(Intervento al Corso Trasversale di Epistemologia della ricerca scientifica e tecnica – a.a. 2003-2004 – Politecnico di Milano, 16 giugno 2004)
Condivido senza esitazione le finalità di questo corso, ma mi piacerebbe anche riuscire a saldarmi con il vostro comprensibile interesse di cittadini, oltre che di ricercatori. Infatti un tema come quello dell’incontro di oggi: “la responsabilità nell’innovazione”, proprio a questo si presta.
Inizierò pertanto la mia chiacchierata riallacciandomi a un concetto già evocato. E cioè che il tema della scienza e della ricerca della conoscenza non solo ha rapporti delicati e complessi con il mondo della produzione, ma ha, sempre più, rapporti delicati e complessi con il mondo dei fini della società.
Io sono certo che molti di voi possono non aver colto subito il fatto che, dicendo “la scienza dei fini della società”, ho detto la politica. Oggi molto spesso la politica evoca le elezioni, i parlamenti e le istituzioni. Ma la politica, quella vera, è un’altra cosa: è, appunto, la problematica dei fini della polis, cioè del senso della vita nella polis. La politica non è il giochetto tra i partiti fine a se stesso. Questa è una degenerazione che si è determinata nell’ambito di ciò che è la vera responsabilità della politica: battersi democraticamente ed in modo appropriato attorno alle istituzioni (che sono i soggetti del potere pubblico) per stabilire i fini che una polis, e quindi una comunità, intende perseguire.
Il nostro tema di oggi, la responsabilità nell’innovazione – cioè come e quanto consapevolmente, chi fa l’innovazione si fa carico delle conseguenze che le innovazioni hanno nella storia – è perciò un tema squisitamente politico: perché chi fa innovazione fa storia e chi fa storia fa sempre politica. Anche se non è un “politico” ma è solo un innovatore.
È stato detto che, in fondo, il problema morale del ricercatore, giovane o vecchio che sia, è di mantenere la consapevolezza del senso del suo lavoro. Tenendo presente che senso significa direzione; e che perciò è la direzione finalistica del vostro lavoro ciò che ne definisce il senso.
Ma il ricercatore sa anche che il suo lavoro è legato ai sentieri della conoscenza non, direttamente, a quelli del potere. E che pertanto il senso che l’uomo di scienza trova nel suo lavoro quando cerca la conoscenza è diverso da quello che l’uomo di potere trova nel governo, o l’uomo di impresa trova nel produrre.
Solo che l’innovazione non è la scoperta! E nemmeno l’invenzione! Per quanto si senta troppo spesso affermare il contrario, la scoperta scientifica o l’invenzione tecnologica non generano di per sé innovazione, anche se ne sono il presupposto.
Ma cosa è allora l’innovazione?
Su questo tema la Fondazione Bassetti ha molto lavorato. E la conclusione a cui siamo giunti è che la più corretta definizione di innovazione è “la realizzazione dell’improbabile”. L’innovazione è cioè quello accadimento nel quale un fatto improbabile viene reso reale dall’incontro di un nuovo sapere con un potere capace di realizzarlo.
Due cose sono allora da tenere presenti.
Primo: che nuovo sapere non è solo quello – per esempio – dei fisici quantisti, dei nanotecnologi o dei semplici inventori di espedienti tecnologici. È anche il nuovo sapere di un Antonello da Messina, che introducendo la tecnologia della pittura ad olio, libera orizzonti estetici di cui fruiamo tutti; o del designer che introduce elementi di estetica in prodotti che altrimenti ne sarebbero stati privi; cioè di tutto quel mondo della creazione poietica (dal verbo greco da cui deriva poesia) nel quale, appunto, l’aggiunta di un nuovo contenuto poietico si rivela fonte di innovazione. Una innovazione della quale, del resto, campa gran parte del Made in Italy.
