(Saggio pubblicato nel 5° e ultimo volume, intitolato “Scienza e tecnologia al di là dello specchio”, della collana La Nuova Scienza a cura di Umberto Colombo e Giuseppe Lanzavecchia, Libri Scheiwiller, Milano 2004)
Molte ha la vita forze
tremende; eppure più dell’uomo nulla,
vedi, è tremendo.
(Sofocle)
Lewis Carroll nelle ultime righe di “Alice nel Paese delle meraviglie” fa una strana scelta: affida alla sorella e non ad Alice quella che a me sembra la vera conclusione della sua storia: “convincersi che anche lei era nel Paese delle meraviglie, sebbene sapesse che bastava riaprirli e tutto sarebbe ripiombato nella grigia realtà”. Ad Alice affida invece un altro compito: “chiamare attorno a sé altri bambini e accendere i loro occhi di curiosità per tanti racconti straordinari, forse per lo stesso sogno del Paese delle meraviglie”.
“Through the Looking-Glass and What Alice Found There” – images by John Tenniel.
Pensavano a ciò i curatori di questo volume quando –appunto citando Lewis Carroll– ci hanno detto di voler ricercare “una visione dall’altra parte dello specchio cioè con una logica invertita”? A me piace credere di sì!
Ed ecco allora che –paradosso per paradosso– mi sfiora un altro quesito: quando Galileo diceva “eppur si muove”, e lo faceva dalla sua parte del cannocchiale, era di qui o di là dello specchio? Era Alice o la sorella?
Galileo Galilei
Fuor di metafora, quando oggi diciamo “nuova scienza”, implicitamente introducendo l’alternativa “scienza vecchia”, pensiamo a quest’ultima come a un coniglio bianco che ha attraversato la storia del pensiero umano dileguandosi al termine di un sogno impossibile e pericoloso per lasciarci al risveglio in balìa di una nuova scienza post-moderna? O pensiamo invece, al contrario, che il rapporto tra realtà e sapere al quale la scienza –quella vecchia e quella nuova– ci ha abituato rimanga tutto “di qua” essendovi “di là” solo esperienze oniriche?
Basta considerare i quattro volumi di questa iniziativa editoriale per rendersi conto della validità dell’ipotesi che li pervade: non solo scienza e tecnologia sono entrambe cultura, ma ne sono forse la parte più nostra, se è vero che nessun altro coniglio bianco ha mai lasciato tracce più cospicue e evidenti proprio “di qua”, cioè nel nostro mondo di svegli.
Cosa vuol dire allora guardare la scienza dal di là dello specchio?
Certo, non significa ritornare nella verità del dogma.
Semmai, uscirne del tutto. Per acquistare fino in fondo la capacità di esercitare anche verso la scienza la pienezza del metodo critico cui il cannocchiale ci ha sfidato. Significa accorgersi, proprio perché svegli, che è ormai sicuramente matura l’esigenza di abbandonare una visione della scienza tutta costruita sulle sue ragioni interne, con conseguenti forti rischi di autosufficienza e introversione, queste sì potenzialmente oniriche.
Guardare la scienza dal di là dello specchio, in sostanza vuol dire considerarla con gli occhi di coloro che non ne fanno parte, che sono però coloro che ne subiscono gli effetti. E’ ora di renderci conto “del fatto che la razionalità, il rigore logico, la controllabilità delle asserzioni, la pubblicità dei risultati e dei metodi, la stessa struttura del sapere scientifico, non sono categorie perenni dello spirito né dati eterni della storia umana, ma conquiste storiche che, come tutte le conquiste, sono, per definizione suscettibili di andare perdute” (1).
Cannocchiale galileiano
(immagine tratta dal sito del Liceo Scientifico “G.Peano” di Cuneo)
La questione principale diventa allora: come mai la scienza è rimasta così a lungo “al di qua” dello specchio? E’ possibile portarla dall’altra parte dello specchio senza dover rinunciare a quelle caratteristiche a cui siamo abituati? Cosa si produrrebbe in ambito scientifico se ciò dovesse verificarsi? Ne risulterebbe una scienza “nuova”? E in che modo e perché dovremmo definire “nuova” questa scienza?
Comincerò con una notazione: la scienza non è stata per caso così a lungo “al di qua” del suo specchio. Infatti, ricercando la verità con metodi nuovi fin dalle sue origini ha preferito evitare le interferenze a cui la esponevano gli interessi dei potenti. Sapeva che il potere –quello politico, come quello economico, ideologico, religioso– era sempre in agguato. Resistere alle manipolazioni del potere, mantenersi al servizio della sola verità sperimentale è, da sempre, l’assoluto deontologico della scienza. Ciò non è dovuto soltanto a una comprensibile aspirazione alla purezza; per fortuna la scienza sa anche rendersi interprete di paure diffuse al suo esterno, in una società turbata dagli abusi del potere sulla verità. E’ su questo e in questo modo che la scienza ha costruito quell’incomparabile patrimonio di fiducia di cui disponeva fino a qualche tempo fa.
