La conoscenza come nuova frontiera per la società e l’economia: il salto di paradigma più profondo dai tempi della rivoluzione industriale pone una sfida radicale ai criteri manageriali e organizzativi oggi prevalenti. Il libro ne offre una chiave interpretativa originale, e propone un modello di impresa nuovo, basato non sul paradigma della quantità, ma su quello della bellezza.
Il pensiero sistemico e il pensiero complesso ci accompagnano alla comprensione delle conoscenze tacite, dell’auto-organizzazione, delle reti interattive, dell’interdipendenza nell’ecosistema; e, insieme all’osservazione degli sviluppi nelle imprese più orientate all’innovazione, sono alla base di linee guida e strumenti concreti per costruire e governare gli ambienti e le attività in cui il nuovo modello di impresa prende corpo, colmando i buchi strutturali che oggi inibiscono una piena ed efficace convergenza delle conoscenze e dei capitali.
Paolo Zanenga
Le reti di Diotima
Società della conoscenza ed economia della bellezza
Biblioteca di testi e studi
Carocci Editore, Roma 2010, pp. 288
ISBN 9788843053193
LE RETI DI DIOTIMA
Una visione della responsabilità dell’innovazione
di Paolo Zanenga
Questo nuovo modello di impresa si propone al “nuovo paradigma” dell’economia e della società.
Il “vecchio paradigma” fa riferimento a un modello in cui l’impresa si realizza attraverso un sistema “azienda” in cui convergono dall’esterno capitali, risorse umane e tecnologia per svolgere un determinato business secondo un “modello macchina”, che per essere competitivo deve essere soprattutto efficiente. Su questo paradigma si sono sviluppate attraverso un percorso di circa due secoli il management e l’economia aziendale. Concetti epocali come la divisione del lavoro e poi la sua versione più spinta, l’organizzazione scientifica, hanno formato la nostra idea di impresa fino a rendere la parola quasi sinonimo di azienda.
Questo è l’essenziale del “vecchio paradigma”. In realtà, anche nel passato, come nel presente, sono esistite ed esistono imprese che non sono necessariamente aziende, e che sono piuttosto progetti o meglio intraprese (esempi: una spedizione coloniale, una produzione cinematografica, una grande opera isolata). Nel passato preindustriale anzi questa era la regola.
Oggi, e ormai da oltre un ventennio almeno, stiamo assistendo a un’evoluzione dell’economia che mette in crisi il “vecchio paradigma”. Il primo forte scricchiolio si è avuto negli anni ’80, quando si è visto che una competizione sui costi non era vincente, perché la qualità, giudicata dai clienti, non dagli ingegneri dell’azienda, contava di più del prezzo. Era il punto di partenza di una scalata del valore intangibile nei confronti di quello tangibile che non si è più fermata. Più recentemente, il web ha accelerato questo processo, e oggi molta economia, anche se corrisponde ancora al vecchio paradigma, è in piena crisi, perché il valore (tangibile) che produce non riesce più a retribuire i fattori della sua produzione; ci riesce ancora nelle economie emergenti a bassissimo costo del lavoro, ma non ci vorrà molto perché le cose cambino anche in quei paesi: i mercati sono globalizzati, anche quelli del lavoro.
Il Nuovo Paradigma è quello in cui la materia prima è la conoscenza, soprattutto la conoscenza tacita, che produce il valore intangibile: se accettiamo questo, le elaborazioni sviluppate intorno al management durante il vecchio paradigma, vengono quasi tutte meno. La divisione del lavoro deve essere completata da una grande trasversalità delle competenze, e riunire le risorse in un’azienda-macchina, con norme e procedure, non serve più, anzi crea un blocco allo sviluppo.
Nel Nuovo Paradigma, la produzione di valore non avviene più nelle “stazioni di lavoro”, ma ai “bordi tra conoscenze diverse”. Il fattore umano non si esprime tanto col lavoro, quanto mettendo a disposizione “diversità culturali”. La tecnologia di punta non è più per automatizzare operazioni, ma per connettere contesti cognitivi. I capitali non coprono più investimenti in mezzi di produzione, ma i rischi di cammini esplorativi (l’innovazione). I mercati e i clienti non sono più i “target” dell’innovazione e della produzione, ma anche e soprattutto co-innovatori: la vendita non è più l’atto finale di un processo di sviluppo e produzione, ma la partecipazione a un processo di condivisione in cui l’acquisto non si esaurisce in uno scambio singolo, ma prende forma in una collaborazione creativa continuata (anche se discontinua).
