Nelle scorse settimane, in occasione del decennale del sequenziamento del genoma umano, molti media soprattutto all’estero hanno riservato ampi spazi alle prospettive offerte dalle nuove tecnologie del Dna. Uno speciale di sette articoli, sul settimanale inglese The Economist ha esaminato la questione anche dal punto di vista delle ricadute economiche e sociali, oltre che mediche e scientifiche. Mentre uno degli articoli che New Scientist ha dedicato al tema ha fatto il punto sui risultati già ottenuti e su quelli che, almeno fino a oggi, sono stati disattesi; una riflessione su questo punto è stata proposta anche sul Corriere della Sera da Edoardo Boncinelli.
Rispetto agli sviluppi futuri, tuttavia, un fatto recente ed estremamente rilevante sembra essere passato in secondo piano. In molti hanno infatti sottolineato il ruolo fondamentale che la ricerca privata può avere in questo settore. Ma come ha sottolineato un lucido articolo del New England Journal of Medicine, lo scenario in cui le aziende biotech si troveranno a operare nei prossimi anni potrebbe cambiare radicalmente se venisse confermata in appello la sentenza con cui il giudice federale di New York, Robert Sweet, ha annullato i brevetti riguardanti due geni. La notizia, ripresa a inizio aprile anche dal Corriere della Sera, è la seguente: accogliendo le istanze dell’American Civil Liberties Union (ACLU) e della Public Patent Foundation (PUBPAT) il giudice Sweet ha invalidato sette brevetti che riguardano i geni BRCA1 e BRCA2, le cui mutazioni determinano la predisposizione ai tumori dell’ovaio e della mammella. I brevetti, detenuti dall’Università dello Utah, erano concessi esclusiva alla Myriad Genetics, azienda nata in seno alla stessa università nel 1991, che dal 1996 produce anche i test per esaminare i geni in questione. Dal punto di vista della salute pubblica, questa analisi genetica è estremamente rilevante, dato che la probabilità di ammalarsi arriva all’85% nelle portatrici delle mutazioni, e che il tumore della mammella è di gran lunga il più comune nel sesso femminile (colpisce una donna su 10 nell’arco della vita). Avendo l’esclusiva dei brevetti, la Myriad detiene però anche il monopolio sul test genetico, il cui costo è lievitato nel tempo da 1.600 dollari agli attuali 3.150. L’azione legale è partita proprio perché il prezzo elevato del test non permette a tutte le donne di accedervi, almeno negli Stati Uniti. Ma la vicenda ha anche altre implicazioni.
Nelle 152 pagine che motivano la sentenza, Sweet sostiene che «i geni, giacché prodotti “naturali”, rientrano nel novero delle cose che non possono essere brevettate». Contro questa argomentazione, più volte negata o ribadita nell’arco dei due decenni scorsi, si schierano le aziende biotech, affermando il principio, che altri giudici hanno sostenuto in diverse occasioni, secondo cui l’atto di isolare il gene lo rende automaticamente diverso da ciò che esso è in natura, e quindi brevettabile. Questo escamotage ha fatto sì che oggi il 20 per cento dei geni umani sia già stato brevettato, ma dal punto di vista tecnico è piuttosto dubbio. Se infatti il gene perdesse le sue caratteristiche una volta isolato, i test genetici, messi a punto basandosi sulla sua sequenza, non potrebbero funzionare sul Dna delle persone che vi si sottopongono.
Ma chi sostiene la non brevettabilità dei geni porta argomentazioni molti più pesanti di quelle strettamente tecniche, alcune delle quali sono state ben espresse da Joseph Stiglitz e John Sulston, premi Nobel rispettivamente in economia e medicina, in un editoriale del Wall Street Journal disponibile online a pagamento. I due affermano quanto segue: «Chi sostiene la brevettabilità dei geni dice che i privati non investirebbero nella ricerca senza l’incentivo economico che deriva dal sistema dei brevetti. Noi crediamo che una più profonda conoscenza dell’economia e della scienza dell’innovazione porti alla conclusione esattamente opposta». Infatti – argomentano i due – a fronte del rischio che una singola azienda detenga il monopolio su un test genetico, qualsiasi beneficio economico (per quell’azienda) risulta marginale se confrontato con gli elevati costi (anche economici, oltre che sociali) che derivano dal fatto che non tutti possono sottoporsi al test, oppure possono farlo solo a caro prezzo. Se invalidare i brevetti sui geni dovesse portare a un calo degli investimenti privati in ricerca, questo dovrebbe essere compensato dagli investimenti pubblici, giacché anche lo Stato avrebbe solo da guadagnare da un sistema che permette ai suoi cittadini di avere accesso ai sistemi più moderni di diagnosi. Stiglitz e Sulston si soffermano poi sul fatto che la brevettabilità di conoscenze basilari, come è appunto quella della sequenza di un gene in medicina e biologia (paragonata ai teoremi per la matematica), è di ostacolo alla ricerca perché impedisce agli scienziati di accedere liberamente a informazioni fondamentali.
L’articolo del Wall Street Journal riprende parte delle argomentazioni proposte in una serie di studi pubblicati dalla rivista medica Genetics in Medicine, che sono il risultato di un lavoro durato due anni, che il governo americano aveva commissionato a un team di ricercatori della Duke University, diretto da Robert Cook- Deegan, proprio con l’obiettivo era di valutare l’utilità dei brevetti sui geni. Altri punti che emergono negli studi pubblicati riguardano il carattere discriminatorio di terapie e test cui solo una fetta della popolazione può accedere e, non ultimo, il fatto che il sistema dei brevetti sul Dna, portando con sé il monopolio del test genetico, può portare a una bassa qualità del test stesso e all’impossibilità di ricorrere a un altro metodo per confermare la diagnosi. In un’epoca in cui il parere di un secondo medico e l’impiego di esami diversi per valutare un malato rappresentano ormai la norma, avere a disposizione un unico test è un limite di non poco conto.
—-
fotografia: “Franco Angeloni – The Super Genetic Market (2008)” (particolare) di .allienato da Flickr