Ed è proprio per questo che ha così a lungo ritenuto di poter trovare nello “specchio”, nel quale poteva vedersi riflessa senza essere vista, sicurezza e protezione. Sapeva, in questo modo, di esporsi al rischio dell’autoreferenzialità. Ma non lo temeva. Anzi.
Sennonché, le condizioni che hanno originato quella scelta non sussistono più.
Oggi lo specchio rischia di abbagliarla senza affatto proteggerla.
Attraversarlo senza ferirsi è per lei ormai indispensabile se vuole prendere atto che “tutti coloro che lavorarono, pensarono, formularono teorie ed effettuarono esperimenti nel periodo della nascita della scienza moderna vissero in un mondo assai diverso dal nostro nel quale convivevano prospettive che ci sembrano oggi appartenere a mondi culturali fra loro del tutto inconciliabili” (2).
Nel mondo di oggi la scienza non può più chiamarsi fuori sulla base di nessuna delle due considerazioni che avevano in passato giustificato lo stare dietro lo “specchio”: a) la separatezza del ruolo di ricerca della conoscenza –anche sperimentale– dalle applicazioni nella prassi; b) la natura comunque strumentale di tali applicazioni che sempre sfociavano nella scelta di mezzi e non di fini.
Entrambi questi schemi non sono più attuali: quando la conoscenza, tramite la tecnologia si incarna in concreti strumenti che ne esaltano la funzionalità, questi condizionano lo sviluppo dell’umanità e trasformano il loro autore in portatore di potere, sia pure strumentale; quando l’innovazione irrompe, essa costringe la scienza a occuparsi non solo di mezzi ma anche di fini modificando così profondamente il ruolo dello scienziato che passa a una corresponsabilità paritaria: da fornitore di mezzi a co-decisore. Oggi una frase come la seguente –“Il potenziale di crescita economica [di un Paese] dipende direttamente dagli investimenti nel rinnovamento della conoscenza” (3)– non sorprende nessuno, tanto meno il potere.
Questo, dovunque collocato, ha subito appreso la lezione e non ha tardato a capire che un conto è avere a che fare con un sapere che ricava la verifica della sua validità da un sistema di considerazioni interne quali la coerenza, la funzionalità esistenziale, oppure semplicemente una fede; un conto è avere a che fare con un sapere che, ricavando la verifica della sua validità dall’esperimento e perciò dal suo funzionare, non nasconde la sua intrinseca vocazione a produrre strumenti e con questi ad agire la realtà. Mentre i rapporti col primo potevano rimanere competenza dei chierici, il secondo tipo di sapere è meglio che rimanga interamente concentrato nelle mani del Principe.
La scienza ha invece esitato a rendersi conto del fatto che fare oggi scienza come la faceva Galileo, mentre l’intero quadro delle condizioni sociali e operative è mutato, avrebbe poco o nullo senso: fare il cannocchiale per vedere come è fatta la Luna senza darsi carico di sapere che uso ne avrebbe voluto fare il potere oggi non è più proponibile. Al suo interno due spinte comunque premevano e la spingevano verso nuovi rapporti col potere: il modificato rapporto con la tecnologia; i suoi nuovi rapporti con i processi di innovazione.
Il rapporto scienza-tecnologia si è andato infatti intensificando e trasformando mano a mano che la conoscenza scientifica è evoluta da conoscenza che privilegiava l’ipotesi a conoscenza che premiava la capacità sperimentale. E’ stato così che sapere e tecnica hanno iniziato a intrecciarsi in modi prima sconosciuti e il peso e l’importanza del Rapporto con la tecnologia, nel lavoro scientifico, sono aumentati.
Mentre negli esperimenti del passato era l’ipotesi teorica a misurare il valore dell’apporto dello scienziato –e l’eventuale artefatto esperito testimoniava dell’avvenuta verifica– nella scienza che noi qui chiamiamo “nuova” la relazione d’importanza tra teoria e sua verifica si è in qualche modo ribaltata: sempre più spesso è infatti l’ipotesi funzionale, l’auspicata strumentalità dell’artefatto da esperire, ciò che diventa più importante perfino del contenuto di disvelamento dell’ipotesi teorica verificata. Sembra quasi che la scienza sia oggi chiamata più a creare nuovi strumenti che a regalarci nuove conoscenze. “La competitività è ottenuta attraverso la capacità di trasformare conoscenza in produttività economica grazie a investimenti in nuove tecnologie” (4). Certo, la scienza cosiddetta pura continua ad espletare la sua funzione, ma non è ad essa che viene prevalentemente affidato il compito di colloquiare con le altre forze, quali il capitale e l’imprenditore, impegnate con lei a corrispondere ai desideri del potere, economico o politico. Questo compito è piuttosto affidato a quella sorta di “nuova alleanza” tra scienza e tecnologia che si è stretta nel frattempo e la cui vera logica ci è presentata dal pensiero di scienziati come Richard R. Nelson, che mi sembra il più lucido esponente in questo campo della ricerca (5).
