(Questa pagina è del 2005 e questo il motivo per cui la riproponiamo:
Due settimane fa si è spento a 88 anni Daniel Callahan, pioniere della bioetica e co-fondatore nel 1969 vicino a New York del primo centro dedicato alle riflessioni bioetiche della biomedicina moderna, l’Hastings Centre, diventato in breve un punto di riferimento nel mondo in questo settore. Uno dei temi più esplorati da Callahan è stato senz’altro le criticità della medicina moderna, che ponendosi come strumento per eliminare i limiti della finitezza della vita, usando la tecnologia per rimandare indefinitamente il passaggio naturale alla morte, crea dei sistemi economicamente non sostenibili e socialmente non inclusivi, diremo con parole correnti. Una riflessione che ha suscitato grandi dibattiti, ma che risuona ancora oggi ad anni di distanza attuale e cogente. Callahan è stato ospitato in Fondazione Bassetti nel febbraio 2005, dopo una sua lecture, promossa sempre dalla Fondazione Bassetti, presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, dal titolo “The implications of innovation in the health field”.
In occasione della sua scomparsa riproponiamo i materiali raccolti sul nostro sito in quell’occasione certi che le parole di Callahan e dei commentatori dei due eventi, anche a distanza di quasi 15 anni, possano ancora sollevare dilemmi rilevanti, le cui risposte e soluzioni, ora più che mai, non sono più rimandabili.)
~~ Pagine 9 – 20 ~~
Quando ho cominciato a scrivere questo libro nell’atmosfera promettente del 1994, tutto faceva pensare che gli Stati Uniti avrebbero avuto di lì a poco un piano universale di assicurazione contro le malattie. Non poteva essere diversamente. Tutti sembravano volerlo, e con buone ragioni. Circa 37 milioni di persone erano prive di un’assicurazione contro le malattie e un numero ancora più elevato di cittadini vedeva quotidianamente minacciata la propria copertura, l’opinione pubblica era favorevole, Bill Clinton ne aveva fatto un punto qualificante della propria campagna e il mondo imprenditoriale americano era alla ricerca di una via d’uscita dall’aumento dei costi dell’assistenza sanitaria.
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Oggi sappiamo per certo che non si è fatto nulla. Il Congresso non ha varato nessun progetto: non una legge, non una riforma anche solo parziale.
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Ma la circostanza più clamorosa e preoccupante era questa: in crisi era l’assistenza sanitaria universale. Nessun Paese sembrava in grado di mettere in cantiere una riforma del proprio sistema di assistenza sanitaria che gli consentisse di tenere il passo con una popolazione che invecchia, con condizioni economiche difficili, con il progresso tecnologico e con la domanda pubblica. La riforma era nei programmi di tutti i Paesi. E non poteva non essere così: la medicina moderna ha costi così elevati da apparire difficilmente sostenibili. Sta diventando troppo cara per poter durare.
Nel 1993 la Banca mondiale pubblicò un importante rapporto, Investing in Health, che sottolineava il dislivello crescente tra Paesi ricchi e Paesi poveri sotto il profilo sanitario. Vi si osservava altresì che molte nazioni povere stavano vivendo la cosiddetta transizione epidemiologica da tassi e cause di morte a loro peculiari – principalmente malattie infettive – a tipi di morte e tassi di malattia caratteristici dei Paesi ricchi: principalmente malattie croniche.
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In Cina e nel Sud-Est asiatico, ma anche in buona parte dell’Europa centrale e orientale (un tempo patria di sistemi sanitari universali, ancorché poveri e spesso corrotti), privatizzazione e conversione al mercato divennero il nuovo vangelo. Analoga evoluzione si ebbe in molti Paesi dell’America Latina.
Forse ancora più sconvolgenti sono stati i cambiamenti maturati con continuità in tutta l’Europa occidentale. Questi Paesi – che sono ancora la vetrina di sistemi di assistenza sanitaria democratici, ben gestiti e aperti ugualmente a tutti – hanno incominciato a mostrare i primi sintomi di crisi dello Stato sociale creato all’indomani della seconda guerra mondiale. I loro sistemi, messi in difficoltà dai costi crescenti, sono in cima ai problemi finanziari dei leader politici. Attualmente anche l’Europa sta cercando il proprio futuro nel mercato e in una diminuzione dei servizi pubblici, quantunque non con la stessa determinazione di alcuni Paesi dell’Asia e dell’America Latina.