Questo cambiamento paradigmatico ha un forte impatto sulla relazione tra business e “sistema mondo”. Oggi l’impresa non è un soggetto predefinito, come l’azienda, ma acquisisce un’identità via via che interagisce con altri soggetti, sempre più numerosi e a loro volta interconnessi: si comporta come un soggetto cognitivo, cioè come un quasi-vivente.
L’innovazione nel modello di business tradizionale è periodicamente necessaria per riportare la redditività a livelli adeguati, ma ha ritorni decrescenti (via via i competitori si allineano e la concorrenza diminuisce i margini). Nel Nuovo Paradigma l’innovazione in rete può scatenare altre innovazioni, perché induce nuove conoscenze in altri contesti cognitivi, creando una sorta di reazione a catena, quindi con ritorni crescenti. La concorrenza diretta non è rilevante, le innovazioni sono radicali e poco confrontabili l’una con l’altra (la strategia dell'”oceano blu”).
È la dimensione tempo a cambiare il gioco: un business routinario era un tempo l’ideale, l’innovazione serviva ad avviare un ciclo, lungo la cui durata era la ripetitività a produrre ricchezza.
L’economia della ripetitività si è affermata sino ai suoi limiti: la produzione ripetitiva privilegia l’omologazione rispetto alla diversità, riduce lo spazio creativo del lavoro, diminuisce le opportunità di rinnovamento. Il mito dello scale-up che ne deriva, influenza tutto il sistema decisionale a livello di imprese e anche a livello di istituzioni, e mette il potere a tutti i livelli al servizio dell’omologazione della domanda e dell’offerta, nonché dei tempi lunghi che frenano l’innovazione.
Ma è evidente che più si spinge l’omologazione, più cresce il valore della diversità: pur aumentando al massimo qualità e flessibilità, la tenaglia che chiude il modello industriale tra le necessità contraddittorie dei grandi volumi per contenere i costi e della grande diversificazione per sostenere il valore, continua a stringersi.
Nel nuovo paradigma, la forza motrice dell’economia, non è data dalla produzione di merce, ma dall’emersione del nuovo. In questo modo la diversità è premiata. Nel nuovo modello di impresa conta la capacità del sistema-impresa di autorappresentarsi in un ecosistema ampio e ricco, unico modo per disporre di un capitale sociale importante e per potersi approvvigionare di conoscenze rilevanti e diversificate.
A questo scopo, sia le reti locali sia quelle globali sono importanti: un sistema-rete ideale è articolato su scala globale e ha i suoi nodi radicati a livello locale.
L’impresa tradizionale ha un rapporto difficile con la responsabilità: il suo controllo è quasi costantemente vincolato dalle sue scelte a monte. L’impresa-rete, focalizzata sulla creazione e sull’innovazione, si pone come intrinsecamente più responsabile. I grandi sviluppi incombenti dell’intelligenza connettiva possono portarci a un circolo virtuoso che si avvale di una conoscenza enormemente espansa. Tuttavia, errori di interpretazione in un sistema così fortemente interconnesso possono facilmente propagarsi e trasformare lo stesso circolo da virtuoso a vizioso. Questa intelligenza connettiva tende a diventare protagonista del giudizio etico e quindi ad assumere una grande importanza politica, l’impresa-rete in un centro di responsabilità. Il che sembra ragionevole, perché un’impresa in cui l’innovazione è frutto di un rapporto più diretto tra sapere e società, è anche il luogo in cui la responsabilità può essere esercitata più consapevolmente. Inoltre la sua esistenza è legata a doppio filo a quella degli ecosistemi che essa stessa ha contribuito a costruire, e a cui fa continuo riferimento per alimentare la sua capacità di creare. Inoltre, mentre il valore della produzione si basa su trasformazioni tangibili che consumano risorse del pianeta, più o meno limitate, il valore dell’innovazione si basa sulla creazione di valore intangibile, la cui fonte – i contesti cognitivi – è inesauribile.
Sembra di essere dunque alla fase iniziale di un nuovo ciclo, in cui l’impresa, anziché limitarsi a un confronto con istituzioni regolanti, contribuisce a creare un ecosistema complesso, con un DNA che include un sistema immunitario contro le derive di non responsabilità e non sostenibilità che potessero minacciarlo.
aprile 2010