Secondo: che il nuovo sapere capace di generare innovazione spesso non è tanto quello fatto di nuovi disvelamenti delle regole della natura, quale è stata la scienza nella sua fase iniziale, ma è anche quello fatto di nuovi modi di relazionare conoscenze anche vecchie: la macchina a vapore e il carro erano conoscenze vecchie ma la locomotiva fu certo un nuovo modo di combinare energia e trascinamento. Allo stesso modo lo stupore per le relazioni volumetriche di Santa Maria delle Grazie come lo splendore pittorico del Cenacolo vengono dall’aver saputo trovare in conoscenze antiche dei materiali e delle forme nuovi modi di evocare emozioni capaci di arricchire la nostra condizione esistenziale e perciò la nostra storia.
Se allora definiamo il “nuovo” come aggiunta alle conquiste che nella storia l’umanità ha fatto in quello che genericamente chiamiamo “il sapere” (con la consapevolezza che la conoscenza non è frutto di solo sapere erudito ma anche di sperimentazione e esperienza) ci rendiamo conto che ogni qualvolta una nuova conoscenza, sia essa una formula scientifica o pittorica, si incontra con la sua realizzazione, cioè la sua incarnazione nella storia, allora lì c’è una innovazione. C’è un cambiamento della storia, frutto dell’uso congiunto della conoscenza e del potere di inverarla. Non c’è infatti crescita di innovazione quando c’è solo una scoperta. Tra la conoscenza pura e l’innovazione c’è sempre di mezzo il rapporto con il “potere”. In altri termini perché gli uomini possano di più, non basta che sappiano di più.
Solo che quando gli uomini sanno e possono di più, subito si scatena la lotta per stabilire verso quali fini il supplemento di potere così acquisito debba essere utilizzato.
È questo il contributo che l’innovazione dà, oltre che alla crescita, anche alla lotta per il potere.
Quando si pensa al potere, si pensa ai distributori di posti o ai percettori di stecche. Ma quello non è il potere. Ne è solo una degenerazione.
Il vero potere è quello che consente di fare la storia, di cambiarla, applicando forze diverse che possono essere l’autorità legittima o il denaro o la fede: ma alle quali non si può non aggiungere l’innovazione. Perché essendo essa realizzazione di ciò che prima non c’era, mette colui che la possiede in condizione di potenziale vantaggio.
Solo che l’innovazione a sua volta non può nascere fuori dai circuiti del potere. L’abbiamo già visto: una scoperta non fa un’innovazione. Perché un nuovo sapere diventi un’innovazione occorre che un potere esistente converga per inverarla. Perché il modello T della Ford cambi il mondo iniziando la motorizzazione di massa, non basta la creatività di qualche ingegnere di Detroit (sapere). Occorre che la potenza capitalistica di un imprenditore (potere) metta a disposizione degli uomini automobili concrete a costi accettabili.
In altri termini, quando si parla di innovazioni produttive, siano esse industriali, commerciali, di servizi, ciò che alla fine conta e decide è il potere economico, che solo può inverare una nuova scoperta o una nuova tecnologia.
È la volontà di chi vuole saldare quel sapere con quel potere ciò che veramente conta!
Nei tempi antichi nei quali la Scienza ha fatto la sua apparizione è innegabile che le cose fossero un poco diverse. Galileo, che del cannocchiale ha l’idea, per costruirlo non ha bisogno di grandi capitali. Gli basta un principe intelligente che lo ospiti. Semmai i suoi problemi nascono altrove. Quando il cannocchiale è fatto, guarda la luna e scopre che è diversa da come la definivano i canonici di allora. È qui che si mette nei guai perché è qui che, diremmo noi, fa politica. Se la terra era ferma e il sole girava intorno si poteva dire che la Bibbia era il libro della verità e che da quel sapere derivava legittimamente quel potere. Ma se cominciavano contestazioni fattuali è chiaro che quel potere doveva fare la fatica di riorganizzarsi. L’idea di bloccare la storia è tipica del potere costituito perché questo fa molta più fatica a gestire il divenire che a gestire la staticità.
