Se la scientific governance riguarda il ruolo degli scienziati in tema di decisioni pubbliche, non possiamo non prendere in considerazione il modo in cui un ricercatore comunica i risultati del proprio lavoro. Infatti ogni volta che uno scienziato si esprime attraverso una rivista specializzata non solo fa opinione verso il grande pubblico ma, probabilmente proprio perchè fa opinione, influenza le decisioni politiche in tutti quei settori della vita pubblica che sono toccati dalle sue ricerche. Non è, perciò, fare della dietrologia chiedersi se, a volte, la comunicazione scientifica sia determinata anche da motivazioni non scientifiche.
Nei due articoli riportati in calce e pubblicati, senza indicazione dell’autore, su Il Riformista vengono riportati alcuni casi che rimandano, appunto, al come l’attivismo politico possa essere influenzato dalla, e influenzare, la comunicazione scientifica.
12 settembre – Science e Nature sotto accusa per conflitto di interessi tra libera ricerca e business
Science e Nature sono finite nel mirino di una organizzazione dal nome altisonante: il Center for Science in the Public Interest (Cspi). L’accusa? Le loro policies sul conflitto di interessi non sarebbero all’altezza della situazione e non tutti gli articoli pubblicati dalle due riviste scientifiche più influenti del mondo sarebbero corredati dalle opportune postille su eventuali legami fra gli autori e il mondo del business. Ma l’intera vicenda ricorda la vecchia storia del bue che dice cornuto all’asino. Denunciare il connubio tra scienza e mercato è una moda dilagante ormai negli ambienti politicamente corretti: si è affermata come la mania del nuovo millennio. Di più, per il Cspi e decine di altre organizzazioni è diventato un utile stratagemma per guadagnarsi la ribalta mediatica oltre che una comoda scusa per scartare dati scientifici solidissimi ma in conflitto con la propria filosofia politica.
Basta insinuare il dubbio che fra gli autori dello scomodo studio ce ne sia uno che 10 anni prima ha collaborato con industria. Magari vanta anche una lista di pubblicazioni da fare invidia a un premio nobel, ed è considerato un’autorità assoluta nel suo campo, ma cosa volete che conti: lo scienziato ormai è blacklisted. Il Cspi ospita persino sul suo sito web un motore di ricerca per smascherare gli scienziati collusi o presunti tali. Peccato che il centro sembri assai meno interessato a denunciare i conflitti di interessi di diversa natura, per esempio quello tra scienza e mondo dell’attivismo che ha caratterizzato alcune delle bufale scientifiche più grosse dell’ultimo decennio. Come il lavoro di Ignacio Chapela sulla contaminazione genetica del mais messicano, pubblicato e poi ritirato da Nature con grande clamore. E peccato che vada ancora meno di moda indagare su certi perversi legami tra attivismo e industria. Se lo si fa, per esempio utilizzando il motore di ricerca Activist Cash, si scopre che anche il Cspi ha i suoi scheletri nell’armadio.
L’organizzazione fondata dall’attuale direttore Michael Jacobson insieme a due avvocati del Center for the Study of Responsive Low di Ralph Nader è diventata famosa per le sue crociate contro quasi tutto ciò che c’è di nuovo (dai soft drink alle patatine fritte), ma per molte di queste campagne ha ricevuto finanziamenti dall’industria. Il peso del peccato evidentemente dipende dal nome del peccatore.
20 settembre – Riviste scientifiche in ecstasy. Troppe pressioni politiche e fame di scoop a tutti i costi
Mettete due scienziati insieme al bar e con ogni probabilità si scambieranno battute al vetriolo sulla politica editoriale delle riviste scientifiche, sempre più tentate dalle sirene dello scoop. Ripetete l’esperimento con due farmacologi e la conversazione finirà sullo scandalo che sta investendo Science in questi giorni.
Due anni fa la rivista dell’American Associatìon for the Advancement of Science (Aaas) ha rilanciato il rischio ecstasy pubblicando un lavoro apocalittico Severe Dopaminergic Neurotoxicity in Primates After a Common Recreational Dose Regimen of MDMA (“Ecstasy”) : una dose pari a quella assunta in una sola notte di sballo sarebbe bastata a uccidere 2 scimmie su 10 e danneggiare i neuroni che controllano movimento ed emozioni nelle altre.
Molti specialisti avevano sentito puzza di bruciato fin da subito: i giovani che consumano ecstasy ogni weekend sono decine di milioni, possibile che un’ecatombe di queste proporzioni sia passata inosservata? Dobbiamo davvero attenderci un’epidemia di Parkinson? Poi finalmente è arrivata la risposta: George Ricaurte della Johns Hopkins University non è più riuscito a riprodurre i propri risultati e si è accorto di aver commesso un grossolano errore: a causa di uno scambio dì etichette le scimmie non erano state trattate con l’ecstasy ma con lo speed, che notoriamente danneggia i neuroni di dopaminergici. Il lavoro dì Science perciò è stato ritirato, e pare che altri studi pubblicati da Ricaurte su riviste minori faranno la stessa fine.
Tutto a posto dunque. Niente affatto. L’allarme generato dal lavoro incriminato ha dato benzina alla campagna proibizionista, soprattutto in Usa, aiutando il passaggio del cosiddetto Anti-Rave-Act. E poi su Science continuano ad addensarsi nuvole di tempesta. Grandi nomi del mondo scientifico che avevano contestato da subito gli strani risultati – tra cui Colin Blakemor del Medical Research Council – non si limitano a sollevare la domanda di rito: com’è possibile che un simile studio abbia superato la peer-review? Ma pretendono una risposta, chiedono che Science pubblichi i giudizi dei reviewer che hanno esaminato e promosso il manoscritto. E c’è anche chi solleva dubbi sull’indipendenza politica del National Institute of Drug Abuse che ha finanziato il lavoro e dei vertici dell’Aaas che l’hanno difeso.
Le responsabilità individuali restano tutte da provare ma un fatto è certo: le pressioni politiche e lo scoopismo partoriscono cattiva scienza. Questa potrebbe essere l’ennesima dimostrazione.