Richard R. Nelson
(Richard Nelson, economista della Columbia University, ha centrato molta parte della sua attività di ricerca sui temi legati all’innovazione, alla crescita economica di lungo periodo e al ruolo della tecnologia nel processo evolutivo economico e sociale.
Il 17 e 18 giugno 2002 ha tenuto all’Università Bocconi di Milano due lezioni organizzate dalla Fondazione Giannino Bassetti e dall’università stessa)
Viene infatti da lui e dalla sua scuola la dimostrazione del fatto che da tempo ormai la più grande parte del lavoro scientifico si svolge in inscindibile rapporto col lavoro tecnologico: “I would propose more specifically that technique and understanding coevolve” (6); o ancora: “When progress is rapid, there seems to be a strong symbiosis between the particolar structure of the technologies and the focus of the sciences underlying them” (7).
Una “simbiosi” che per realizzarsi ha avuto come luogo d’elezione il laboratorio, cioè il luogo dentro il quale scienziato e tecnico hanno imparato ad incontrarsi: fosse esso lo sgabuzzino più o meno segreto dell’inventore amatoriale, il padiglione del mecenate, lo scantinato di un collegio universitario, i bui corridoi del M.I.T. o quelli di cristallo del Battelle, le baracche segrete di Los Alamos, il garage di Steve Jobs.
Ma che oggi si rivela ormai inadeguato a svolgere i compiti di acquisizione, organizzazione e coordinamento dei fattori operativi richiesti dalla crescente complessità del lavoro di ricerca.
Dal conseguente crescente bisogno dello scienziato di inserirsi in strutture organizzative adeguate nasce, quindi, l’alleanza con l’impresa. Quest’ultima è stata infatti prontissima a scorgere nelle novità assolute di molte scoperte della scienza una nuova risorsa utile per il perseguimento di quell’apporto aggiuntivo al suo profitto che è l’innovazione. Ha capito che per realizzarla l’apporto della scienza, seppur fondamentale, non bastava e che occorreva aggiungere all’ipotesi scientifica, alla tecnologia, al capitale altri fattori quali creatività, disponibilità al rischio, capacità manageriali; fattori che era in grado di procurarsi affiancando allo scienziato l’imprenditore con il compito di realizzare appunto l’improbabile.
L’innovazione è infatti un fenomeno complesso nel quale scienza, tecnica, finanza, management, imprenditorialità, istituzioni confluiscono per realizzare un obiettivo che non è propriamente scientifico ma imprenditoriale e politico. Essa ha i suoi luoghi di definizione finale fuori dalla scienza, pur avendo degli apporti della scienza un grande bisogno. Non si esaurisce però col disporne.
L’innovazione infatti, quando intesa nel suo preciso significato, è qualcosa che si ha solo quando all’accrescimento di “sapere” che è implicito in ogni scoperta si aggiunge e si combina un’aggiunta di tecnologia e di potere attuativo (capitale) che tale scoperta implementa; non si sostanzia quindi della sola scoperta, o novità. E’ qualcosa di più. E’ l’agente di una nuova situazione, storicamente realizzata, che risulta dalla nuova combinazione di sapere, tecnologia, saper fare, rischio/opportunità che il potere –sia esso imprenditoriale o di altra natura– è riuscito a implementare e concretizzare. E’ in sostanza un avvenimento mai verificatosi prima che si realizza per effetto di una “nuova” combinazione di sapere e potere che come tale è sempre cambiamento.
Joseph Schumpeter
(immagine tratta dall’enciclopedia on line “Encarta” della Microsoft — il link conduce alla pagina relativa a Schumpeter)
Solo che, essendo anche “creatività” (è stato detto: in questo modo rompe l’ovvietà!), è sempre un cambiamento in qualche modo imprevedibile che proprio per questo –come argomentano Schumpeter e Nelson– determina un’aggiunta di rischio/opportunità e potere sociale. Proprio per questo noi parliamo di innovazione come “realizzazione dell’improbabile”. Come qualcosa che è sempre rischio e opportunità, che cambia il mondo che ci circonda ma lo cambia in direzioni intrinsecamente imprevedibili. Un imprevedibile che può essere tale tanto quando si realizza sul piano politico-sociale (nuove istituzioni, nuove modalità di relazioni, di produzione, di guerra, nuovi poteri) quanto su quello tecnico-economico (nuovi materiali, nuove energie, nuovi strumenti, nuove categorie di beni) quanto ancora su quello estetico culturale (nuovi stili, mode, gusti, atteggiamenti).