Ora l’innovazione è il contrario della staticità. Basta che appaia ed eccola subito alle prese con la politica. E quindi con la responsabilità.
Solo che sviluppandosi e divenendo sperimentale la Scienza è stata costretta ad incontrare un altro e più complesso problema: il laboratorio e la tecnologia.
Mentre nella fase iniziale tra il lavoro dello scienziato e la nascita dell’innovazione c’era di mezzo relativamente poco, col crescere dell’importanza dell’innovazione nella vita economica, tra la ricerca e lo sviluppo applicativo, sono intervenute nuove complessità, prima fra le quali la tecnologia. Come conseguenza la quantità di potere del quale occorre disporre per dare concreta realizzazione a un nuovo sapere è enormemente cresciuta.
Come afferma Richard Nelson – che l’anno corso ha fatto per la Fondazione Bassetti una “lezione magistrale” in Bocconi – oramai in tutti i campi la scienza moderna deve pagare un grosso tributo alla tecnologia per potersi realizzare sperimentalmente. Per questo esige un intenso negoziato con il potere.
Se l’innovazione è complessa, il prezzo pagato per poter realizzare l’incontro tra conoscenza e potere può infatti essere elevato.
L’esempio della bomba atomica resta, forse, da questo punto di vista, il più eloquente.
La tecnologia ha, infatti, costretto la scienza ad uscire dalla sua originaria libertà, un po’ ludica ma comunque tale. L’ha costretta a finalizzarsi, perché l’ha spinta in un rapporto irreversibile con il potere fino al punto di renderla, in molti casi, essa stessa potere. La scienza ha così incontrato il problema dei suoi fini politici: perché negoziando i mezzi per la sperimentazione e l’applicazione delle sue verità è costretta anche a negoziare il senso di quello che fa.
Non solo. Ha incontrato anche la sua responsabilità: diretta o indiretta. Quando infatti le scelte riguardano “fini” e non soltanto “verità”, il tema della responsabilità diventa ineludibile. Per esempio: da dove veniva, se non da considerazioni di questo tipo, il dramma di fisici come Niels Bohr che avevano capito che la loro ricerca sarebbe finita nella atomica?
Oramai lo spazio di azione della scienza pura è molto limitato. Forse si salvano i matematici!
Se l’innovazione, intesa nel suo preciso significato, è qualcosa che si ha solo quando all’accrescimento di sapere si aggiunge e si combina una aggiunta di tecnologia e del potere attuativo proprio del capitale, o del potere politico, allora diventa chiaro che i meriti, ma anche le responsabilità, non sono tanto dei ricercatori quanto dell’imprenditore o del politico, cioè di coloro che concretamente dispongono la combinazione dei fattori coinvolti e che dovrebbero sapere quello che stanno facendo, con le relative conseguenze.
Purtroppo però nell’innovazione, che, abbiamo detto, è necessariamente realizzazione dell’improbabile, sapere ex ante quali saranno le conseguenze delle proprie scelte è spesso tuttaltro che facile: dove c’è l’improbabile lì c’è sempre incertezza e quindi rischio. E poche cose sono più difficili da finalizzare e gestire del rischio.
In epoche passate i giochi della scienza e del sapere, anche nella prospettiva della loro implementazione, non sfioravano quasi mai una dimensione di rischio. Oggi quasi tutte le innovazioni possibili hanno dentro (e lo scienziato lo sa meglio del profano) un contributo al rischio rilevante. Un esempio: la nanotecnologia. Contiene un rischio altissimo perché nella misura in cui non può non delegare alla tecnologia nanometrica la costruzione delle sue nano-macchine utensili crea condizioni di controllo del processo altamente rischiose. (Non è un caso che a intuirle sia stata per prima la letteratura fantascientifica!)