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A sembrarmi importante, quindi, è l’universalità dell’aspirazione alla riforma, in particolare quella ricerca di soluzioni globali che ha finito per diventare il segno distintivo della nostra epoca. Se tutti hanno un problema e sono alla ricerca di soluzioni, la questione di fondo è più importante di quelle di cui normalmente si occupano i responsabili della riforma. Quando ho incominciato a pensare a questa possibilità, mi è saltato agli occhi un fatto tanto ovvio quanto scarsamente considerato: quasi tutti gli sforzi di riforma, negli Stati Uniti e altrove, danno per scontato che la soluzione del problema dell’assitenza sanitaria vada cercata nel miglioramento dell’organizzazione e nei finanziamenti. E personalmente mi sono chiesto se questa “soluzione” costituisca davvero una soluzione al problema reale. Mi sono messo, allora, a lavorare a un’idea alternativa: forse, a crearci difficoltà sono gli stessi valori della medicina moderna, le sue aspirazioni e i suoi obiettivi più alti e condivisi. Se vogliamo poter sperare di mettere a punto sistemi di assistenza sanitaria che abbiano successo e durino nel tempo, dobbiamo forse riprendere in esame quei valori e, in taluni casi, cambiarli.
A colpirmi è stata in particolare una circostanza comune alle varie politiche nazionali: gli investimenti e i risultati in termini di salute, per quanto elevati, non sembrano mai sufficienti. E’ possibile che la medicina moderna abbia concepito una serie di aspirazioni e di pratiche mediche infallibilmente destinate a mettere a dura prova il sistema sanitario e, in taluni casi, a condannarlo al collasso ? E’ possibile che, a dispetto dei progressi via via compiuti, tali aspirazioni siano destinate a farlo apparire perennemente insufficiente alla soddisfazione dei “bisogni”, – bisogni progressivamente ridefiniti e aggiornati proprio in relazione ai progressi dell’assistenza sanitaria e della medicina ? Questi, gli interrogativi generali che ho incominciato a pormi.
Per indurre le persone a diventare maggiormente responsabili della propria salute e a sentirsi libere di perseguirla come meglio credono, Carlson e Illich hanno auspicato la deprofessionalizzazione e la deregolamentazione della medicina. A tutt’oggi, l’invito alla deprofessionalizzazione non ha ancora avuto seguito, almeno nell’ambito delle strutture dominanti dell’assistenza sanitaria. Al contrario, il movimento per la valutazione degli esiti, che cerca di misurare l’efficacia delle tecnologie e delle terapie mediche, ha enfatizzato il giudizio professionale scientificamente informato (anche se va riconosciuto che, parallelamente a esso, opera un fiorente movimento di auto-aiuto e di medicina alternativa). Con buona pace di Illich, si può dire che pazienti e medici hanno in comune una parte notevole dei propri scopi: sarebbe perciò un errore vedere nei primi le vittime inconsapevoli dei secondi, anche se questi ultimi esercitano indubbiamente un forte ascendente su di loro.
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Quando auspico una medicina sostenibile, penso a una medicina che impari a smettere di crescere consumando quantità sempre maggiori di risorse, che identifichi scopi finiti e che sappia fermarsi non appena li abbia conseguiti. Questo è un tema nuovo. Oggi, inoltre, mi sembra chiaro che, se vogliamo che promozione della salute e prevenzione della malattia, così apprezzate, abbiano la stessa importanza della medicina delle patologie acute, dobbiamo essere disposti a ripensare le priorità mediche attuali nell’intento di rendere efficaci i possibili guadagni in termini di stato di salute. Più in generale, una trasformazione seria richiede che vengano diminuiti i finanziamenti alla medicina delle patologie acute, e quindi anche alla ricerca sulla terapia di molte malattie letali, e aumentati quelli destinati alla ricerca sulla prevenzione e alle campagna educative intese a promuovere un comportamento funzionale alla salute.