Proprio per questo il complesso processo che caratterizza l’attuazione di una innovazione mette in rapporto la realtà della scienza con la realtà ad essa esterna secondo modalità diverse da quelle caratteristiche nel tradizionale rapporto strumento/utenza. L’incontro non è più quello di un potere che usa il sapere; ma un altro molto più complesso nel quale i fattori di un’innovazione convergono per generare con essa un surplus di potenzialità. E fanno questo in un rapporto, fra loro, non gerarchico ma di collaborazione paritaria nella quale la convergenza co-determina il risultato. In questo modo lo scienziato si trova a non essere più alieno rispetto al perseguimento del fine prescelto bensì concreatore del nuovo che il suo sapere ha contribuito a concretizzare.
La scienza si è ormai resa conto di tutto questo.
Ha capito che la sfida che la società moderna lancia a questa scienza che ama definirsi nuova è, in ogni caso, quella di abbandonare arcaiche separatezze, avvicinarsi ai luoghi dove il suo concreto potenziale di cambiamento è utilizzato e realizzato uscendo da una condizione adolescenziale per familiarizzarsi col potere e così divenire matura.
Perché vale anche per la scienza quanto vale per le persone: si è adulti solo quando, oltre a sapere, si può e si sa di potere.
Vuol questo dire che la scienza nuova è una scienza che ha perso, con la sua autonomia, la purezza?
In un certo senso sì, perché rispondere a questi stimoli conservando il massimo di autodeterminazione e senza rifugiarsi in oniriche separatezze, vuol certo dire essere pronta a compromettersi, a sporcarsi un po’ le mani. In un altro senso no, perché non ci può essere vera purezza fuori dall’assunzione delle proprie responsabilità.
Che il rapporto tra il Potere (Zeus) e il Pensiero (Metis) fosse intrinsecamente pericoloso lo sapeva del resto già Esiodo quando ci raccontava che furono Era e Urano –la Terra e il Cielo– a imporre allo stesso Zeus, che era giaciuto con Metis, di ingoiarla per evitare che il prodotto del loro incrocio potesse sfidarlo e sconfiggerlo: di qui la nascita di Pallade Atena, dea della ragione e della conoscenza, completamente armata, dalla stessa testa di Zeus così da permettere a questi di stabilire con lei una tormentata relazione di amore-odio, ma anche di dipendenza (8).
Ma da allora tanto tempo è passato.
Questo incontro, ormai, è avvenuto. Ciò che il pensiero occidentale aveva temuto già all’epoca dei greci, è oggi un fatto compiuto. La nuova scienza ha incontrato il potere. Catalizzatore di questo loro incontro è stata l’innovazione, struttura operativa è stata l’impresa o l’istituzione pubblica ad hoc, coordinatore l’imprenditore, regolatrice la statualità.
Le conseguenze non sono reversibili. Partecipando a questo processo e assumendosi il ruolo di codecisore del cambiamento la nuova scienza ha infatti incontrato la politica.
Così facendo ha stabilito con chi sta di qua dello specchio un rapporto totalmente nuovo. E’ diventata co-attrice diretta di scelte che ci toccano tutti. Scelte che non riguardano solo strumenti capaci di funzionare nelle mani del vecchio potere per i suoi obiettivi. Ma che riguardano l’innovazione e perciò sono scelte di fini. Il suo non è più un ruolo politicamente subalterno. E’ paritario. E come tale responsabile. Ecco che il tema della responsabilità politica si pone anche per la scienza. Essa non potrà più definirsi neutra, dovrà riconoscere la sua consapevolezza dei fini rispetto ai quali la sua offerta di sapere si è rivelata strumentale, dovrà ammettere di aver partecipato, nell’innovazione, a finalità di cambiamento, di essersi integrata nell’organizzazione del potere moderno, che non è più soltanto monopolio della violenza legittima ma piuttosto detenzione e guida dei processi innovativi: in sostanza deve ammettere di aver fatto e di fare politica.
Ma con che investitura?
Rispondere a questa domanda vuol dire abbozzare, nel linguaggio della politica, qualcosa di altrettanto nuovo di quanto abbiamo visto in materia di scienza.
Anche qui c’è infatti uno specchio da attraversare. Uno specchio che a nostro avviso riflette due tipi di raggi: quelli della responsabilità e quelli della rappresentanza.
La vecchia politica –la chiameremo così per comodità espositiva– si reggeva su una scelta: essendo il monopolio del potere appannaggio delle pubbliche istituzioni, rappresentanza e responsabilità si esercitavano attorno e verso queste stesse istituzioni. Stava a loro, almeno in teoria, decidere i fini verso i quali scienza, tecnologia, capitale, imprenditorialità, potevano tendere. L’innovazione sembrava non fuoriuscire da questo campo di controllo e pertanto la relativa responsabilità era affidata agli attuali collaudati meccanismi di rappresentanza democratica.
Questo ragionamento ignora però due fatti: a) che il sapere di cui una società dispone e che utilizza nell’innovazione non è esclusivo risultato della sperimentazione chiusa del vecchio laboratorio ma è prodotto anche di esperienza collettive. E’ questa la vera scoperta che la nuova scienza ha acquisito guardando anche di là dello specchio. b) che le realtà che una società moderna vuol sapere rappresentate non sono più soltanto quelle tradizionali: rischio, opportunità, innovazione cioè realizzazione dell’improbabile; a queste se ne sono aggiunte di nuove.