Del resto i greci, che da questo punto di vista sono ancora un grande riferimento, questa percezione del rischio, che l’incontro tra scienza e potere può determinare, l’avevano chiarissimo. Tanto da costruirci un Mito: quello secondo cui furono Era e Urano, cioè la Terra e il Cielo a costringere lo stesso Zeus (il potere) che era giaciuto con Metis (il pensiero), a ingoiarla; per evitare che il prodotto di tale unione potesse un giorno sconfiggerlo. Di qui la nascita di Pallade dalla sua testa. Di qui il rapporto fortemente dialettico di amore e odio tra Zeus, il Potere e Minerva, il Sapere! Di qui anche il mito di Prometeo, punito per aver dato agli uomini il fuoco: un fattore di rischio che oggi noi coi nostri “fuochi” abbiamo certo superato!
In sostanza – ed è questa la seconda parte di questa conversazione – è pericoloso non preoccuparsi di come l’innovazione, cioè la combinazione tra scienza e potere, è oggi creata e finalizzata.
Chi la indirizza? Chi la gestisce? Chi ne ha la responsabilità?
Stranamente nel nostro mondo di democrazie capitalistiche non vi è una istituzione dotata del potere, e investita della responsabilità, di gestire l’innovazione. Essa è gestita di fatto dall’imprenditore e nell’impresa. Il mercato la misura in termini di profittabilità, non nelle sue finalità storico-politiche.
Dice in proposito Ulrick Beck:”I Parlamenti non si occupano di cose importanti come l’innovazione, ma solo di cose strumentali: né potrebbero farlo”.
Con una scelta ideologicamente consapevole, noi moderni abbiamo deciso di creare condizioni di sostanziale deresponsabilizzazione del potere politico nella gestione dell’innovazione ed abbiamo massicciamente trasferito, (tranne che negli U.S.A dove una porzione rilevante della innovazione è influenzata dal Dipartimento della Difesa che fa scelte di natura prevalentemente politico-militari) tale responsabilità all’imprenditore o alle tecnostrutture d’impresa che ad esso fanno capo; affidando contemporaneamente al mercato il compito di validarne le scelte. Ora il mercato, pur essendo una istituzione in sé democratica, non foss’altro perchè affida al referendum dei consumatori la scelta tra cosa è e cosa non è vantaggioso, e quindi profittevole, non si pone problemi di “fini”. Può essere efficientissimo nella soluzione di problemi di calcolo della redditività ma non è predisposto per operare scelte finalistiche.
Il che vuol dire che non è in grado di esercitare un controllo politicamente responsabile.
Eppure l’innovazione, per la sua grande incidenza sui rischi e sul senso della nostra vita, dovrebbe essere da noi attentamente controllata, finalizzata, fatta oggetto di responsabile precauzione!
Se il controllo finalistico della innovazione non è della politica ma è degli attori che vi sono coinvolti, sarà allora ad essi che il richiamo a un accresciuto senso delle relative responsabilità, dovrà rivolgersi.
E guardate che è un problema sul quale voi, non tanto come ricercatori ma come cittadini siete già da oggi fatalmente chiamati a riflettere. Quando infatti si scopre che un potere come quello di decidere l’innovazione è di fatto sottratto alle istituzioni della democrazia, non si può non sentire il peso della responsabilità che da questo fatto deriva per tutti quelli che in tale processo sono coinvolti: si tratti di elaboratori di sapere o di condizionatori di potere.
E questo non riguarda solo l’innovazione “pesante”, science intensive, come, per esempio, il nucleare. Ci sono innovazioni apparentemente “leggere” o addirittura effimere, come ad esempio la minigonna, che per la loro capacità di determinare cambiamenti nella vita sociale possono segnare svolte importantissime nella storia di una società o nei rapporti con altre società caratterizzate da valori diversi.
E allora? Dobbiamo forse prendercela con Mary Quant? Ma se non con lei, con chi? Dobbiamo fare appello all’etica? Ma di chi? Quando il soggetto attore di una innovazione non è una persona singola ma una tecnostruttura, di per sé deresponsabilizzante, chi sarà il responsabile?