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In tre miei libri precedenti ho affrontato la questione dell’atteggiamento della medicina nei confronti della mortalità. In Setting Limits: Medical Goals in an Aging Society mi sono posto il problema di come potremmo pensare la vecchiaia e l’assistenza sanitaria; in What Kind of Life: The Limits of Medical Progress ho affrontato il problema dell’allocazione delle risorse; e in The Troubled Dream of Life: In Search of a Peaceful Death ho sondato il nostro atteggiamento culturale verso la morte.
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Dobbiamo modificare la nostra concezione della medicina o la nostra concezione della vita ? A quanto prospetto, dobbiamo modificare entrambe, e in un certo modo dobbiamo farlo contemporaneamente. Una vita che dipendesse per il proprio significato dai puntelli e dal progresso della medicina non mi sembrerebbe vita, a dispetto del fatto che il nostro corpo continuerebbe a vivere per un po’. Una medicina che promettesse continuamente nuovi miracoli, nuovi corpi e nuovi “io” per veder finanziata la propria ricerca e per giustificare i propri colossali investimenti mi sembrerebbe una medicina che ha perduto la retta via, dimenticando di non essere affatto la via di accesso alla vita felice.
Nel cercare di mettere a punto un programma più modesto per la medicina, qui presento anche una visione della vita umana: visione limitata, forse, ma non disperante, ossia non priva di speranze proprie. Non intendo ripetere l’argomento di The Troubled Dream of Life, ma posso benissimo riassumerlo brevemente. La morte è e sarà sempre una realtà inevitabile della vita umana. La medicina deve iscrivere questa idea nella propria missione, non già cercare di esorcizzarla. La nostra umanità è definita in gran parte dalla disponibilità ad accettare la morte e a convivere con essa. La medicina scientifica moderna non ha maturato tale disponibilità, per questo è molto più facile trovare fondi per la ricerca sulla terapia del cancro che non per la ricerca sulle cure palliative e per l’assistenza domiciliare ai malati terminali di cancro.
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Noi siamo giunti a far dipendere la nostra speranza dall’illusione che la medicina, grazie alla ricerca e all’ampliamento dei propri poteri clinici, possa giungere a dominare la morte e l’infermità, e sia in grado di farlo con un accettabile rapporto costi-benefici. Una speranza che ha sostenuto la medicina del nostro secolo. Ma è una speranza sbagliata: una vita decente e piena non la esige affatto, e per la società perseguirla è una follia.
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Secondo me, la nostra nazione non può permettersi di continuare a perseguire il miglioramento della salute e il progresso della medicina con il ritmo degli ultimi cinquant’anni. Il suo obiettivo implicito è stato la perfezione, ossia qualcosa di irraggiungibile.
In particolare mi oppongo all’idea che la via verso l’utopia finanziaria vada cercata nella continua innovazione tecnologica.
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Faccio notare inoltre che, invocando da un capo all’altro del libro l’antica tradizione greca di Igea – cioè dell’idea che il corpo, se aiutato a farlo, può avere cura di se stesso – combatto non già contro la medicina, ma contro le distorsioni introdotte da una medicina scientifica che spesso ha dimenticato i punti di forza delle tradizioni e delle pratiche antiche.
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~~ Pagine 77 – 87 ~~
La tesi di questo libro è che i costi – economici, sociali, e psicologici – della scelta di continuare a perseguire con determinazione il sogno della medicina moderna in forma inalterata non sono più sopportabili.
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L’universalità delle pressioni economiche sui sistemi di assistenza sanitaria – a prescindere dalle diversità organizzative e delle modalità di finanziamento – lascia chiaramente intendere che alla radice di questa situazione vi è un’unica causa di fondo che va al di là dell’inflazione: l’intenso uso di una medicina tecnologica estremamente dispendiosa e, nello stesso tempo, l’aumento della domanda per ragioni individuali, demografiche, o individuali e demografiche insieme.