Inoltre, come era politicamente prevedibile, molti poteri nati dall’alleanza scienza-impresa sono entrati, nelle società capitalistiche, nell’orbita di quel particolare gestore del potere che è il mercato con la sua capacità di organizzare sui cambiamenti che gli vengono proposti –innovazioni per prime– un referendum continuo. Mentre quando questo non basta –o ha bisogno a sua volta di regole– chiamati a soccorrere sono gli organi democratici della società, organi che si esprimono nell’associazionismo culturale, ecologico, consumeristico, territoriale, ecc. e per certo non considerano più, a priori, lo scienziato come il possessore di una ieratica capacità di “disvelare i misteri della Natura” al quale lasciare la scelta ultima. Le nostre società tendono sempre più a lasciarsi alle spalle ignoranza e indifferenza per questi temi; vogliono esserci in prima persona, a fianco e assieme ai poteri –quello statuale, quello economico, quello ideologico-religioso– di riferimento nel processo scientifico-innovativo. E lo strumento che si ritrovano in mano, più che la coercizione, è il controllo della ricerca, dei mezzi tecnologici, del capitale, dell’organizzazione, delle norme, tutti fattori la cui combinazione concerne l’impresa o le istituzioni.
Avviene così che, oggi, gli stimoli alla ricerca siano spesso e volentieri esterni al mondo scientifico, e questo non perché gli scienziati abbiano annacquato la loro creatività o la loro autonomia di uomini liberi, ma perché la mediazione tra forze creative e potere si è fatta vieppiù politica.
Si tratta di due fatti sui quali il dibattito si è ampiamente sviluppato, la cui pertinenza ai discorsi di “responsabilità dell’innovazione” –che la Fondazione Bassetti sviluppa– è innegabile e sui quali vorrei perciò brevemente soffermarmi prima di concludere.
Cominciamo dal primo.
E’ stato Bruno Latour a porre questo tema con grande chiarezza là dove dice: “in passato, quando uno scienziato o un filosofo della scienza pensava di fissare delle regole di metodo il riferimento era a un luogo chiuso, a un laboratorio dove un piccolo gruppo di specialisti costruiva o smontava dei fenomeni che potevano poi essere riprodotti a piacimento tramite simulazioni o modelli prima di arrivare, molto più tardi, alla presentazione dei risultati ottenuti che a quel punto, e solo a quel punto, potevano essere incrementati, diffusi, applicati o riprovati” (9).
E aggiunge “oggi non è più così. (…) Il laboratorio ha allargato i suoi confini a tutto il pianeta. (…) Oggi gli esperimenti sono condotti a scala reale e in tempo reale come è diventato evidente a tutti con il problema cruciale del riscaldamento globale. (…) Oggi siamo tutti coinvolti negli stessi esperimenti collettivi. (…) E’ una sperimentazione condotta su di noi, da noi e per noi ma non ha neppure un proprio protocollo. A nessuno è esplicitamente assegnata la responsabilità del suo controllo. Chi ha il potere di dire l’ultima parola, di decidere per tutti noi?” (10). Ovvero, chi ha il potere di controllare l’innovazione che, ricordiamocelo, è sempre un esperimento collettivo di organizzazione dei poteri?
Bruno Latour
(il sociologo francese Bruno Latour ha tenuto il 17 novembre 2003 al Politecnico di Milano una Lecture su invito della Fondazione Bassetti e della Scuola di Dottorato di ricerca del Politecnico)
Passiamo al secondo.
Dice Ulrich Beck: negli attuali Parlamenti “non si vota sull’impiego e sullo sviluppo della microelettronica, dell’ingegneria genetica, ecc. Al massimo si vota sul sostegno a tutto ciò” (11).
E Latour, dopo aver richiamato Arie Rip e Michel Callon per la loro proposta di “forum ibrido”, spiega meglio il concetto: “un esempio di ‘forum ibrido’ [è] il dibattito attuale sul riscaldamento del pianeta. Intorno a un tavolo stanno seduti diversi portavoce: alcuni rappresentano l’atmosfera alta, altri le diverse lobbies del petrolio e del gas, altri ancora le organizzazioni non-governative, altri ancora rappresentano, nel senso proprio del termine, i rispettivi elettori. La netta differenza che prima separava tanto nettamente i rappresentanti delle persone e i rappresentanti delle cose è semplicemente svanita. (…) Ciò non significa che tutto sia politica: significa piuttosto che si deve individuare una nuova politica” (corsivi miei) (12).