Qui l’etica personalista non può funzionare: perchè la linea ricercatore-tecnologo-uomo di potere, può valutare gli effetti della sua innovazione solo dopo che i suoi effetti si sono determinati.È una sequenza de-responsabilizzante.
Di chi è stata la responsabilità dei nati focomelici a seguito dell’uso del Talidomide? Chi avrà la responsabilità delle innovazioni non sostenibili rese possibili dal rifiuto del Trattato di Kyoto?
Siamo nella società del rischio. Ma questo chi lo gestisce? Quando una decisione include il rischio non si tratta infatti più di “realizzare l’improbabile” entro un ambito, tutto sommato, conoscibile. Si tratta invece di incidere su accadimenti di cui si sa già che possono sfuggire al controllo. Né si sfugge al fatto che la responsabilità in materia di realizzazione dell’improbabile è quasi sempre impossibile da determinare: l’abbiamo frammentata, trasferita in filiere o in tecnostrutture e c’è un bell’ invocare il ricorso a sacri principi, come quello di Precauzione!
La verità è che quando decidiamo innovazioni che sappiamo essere di rischio, noi agiamo in base ad un’altra convinzione: quella secondo la quale se ci si dovesse preoccupare dei rischi, insiti in qualunque innovazione, non si innoverebbe più. Senza rischio c’è solo la morte! Se non si cambia non si fa la storia. E noi la storia vogliamo continuare a farla.
Ma veramente per fare la storia si deve essere irresponsabili? Ecco da dove il tema della responsabilizzazione dei soggetti che innovano, espulso dalla porta, si riaffaccia alla finestra. E vi rientra in stretta connessione con l’altro: chi, quale potere, è legittimato a determinare i fini che l’innovazione è chiamata a perseguire?
È questo il tema, il senso vero del nostro incontro. Ed è, badate bene, un tema politico!
Possiamo dire che le istituzioni di controllo democratico del potere hanno il controllo sull’innovazione e si assumono la responsabilità di gestirla? Purtroppo no.
Beck ha ragione quando dice che un normale consesso eletto a suffragio universale non è strutturalmente adatto a gestire politicamente l’innovazione. Un esempio di attualità: gli OGM. Provate a pensare un’Assemblea come il Consiglio Regionale della Lombardia. Su 60 consiglieri quanti sono in grado di valutare il rischio che una certa implementazione della biogenetica comporta?
Ma se non può farlo un normale organismo elettivo, chi può rappresentarci, e assumere per noi, le decisioni che riguardano le innovazioni?
Gli uomini di scienza tendono a dire: noi. Hanno torto. Anche se questo è un errore diffuso; un errore che a mio parere ha strette connessioni con la diffusa confusione tra scoperta e innovazione. Ho già ripetutamente detto che l’innovazione non responsabilizza chi propone un nuovo sapere bensì chi implementa quello che lo scienziato ha saputo. Non è quindi affatto vero che un senato di Premi Nobel è in grado di decidere se gli OGM vanno bene o no per l’agricoltura lombarda, meglio di un senato di contadini.
Su questo Bruno Latour, ha dato, in queste stesse aule, un contributo interessante quando ha detto “..abbiamo bisogno di un “Parlamento delle cose”. Abbiamo bisogno che idealmente il fiume che viene sporcato da un processo chimico nuovo, che però inquina, sia in qualche modo rappresentato.”
Quando ci sono di mezzo scelte difficili, il tema di nuove forme di democrazia si rivela improrogabile. In proposito Amartya Senn dice giustamente: “la democrazia non si esaurisce in quella cosa che l’occidente ha sperimentato nelle forme che noi conosciamo, ma è il concetto di decisioni dialogate tra il potere e il demos che le subisce.” E aggiunge che “non c’è niente di sorprendente se, in un mondo di rischio, questo dialogo avviene con forme diverse da quelle scoperte dagli inglesi nel 1200”.
