché si arriverebbe a proclamare una forma di egualitarismo genetico paradossale, in cui il principio di eguaglianza genetica produrrebbe un interferenza nella sfera privata del soggetto e un livellamento delle scelte e delle libertà individuali verso il basso.
Meglio sarebbe far leva sul principio di differenza genetico, elaborato da Colin Farrelly, che poggia su una concezione prioritarista, e non egualitaria in senso stretto, secondo cui è moralmente più importante arrecare beneficio a coloro che stanno peggio.
Ma in questo caso l’idea di giustizia sarebbe tale da dover tener conto solo della distribuzione dei vantaggi genetici, ignorando l’esigenza concreta di distribuire anche i vantaggi sociali.
Anche la teoria dell’eguaglianza di risorse di Dworkin, che prevede solo una riduzione delle diseguaglianze dovute alla sorte bruta o naturale, non è efficiente in ambito genetico perché provoca iniquità: lo Stato dovrebbe compensare sia gli esiti delle scelte genetiche ereditarie compiute dai genitori sui figli, dal momento che i figli, ritrovandosi con caratteristiche genetiche già scelte, sono portatori di una sorte bruta, sia i “torti” dovuti al caso e ciò produrrebbe inefficienze economiche.
Quello che emerge dalle suddette proposte è che i principi di giustizia ralwsiani, così configurati, si rivelano inefficienti perché attraverso l’applicazione di essi alle istituzioni sociali è possibile controllare solo in minima parte la distribuzione e la trasformazione del potenziale genetico, ciò infatti dipende anche da eventi casuali e dalle scelte libere e non prevedibili dei cittadini.
Lo Stato non può controllare direttamente le caratteristiche genetiche degli individui, ma solo influenzare le scelte individuali incentivando o disincentivando interventi di tipo diverso.
A fronte di queste analisi e interpretazioni, l’autore rielabora il principio di equa eguaglianza di opportunità sulla base dell’idea che la giustizia come equità debba tradursi in un insieme di norme in grado di fissare le condizioni che rendono le scelte libere all’interno dello schema di cooperazione sociale.
Qui l’autore prende le mosse dalla nozione di giustizia procedurale di sfondo di Rawls per individuare un sistema di istituzioni alle quali affidare la responsabilità di distribuire i vantaggi della cooperazione sociale.
Se Rawls affida questo ruolo ai mercati e alle istituzioni politiche democratiche, e qui il riferimento è alla discussione sull’equo valore delle libertà politiche sviluppata da Rawls in Liberalismo politico, dove equo valore significa che ciascun cittadino deve avere un’opportunità effettiva equa di utilizzare lo schema di opportunità definito dai suoi diritti politici, allo stesso modo l’autore associa la giustificazione del principio di equa eguaglianza di opportunità a quella del principio dell’equo valore delle libertà politiche.
L’intento è di garantire un’eguaglianza approssimativa nelle basi di partenza: si muove dal presupposto che le diseguaglianze possibili in questa fase non possono essere più grandi della naturale variazione dei talenti e delle motivazioni umane.
Con queste premesse l’autore entra nel merito dell’analisi delle “patologie sociali” proprie di una società post-genomica, cioè una società che consenta la massima libertà nell’uso delle tecnologie procreative, quindi in grado di alterare il genoma o di selezionarlo.
L’analisi, peraltro molto dettagliata, è tesa a supportare la conclusione che una società che non tuteli e rispetti il principio di equa eguaglianza di opportunità e l’equo valore delle libertà politiche si troverà ad affrontare gli stessi “mali sociali” di cui è affetta una società pre-genomica.
In questa prospettiva, l’autore riconosce l’esigenza di riformulare il principio di equa eguaglianza di opportunità che diventa così il principio di equa eguaglianza di opportunità estesa, in maniera tale da essere applicato non solo alla genetica e alla distribuzione iniziale delle doti naturali, influenzate dall’accesso alla genomica, ma a tutte le istituzioni considerate come sistema complessivo, al fine di operare un bilanciamento delle risorse che lo Stato deve destinare a tutte le sfere della vita sociale del cittadino ed evitare che tutte le risorse sociali disponibili siano destinate al conseguimento dell’equità solo nella sfera della genetica.
Infatti, la teoria dell’eguaglianza di opportunità difesa nel volume è una teoria socio-strutturale, nella quale le diseguaglianze derivano da opportunità dovute a una struttura istituzionale non giustificabile in posizione originaria e le differenze genetiche sono rilevanti solo quando sono prodotte da un sistema di accesso agli enhancement che nel lungo periodo determina l’aumento delle diseguaglianze naturali di abilità tra le classi.
Uno dei problemi di tale concezione, che l’autore correttamente pone in risalto, è quello di non poter rimuovere le disabilità dovute a gravi malattie genetiche, poiché queste tendono ad essere rare e la distribuzione dei geni in questione non può influire in maniera significativa sugli equilibri sociali, infatti è poco probabile che una differente ricorrenza di tali geni possa determinare uno squilibrio di potere politico ed economico, capace di compromettere il funzionamento equo di mercati e politica.
Tuttavia, l’autore, anche per raggirare questo problema, chiarisce, in maniera quasi doverosa se si considerano le premesse liberali ed egualitarie poste all’inizio dell’indagine, quali sono i vincoli cui sono soggetti le uniche istituzioni in grado di garantire eguali libertà, cioè i mercati concorrenziali e il governo democratico rappresentativo: in primo luogo, le posizioni di partenza non devono dipendere dalla distribuzione della ricchezza e dal potere della generazione precedente (principio di equa eguaglianza di opportunità estesa), in secondo luogo, le diseguaglianze di reddito tra diverse posizioni sociali devono essere tali da aumentare le aspettative di reddito della posizione associata alle aspettative peggiori (principio di differenza).
Per armonizzare la combinazione dei due principi, l’autore introduce l’idea di beneficenza che lo Stato può imporre per giustificare forme di potere coercitivo tese a favorire gli sforzi individuali di beneficenza entro uno schema collettivo.
In quest’ottica, non viene disincentivato l’accesso alle terapie e alla selezione genetica per malattie genetiche rare perché tali interventi non riguardano l’equità ma la beneficenza.
L’autore opta per un’idea di sviluppo delle tecnologie genetiche legata al modello della beneficenza che ricorre quando è ragionevole presumere che la maggior parte dei cittadini consideri, ad esempio, un obbligo morale di beneficenza fornire ai genitori portatori di malattie genetiche le risorse necessarie per accedere ai servizi genomici necessari ad evitare di trasmettere la malattia al proprio figlio.
Quindi l’approccio rawlsiano che viene difeso nel volume trova giustificazione nella necessità di preservare la coerenza di una concezione socio-strutturale dell’eguaglianza di opportunità nella quale, in ultima analisi, sono considerate ingiuste le diseguaglianze di opportunità dovute a un sistema che inevitabilmente produrrà ingiustizie o le ha già prodotte in passato.
In questo sistema, se il finanziamento pubblico non può supportare una determinata pratica, come la diagnosi prenatale finalizzata all’aborto selettivo, ciò non implica che tale pratica debba essere proibita ai singoli in un libero mercato: non finanziarla significa solo “impossibilità di giustificare uno schema di beneficenza collettiva imposta (nelle circostanze sociali date)“.
Michele Loi, Giustizia e Genetica, Bruno Mondadori, Milano-Torino 2011, pp. 201, ISBN 9788861596054
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(foto inizio pagina: Bilancia elettrostatica (Tempio Voltiano, Como) – Alessandro Volta – da Flickr)