Per dare qualche cenno di che cosa Latour intende per nuova politica basterà accennare alla sua interessante proposta di “formare il ‘Parlamento delle Cose’ nel quale si possa ricondurre a sintesi politica tutta la problematica degli states of affairs e delle matters of facts. Gli sembra questo il modo per poter gestire con consapevolezza e democraticità sostanziale ‘il nuovo fronte’ della politica, della morale, dell’etica, dell’arte [che si trovano] dentro la stessa scienza e la stessa tecnica (…) [in] quegli esperimenti collettivi in cui siamo tutti coinvolti” (13). Un fronte al quale noi aggiungeremmo rischio, opportunità, innovazione; realtà delle quali non ci sembra ben chiara l’appartenenza agli states of affairs o invece alle matters of facts ma che certamente dovrebbero trovare nel Parlamento delle Cose la rappresentanza che la nuova politica richiede. Naturalmente, questo non potrà risolvere l’altro problema, quello di una nuova etica dello scienziato operante in una democrazia tecnica. Ma certo contribuirà ad inquadrarlo, nel presupposto che, se non può esistere un codice etico dello scienziato, che si inserisca come tale nel nuovo processo decisionale politico, scisso dal codice di regole istituzionali dentro le quali egli sarà chiamato ad operare, è pur vero che tra l’etica del primo e la funzione regolatoria delle seconde ci dovrà essere un rapporto strutturato.
Oggi qualunque rappresentante politico operante in democrazia rappresentativa ha ben chiaro qual è il codice deontologico al quale gli attuali assetti istituzionali lo chiamano. Lo rispetti o meno, questo codice lo vincola a una rappresentanza dei cittadini che, condividendo il sistema di valori e di interessi che egli ha loro presentato nel momento della designazione, vogliono vederglielo realizzare a vantaggio della Polis. Non lo vincola a un esercizio professionale di sapere che la vecchia politica attribuiva all'”esperto”. Starà ovviamente alla sua moralità di contemperare la potenziale dicotomia che esiste fra la tutela delle cose e quella delle persone e che il nuovo Parlamento (che non è soltanto delle cose) dovrà comporre e formulare in indirizzi di potere.
In questo senso la politica democratica tradizionale è sempre stata lontana, nelle sue premesse costituzionali, da qualunque concessione a visioni di tecnocrazia. Ha invece sempre mirato a comporre ragione e forza in una visione finalistica nella quale la relativa sintesi doveva essere sviluppata dalle persone, in quanto tali, nel loro foro personale o civile.
Osserva acutamente in proposito Jean-Jacques Salomon: “Non è forse un fantasma delle società industriali, novella metamorfosi del progetto cartesiano, pretendere contemporaneamente di addomesticare il caso e di accantonare scientificamente il destino?” (14). E Giulio Giorello osserva con acutezza che con impostazioni di quel tipo si perpetua l’accusa che nei film western ci fanno i Pellerossa: “il Viso Pallido parla con lingua biforcuta [perché] quella scienza, quella tecnica, quella democrazia di cui noi andiamo tanto orgogliosi, al punto di imporla agli altri, sono state costruite ‘separando i rapporti di forza politici e quelli di ragione scientifici, ma fondando sempre la forza sulla ragione e la ragione sulla forza’” (15).
Solo che il problema resta ed è quello di decidere qual è l’impostazione etica che la scienza deve adottare per adeguare il suo ruolo e la sua funzione al nuovo modo di comporre sapere e potere in tema di regolazione politica dell’innovazione.
La domanda è: come dovranno inquadrarsi le relative responsabilità?
La responsabilità, si sa, è un concetto complesso: quando parliamo di responsabilità, intendiamo la responsabilità di chi o per che cosa? Se la scienza può e deve rendersi disponibile e prepararsi a un confronto col potere, è evidente che anche il potere dovrà assumere le sue responsabilità nei confronti della scienza razionalizzando il suo rapporto con essa. Il rapporto che ne risulta sarà necessariamente biunivoco e la distribuzione delle responsabilità dovrà tenerne conto.
Nel mondo moderno il rapporto tra scienza, tecnologia, economia e istituzioni sta diventando quanto mai articolato. Sempre meno lineare e di dipendenza, questo rapporto è viepiù circolare e interdipendente. Oggi più potere vuol dire soprattutto più sapere. L’imprenditorialità e gli investimenti che caratterizzano il mondo dell’innovazione non fanno che accrescere la pericolosità e il potere di questa miscela. Dice ad esempio Evandro Agazzi: “L’intreccio scienza-tecnologia non è costituito semplicemente dal fatto che la scienza condiziona il progresso tecnologico ma anche dal fatto che, a sua volta, la tecnologia condiziona il progresso scientifico” (16). E prosegue: “In forza di questa dinamica i sottosistemi tecnologici diventano sempre più numerosi e nello stesso tempo modificano continuamente le condizioni naturali del vivere umano molto più di quanto facessero le macchine della civiltà industriale. È questo immenso sistema tecnologico che ormai costituisce quell’ambiente artificiale di cui si è detto” (17). Un ambiente nel quale la complessità del problema morale aumenta quando si è costretti a evocarla per situazioni che sempre più si scostano dallo spirito ispiratore di regole passate: la bioingegneria ne è un esempio a volte drammatico.