Se il tema del controllo delle decisioni difficili va posto, esso va posto pensando a un tipo di democrazia capace di introdurre tecniche decisionali capaci di aumentare il tasso di responsabilità di chi decide l’innovazione.
Qui, paradossalmente, un aiuto può venirci da un salto nel passato: a un’esperienza che su un terreno apparentemente diverso, quello della Giustizia, i romani hanno fatto 2000 anni fa, quando hanno capito che non si poteva decidere una condanna a morte – decisione certamente difficile – a maggioranza di voti ma bisognava garantirsi che le persone chiamate a decidere, i giudici, arrivassero a farlo solo dopo aver percorso una successione di comportamenti rigidamente proceduralizzato. Così, vincolando quelle determinazioni non già a impossibili vincoli di merito, bensì a rigidi obblighi procedurali – cioè, diremmo noi, metodologici – hanno migliorato enormemente la loro giustizia
Noi tutti sappiamo infatti che qualunque processo sommario esercitato anche dal più saggio dei giudici è soggetto a rischi di ingiustizia che il rispetto di procedure formalizzate provatamente riduce. I romani, di fronte all’obiezione che la giustizia umana non esiste, hanno saggiamente concluso che ciò che è perseguibile non è tanto la sentenza giusta quanto il giusto processo; che il giudice non può essere colpevolizzato per le sue scelte di merito ma è sì responsabile di erronei comportamenti procedurali.
Forse qualcosa di simile è ciò che anche noi possiamo tentare per conciliare innovazione e responsabilità. È infatti assai probabile che delle procedure opportunamente studiate per esaltare il senso di responsabilità di chi innova possano aumentare la qualità e l’accettabilità politica delle innovazioni poste in atto dal sistema.
È una strada che peraltro la Commissione Europea ha già, da anni, deciso di perseguire; fra difficoltà rilevanti, poste in atto, spesso, proprio da agenti impregnati di illusioni tecnocratiche. È una strada che quasi sicuramente non riuscirà ad azzerare la complessità e i rischi del problema che ci siamo posti. Ma è, con ogni probabilità, la sola strada che può rivelarsi capace di affrontare, insieme, la tutela della libertà della scienza, l’incontenibile nostro istinto prometeico, l’esigenza di conservare l’insuperabile capacità del mercato di ottimizzare l’allocazione delle risorse anche in una società del cambiamento e del rischio.
Su questa strada non possiamo tardare a incamminarci.
Noi abbiamo consapevolmente violato l’indicazione del Mito. Abbiamo deliberatamente unito il sapere al potere, per inseguire l’innovazione.
Se vogliamo riacquistare il controllo del mondo che abbiamo creato dobbiamo assolutamente superare le nostre attuali carenze istituzionali e darci regole adeguate.
Voi che in questo momento mi ascoltate siete sicuramente tra coloro che più di molti altri vivono già in questa fase di impegno professionale e civile i prodromi di un fatale crescente coinvolgimento in responsabilità di tal tipo.
E ricordiamoci che dire responsabilità non vuol dire evocare solo responsabilità individuali. Vuol dire riferirsi anche alle responsabilità comunitarie della politica.
Noi cessiamo di essere liberi quando il campo di esercizio delle nostre scelte, non essendo definito, ci fa diventare irresponsabili. È compito della politica stabilire, il senso, cioè la direzione, del più generale impegno comunitario e le relative regole.
La libertà del sapere come quella dell’innovare non potranno sopravvivere se la politica non saprà stabilire le modalità entro le quali il loro esercizio possa risultare responsabile: soprattutto quando innoviamo.
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— on-line: Dicembre 2005 —
— questo testo sarà pubblicato dalla Bruno Mondadori in un volume sulla cultura politecnica —
(Questo documento è un ramo dell’item con lo stesso titolo (Dicembre 2005) della sezione Argomenti del sito della Fondazione Bassetti)
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