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Il sogno della medicina moderna ha prodotto almeno tre effetti profondi sulla coscienza umana. Il primo è stato quello di instillare la credenza diffusa che nulla è più funzionale alla buona salute di una medicina migliore e di un sistema sanitario decente ed efficiente. Il secondo è stato quello di indurre sempre di più le persone a vedere nell’infermità e nella malattia altrettanti incidenti biologici che si sarebbero potuti evitare con un’assistenza sanitaria migliore, con più accurati screening preventivi e con maggiori conoscenze scientifiche. Il terzo effetto può essere individuato nell’incoraggiamento dal perfezionismo medico mediante crociate tese a eliminare tutte le fonti di rischio (combattendo quella che qualcuno ha chiamato una presunta epidemia di paura dei rischi) e tutte le cause note di malattia e di infermità, innescando così lo sforzo di ridurre a zero le possibilità di morte e di lesione legate a incidenti o a malattie. Avversione al rischio e perfezionismo aiutano a dar conto della crescente divergenza tra il reale stato di salute degli individui, in generale in fase di rapido miglioramento, e la percezione che essi hanno di una situazione in fase di peggioramento. Le persone, pur avendo complessivamente una vita più sana e più lunga che in qualsiasi altro periodo della storia umana e pur dovendo affrontare un minor numero di rischi per la salute, sono più preoccupate dei pericoli che corrono e meno disposte ad accettare altro che non sia la perfezione.
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Alla medicina, oggi, non ci si limita a chiedere sempre più di servire desideri e preferenze individuali che con la salute hanno poco o nulla da spartire, bensì la si considera anche uno strumento fondamentale per la soluzione di problemi sociali, in particolare, negli ultimi tempi, quelli della violenza e dell’abuso di sostanze tossiche.
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Nello stesso tempo, però, il perseguimento della guarigione e della sopravvivenza – la schiacciante priorità assegnata alla riduzione della mortalità – ha comportato gravi trascuratezze nei confronti dei malati cronici, cioè di coloro che non possono guarire, che al termine di un lungo periodo sono destinati a morire della propria malattia o che a causa di essa condurranno una vita segnata dall’handicap.
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Mentre il bisogno più impellente è di un servizio di sanità pubblica e di una buona assistenza di base, specie nelle aree rurali, nelle grandi città si tende a creare grandi ospedali estremamente avanzati sul modello delle cliniche universitarie.
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Mentre la distanza tra nazioni ricche e povere persiste, la continua introduzione di tecnologie mediche estremamente costose sta contribuendo a creare una spaccatura tra ricchi e poveri anche all’interno delle stesse nazioni avanzate. Il moto spesso alquanto accelerato verso la privatizzazione in molti Paesi in via di sviluppo (specialmente in America Latina e in Asia) sta investendo sistemi di assistenza sanitaria a due livelli non è di per sé iniquo. Se l’assistenza sanitaria di base garantita a tutti è relativamente generosa e decorosa, il fatto che i ricchi possano avere qualcosa di meglio non è un’ingiustizia. Il progresso diventa un problema solo quando si afferma una forma di medicina che ha sempre più difficoltà a incorporare i suoi prodotti nel sistema di assistenza sanitaria di base garantita e che costringe più persone ad attingere alle proprie magre risorse per pagare le cure di cui hanno bisogno.
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Il progresso continuo e illimitato perseguito dalla medicina moderna – un progresso senza alcuna fine precisa o anche solo implicitamente ammessa e senza priorità ragionate – non è un punto di accesso vitale a un’evoluzione benefica costante, né rappresenta la base adeguata di una futura medicina sostenibile. A questo punto occorre ridefinire l’idea di progresso. Una prima parziale ragione per farlo è che la forma in cui attualmente il progresso si sviluppa, genera costi enormi e crescenti che ripagano in misura comparativamente sempre più inadeguata gli investimenti richiesti. Si aggiunga che esso non soddisfa quasi mai il desiderio crescente di una salute migliore, giacché tale desiderio supera sempre di gran lunga il livello divenuto realizzabile. Una ridefinizione del progresso è necessaria anche in considerazione dei notevoli successi già conseguiti in passato. La linea di base delle conoscenze e della pratica oggi è molto più elevata di quanto non fosse cento, cinquanta o anche solo dieci anni fa. Una volta arrivati qui, dove dobbiamo andare?