“Il Prometeo irresistibilmente scatenato, al quale la scienza conferisce forze senza precedenti e l’economia imprime un impulso incessante, esige un’etica che mediante auto-restrizioni impedisca alla sua potenza di diventare una sventura per l’uomo” (18). Comincia cosi il libro di Hans Jonas nel quale poche pagine più avanti troviamo: “Se la sfera produttiva è penetrata nella sfera del dominio dell’agire che conta, allora la moralità deve penetrare nella sfera produttiva, dalla quale un tempo si era tenuta lontana, e dovrà farlo sotto forma di politica pubblica. (…) In effetti il mutamento di natura dell’agire umano modifica la natura stessa della politica. (…) Le nuove potenzialità dell’agire esigono nuove regole dell’etica e forse perfino una nuova etica” (19).
Qualunque possa esserne la complessità, certo è che una nuova scienza ormai irreversibilmente intrecciata con una nuova politica non potrà limitarsi a raccomandare allo scienziato di attenersi all’imperativo kantiano.
Come penserebbe Jean-Jacques Salomon: “Nessuno meglio di Jonas ha messo in risalto il ribaltamento dell’etica –la trasformazione o il proseguimento degli imperativi morali kantiani– che gli eccessi e le distorsioni della civiltà della tecnica portano con sé. La posta in gioco non è più soltanto il rispetto kantiano del prossimo nell’immediatezza dell’atto morale: è di prendere in considerazione atti collettivi i cui effetti nel lungo termine non hanno né precedenti, né possibilità di misurazione, di assumere nuovi obblighi nei confronti dell’ambiente tecnico-culturale al quale affidiamo le generazioni future; in una parola, ‘di includere l’intero pianeta nella coscienza della causalità personale’. Jonas raccomanda di inserire una sorta di etica della paura in tutte le nostre imprese, ‘non quella che dissuade dall’agire, ma quella che la stimola’; egli mira a una nuova forma di responsabilità, basata sulla prudenza, sulla vigilanza e sulla prevenzione dei rischi tecnologici necessari d’ora in avanti” (20).
Il tradizionale dibattito tra “chi ritiene che conoscere sia comunque un bene e un dovere, e che semmai è lo sviluppo dello studio delle conoscenze che devono essere guidate rigorosamente da un deciso senso etico, e chi invece pensa che –proprio nella visione unitaria della cultura e della sua appartenenza a tutta la società e al mondo– occorra guidare anche l’evoluzione delle conoscenze” (21) pur conservando tutto il suo interesse, non si attaglia più al dilemma etico che il passaggio dalla democrazia rappresentativa alla democrazia tecnica pone allo scienziato della cosiddetta nuova scienza. Per il quale si tratta ormai di passare da un’etica della verità, centrata su scelte del singolo, a un’etica dell’innovazione centrata su scelte collegiali condizionate dalla logica “delle cose” e non solo “delle persone”.
Una cosa saputa non è infatti una cosa accaduta; la moralità di chi decide cosa vuole sapere non è la stessa di chi decide che cosa vuol contribuire a fare accadere. Il contenuto etico delle scelte di Einstein, Fermi, Oppenheimer, Truman, quando consapevolmente collaborano per l’innovazione bomba nucleare, non è diverso.
Anche perché, in termini di etica del potere, ciò che è importante non è che cosa si sa, ma cosa si fa accadere. Lo scienziato moderno non può più ricavare solo dalla sua lealtà all’evidenza la soluzione, a priori, di ogni suo coinvolgimento morale. Se è partecipe di un’operazione di potere non può ignorare che, scegliendo tra le diverse evidenze quella che decide di perseguire, fa scelte politiche.
Che la scoperta scientifica possa interferire in tutti i sistemi di potere costruiti su valori e convinzioni lo sapevano, del resto, già Galileo e Bellarmino. Ma il novum della democrazia tecnica sta nella fine dell’irresponsabilità politica dello scienziato in quanto tale: da una scienza in sé politicamente irresponsabile si sta passando a una scienza tenuta a sentirsi, in sé, politicamente responsabile. Una scienza che deve imparare a capire fino in fondo il senso dell’affermazione del già citato Salomon che “Prometeo era temerario, non insensato”. Se il sonno della ragione genera mostri, “noi però sappiamo ormai che la veglia della ragione può crearne altrettanti” (22).
Qualche conclusione finale.
Fare lo scienziato impegnato a co-produrre innovazione vuol dire fare politica e di questa assumere la moralità: la politica moderna non essendo solo scontro di voleri e di poteri ma anche di saperi, quando questi si intrecciano in una decisione l’impegno etico deve essere di tutti. Una moralità per essere anche politicamente tale dovrà ispirarsi al rispetto dei valori che la Società ha inteso incarnare nel suo sistema di regole costituzionali, che dovranno essere correttamente interpretate dalle regole e procedure delle istituzioni –imprese, agenzie, ministeri, comunità europee, organizzazioni internazionali– direttamente o indirettamente coinvolte nei processi innovativi. In democrazia tecnica la qualità delle decisioni, la “governance”, non potrà non essere complessa: gli esperimenti collettivi ne sono un esempio. La loro istruttoria (Latour parlerebbe di cosmogrammi) potrà in molti casi stridere con la rozzezza di regole semplici come quella rappresentata dall’uso del solo voto a maggioranza. In tali casi sarà proprio un imperativo etico quello di introdurre anche nella “governance” l’innovazione necessaria per poter disporre di procedure che non si trincerino dietro principi semplici (ad esempio: il principio di precauzione, l’euristica della paura, lo stesso principio di responsabilità), ma sappiano affrontare con coraggio il rapporto esistente tra complessità, esercizio della responsabilità, eticità delle scelte individuali e collettive.
E’ questo il tema della cosiddetta “democrazia deliberativa”, cioè di quei metodi democratici innovativi (consensus conferences, scenario work shop, citizens juries) nel cui ambito è proprio la procedura ad essere presa in considerazione come fonte di legittimazione anche etica, in scelte complesse da fare in condizioni di conoscenze –anche morali– limitate. A questo proposito basta richiamare il quadro di complessità e incertezze etiche che avvolge i processi decisionali e regolatori in materie come quelle che le bioscienze o le nanotecnologie già ci hanno proposto: dalla clonazione alle staminali, dagli OGM ai nano-chips.
Mettere a punto una nuova –e anch’essa innovativa– democrazia “tecnica” o “deliberativa” è allora una risposta indifferibile se vogliamo sostenere le sfide del nostro tempo evitando il pericoloso cortocircuito tra un potere che cresce col sapere e una legittimazione morale e politica che decrescono al crescere del divario tra il sapere del potere e il non-sapere di chi lo subisce.
Solo allora miraggi come quello contenuto nell’asserto “no innovation without rappresentation” potrà cominciare ad assumere consistenza.
E il coniglio bianco avrà attraversato lo specchio senza svegliarci, consentendoci di restare ancora nell’unico vero “Paese delle meraviglie”, quello della libertà, pur continuando a “perseguire virtute e conoscenza”.
(Maggio 2004)
NOTE:
1. P. Rossi, “La nascita della scienza moderna in Europa”, Laterza, 2002, p. 359 (torna al testo)
2. P. Rossi, ibidem, Prefazione, p. XX (torna al testo)
3. C. Rubbia, “Corriere della Sera” del 10/5/2004 (torna al testo)
4. C. Rubbia, ibid. (torna al testo)
5. Richard R. Nelson, “On the uneven evolution of human know how”, “Reserarch Policy”, July, 2002, Full text nel sito di Fondazione Bassetti (torna al testo)
6. Richard R.Nelson, ibid. (torna al testo)
7. Richard R. Nelson, ibid. (torna al testo)
8. Adolf Berle, “Power” , Hercourt,Brace & World,Inc.,New York, 1969, pagina 7 e seguenti. (torna al testo)
9. Bruno Latour e altri, “From matters of facts to states of affairs. Which protocol for the new collective experiments”, a cura di Marisa Bertoldini, “la Cultura politecnica”, Bruno Mondadori, Milano, 2004 (torna al testo)
10. Bruno Latour, ibid. (torna al testo)
11. Ulrich Beck, “La Società del rischio”, Carocci,2000, p.294 (torna al testo)
12. Bruno Latour, ibid. (torna al testo)
13. Bruno Latour, ibid. (torna al testo)
14. Jean-Jacques Salomon, “I rischi dello sviluppo”, in “Dalla tribù alla conquista dell’universo. Scienza, tecnologia e società”, collana “La Nuova Scienza”, Scheiwiller, vol. I, p. 424 (torna al testo)
15. Giulio Giorello, prefazione al libro di Bruno Latour “Non siamo mai stati moderni”, Elèuthera, 1995, p.7 (torna al testo)
16. Evandro Agazzi, “La ‘filosofia’ della macchina”, in “L’uomo e le macchine” collana “La Nuova Scienza”, Scheiwiller, vol. II, p. 71 e seguenti (torna al testo)
17. Evandro Agazzi, ib. (torna al testo)
18. Hans Jonas, “Il principio responsabilità”, Einaudi,1993, Prefazione p.XXVII (torna al testo)
19. Hans Jonas, “Il principio responsabilità”, Einaudi, p.14 (torna al testo)
20. Jean-Jacques Salomon, cit., p.426 (torna al testo)
21. U. Colombo, G. Lanzavecchia, “L’uomo e il suo futuro”, in “Dalla tribù alla conquista dell’universo. Scienza, tecnologia e società”, collana “La Nuova Scienza”, Libri Scheiwiller Vol.1 p.377 (torna al testo)
22. Jean-Jacques Salomon, cit., p.421 (torna al testo)
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Questo documento è un ramo dell’item con lo stesso titolo (Febbraio 2005) della sezione Argomenti (Area del vecchio sito)
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