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Una possibile alternativa alla visione attuale del progresso medico deve comprendere quattro caratteristiche.
La prima è che il progresso deve essere misurato, nel complesso, in riferimento ai cambiamenti che produce in termini di esiti sulla salute della popolazione, ossia di tassi di mortalità e di infermità.
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La nostra ottica, quindi, deve privilegiare la popolazione: pur accogliendo con favore i benefici individuali, dobbiamo considerarli secondari, se non altro perché essi raramente ammettono limiti o determinano piena soddisfazione. La domanda decisiva dev’essere la seguente: come va la nostra salute comune o collettiva?
La seconda caratteristica di una visione alternativa è l’attenzione posta alla necessità di ridurre il perfezionismo e l’avversione al rischio, tipici dell’espressione attuale del progresso. L’ossessione della perfezione e della riduzione del rischio, da un lato incoraggia lo sviluppo di tecnologie costosissime che vanno a beneficio di un numero comparativamente ridotto di individui o che giovano a molti ma solo marginalmente; dall’altro, acuisce la tensione tra ciò che le persone chiedono alla medicina e ciò che la medicina può dare.
La terza caratteristica consiste nel porre in primo piano i miglioramenti non già medici e tecnologici, ma delle condizioni sociali, economiche e culturali che incidono in misura decisiva sulla salute della popolazione e dell’individuo.
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Occorre, cioè, sia tenere in seria considerazione una gamma più vasta di fattori che incidono sulla salute, sia spostare l’attenzione dal presunto fascino delle cure e delle procedure mediche concentrandola su strategie non mediche atte a conseguire più direttamente e con minori spese le stesse finalità.
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Per una vita perfettamente soddisfacente, la specie umana nel suo complesso e i singoli individui non hanno bisogno di un’aspettativa media di vita più elevata di quella attualmente rilevabile nei Paesi avanzati (da 75 a oltre 80 anni). Questo ideale di un’aspettativa di vita stabile corrispondente al livello attuale configurerebbe felicemente uno scopo finito e accessibile: “Basta così”.
Adottare il motto “Basta così” nella lotta contro la morte vorrebbe peraltro dire lasciare molto spazio ad altri progressi estremamente apprezzabili: nella riabilitazione, nella promozione della salute, nella prevenzione delle malattie, nella compressione della morbilità e nelle cure palliative, tutte cose che hanno a che fare più con la qualità che con la quantità della vita.
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Alle frontiere del progresso che avanza ci sarà sempre un bordo frastagliato. Con questa immagine intendo riconoscere il divario necessario e permanente tra ciò che la medicina ha già realizzato e ciò che può realizzare in futuro. Qualunque sia il punto a cui essa giungerà, sul bordo frastagliato del progresso vi saranno sempre persone malate e sofferenti. Questo bordo cambierà col cambiare delle epoche, nel senso che i pazienti avranno problemi diversi ma esisterà sempre. Se la medicina riterrà di dover avanzare continuamente per alleviare infermità e sofferenze, se non identificherà un criterio per decidere quando occorra fermarsi, allora il bordo frastagliato del progresso assumerà sempre i contorni di una sconfitta, diventando stimolo a ulteriori progressi. Questo è un modo sbagliato di pensare. Il bordo frastagliato non può mai essere superato, ma solo spostato più in là.
In breve, una medicina sostenibile esige l’accettazione dell’idea che il progresso deve darsi scopi finiti, essere disposto a rinunciare alla perfezione per accettare l’adeguatezza, tollerare il bordo frastagliato di cui si è detto, tenere nella giusta considerazione gli ostacoli biologici e rendersi conto degli elevati costi umani nella scelta di non prendere atto dei limiti del progresso stesso. Daniel Sarewitz esprime una posizione molto vicina a quella qui delineata: “Le istituzioni politiche e culturali possono meglio favorire il conseguimento dei propri scopi affrontando i problemi come se il progresso scientifico e tecnologico fosse giunto alla fine e l’unica risorsa lasciata all’umanità dipendesse dall’umanità stessa”.
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