(Prosegue dalla Terza Parte)
5. Giacomo Correale
Io non dico che la responsabilità "deve" guidare le imprese, cioè che sia necessaria, né che questa necessità debba essere trovata nella "convenienza". Io dico che la responsabilità, come scelta etica, "può" guidare l’impresa (che ne riceve una impronta di per sè positiva), e che "può" convivere con la convenienza, termine con cui intendo niente altro che il profitto. E che questo connubio "può" anche generare un profitto maggiore di quello ricercato con un’azione eticamente spregiudicata.
Certo, un pericolo c’è nel coniugare un discorso sulla responsabilità, cioè etico, con un discorso sul profitto, cioè utilitarista: il pericolo di assoggettare l’etica all’utile, che per l’azienda resta comunque fondamentale per la sua sopravvivenza e crescita. Questo è forse il problema principale sul quale ci si deve soffermare. L’etica non dovrebbe essere applicata agli affari come un orpello, cioè come qualcosa di esteriore e strumentale.
Perchè le aziende dovrebbero sentirsi tenute a comportarsi responsabilmente? Anche qui, possono, non debbono. Se lo fanno, cercheranno di conciliare l’aspetto utilitarista con quello etico, e facendolo potrebbero scoprire che l’agire etico "può pagare", anche se non è questo il suo obiettivo.
Concordo sul dire che la natura umana "non è necessariamente malvagia, ma sicuramente imperfetta" e poi che "sono le situazioni medie quelle per le quali l’etica è un riferimento fondamentale, quando cioè comportarsi in modo responsabile non è nè troppo facile nè troppo difficile". Del resto, la mano invisibile di Adamo Smith funziona così: certamente il macellaio non ti serve la carne "per benevolenza" verso di te, ma per fare il proprio interesse. Tuttavia la carne che egli offre deve essere buona perchè il cliente ritorni. E poi, può anche darsi (anzi, a mio parere è molto probabile) che il vendere buona carne sia per lui una soddisfazione professionale e sociale.
Non ho mai immaginato un mondo economico in cui "tutto è bello e luminoso". Credo fermamente nell’imperfezione, e temo fortemente la perfezione. Ciò non toglie che occorra continuamente tendere alla perfezione esercitando le discipline opportune, e che sia buona cosa ammirare e additare agli altri chi raggiunge livelli più alti di perfezione.
In sintesi: le scelte etiche, di un individuo o di una organizzazione, trovano in sé stesse la propria ragion d’essere. Nel comportamento dell’imprenditore e dell’azienda esse vanno conciliate con le esigenze di sopravvivenza e sviluppo dell’azienda. Rispetto a tali esigenze esse possono talora entrare in conflitto, ponendo i soggetti di fronte a scelte che possono implicare sacrifici economici in nome di principi etici, ovvero essere sinergiche. Se l’azienda svolge adeguatamente il suo ruolo di produttrice di valore, rivolgendo la propria attenzione anche alla distribuzione di tale valore tra gli stakeholder dell’azienda stessa, io penso che la sinergia sia più probabile. Tra le superiori finalità o vincoli etici da una parte, e le finalità di creazione del valore per chi ha interessi nell’azienda dall’altra, può ben inserirsi il concetto di responsabilità sociale dell’azienda, come suo contributo al bonum rei publicae.
In questa prospettiva, può diventare un caso esemplare quello della Nike e degli ultimi sviluppi della sua presenza in Cambogia. Dopo il noto scandalo, sollevato un paio di anni fa, da associazioni no global, della produzione di palloni realizzata sfruttando il lavoro minorile, che indusse la Nike a ritirarsi dalla Cambogia con grave danno economico per questo Paese, è partita una operazione complessa promossa dal sindacato americano Afl-Cio, che coinvolge, oltre alla Nike e ai sindacati americani, il governo, le associazioni imprenditoriali e i sindacati cambogiani, con la supervisione dell’Ilo (l’organizzazione dell’ONU per i problemi del lavoro). Questo dovrebbe consentire il ritorno della Nike e di altre multinazionali in Cambogia, basato su rapporti di lavoro regolari. In questo caso, le finalità etiche, gli interessi economici dei paesi progrediti e di quelli sottosviluppati, e alla fine il bonum rei publicae internazionale sono alla ricerca di una conciliazione che si basa anche (sia pure non solo) sulla responsabilità sociale delle imprese coinvolte (per una descrizione puntuale del caso, v. Federico Rampini, la Repubblica, 22 giugno 2002).
6. Carlo Penco
Se si vuole parlare di responsabilità ha senso farlo se si fa riferimento ad un metodo e ad un linguaggio rigoroso.
Ad esempio, il termine necessità, non implica un’obbligazione, al contrario può andare di pari passo con la scelta e la libertà. In particolare se parliamo di scelta etica questa è per definizione libera, nasce cioè dalla possibilità piuttosto che dall’obbligo (come invece accade nei confronti della legge positiva). È questione di dove si pone il "locus of control": esterno (legge, obbligo), o interno (scelta etica). Chi sceglie lo fa perché, in base alla sua libera interpretazione, definisce che per lui è necessario fare così. Ma nessuno lo obbliga. È una scelta di ragione, non di istinto né di sentimento. D’altra parte è proprio questa ragionevole necessità che fa sì che, anche di fronte ad allettanti scelte non responsabili (allettanti perché siamo legni storti), noi si scelga talvolta dolorosamente per l’etica.
La teoria contrattualista teorizza che queste scelte individuali tendono ad allinearsi e a diventare patrimonio comune di una comunità di eguali, attraverso un tacito e/o esplicito accordo. Ci si accorda intorno a una serie di elementi di giudizio comune che diventano valori condivisi.
Ma qual è la base di questa scelta? Ripeto: non l’utile. Chiariamo che cosa si intende con utile. Non è quello al netto delle tasse, il profitto. È, più in generale ma in modo più pervasivo, l’utilità attesa dalle azioni che si compiono. Per gli utilitaristi è bene ciò che produce una convenienza: quindi tra due comportamenti è da preferire quello che produce una convenienza maggiore. Va da sé che l’utile sia definibile come bene anche quando non lo è! Il problema è poi cosa fare se soggettivamente quello che è conveniente ed utile per me non lo è per altri. Gli utilitaristi tendono a risolvere questo dilemma invocando una serie di pesature e ponderazioni che tendono a giustificare come bene ciò che è massimamente utile per il massimo numero di individui. Le conseguenze, ad esempio, sui diritti delle minoranze sono evidenti. Per tanto, nonostante le varianti che la teoria utilitarista ha espresso, permangono le debolezze logiche e concrete (negli effetti intendo, compreso un certo autoritarismo della maggioranza).
Tuttavia, il tema utilitarista ha ancora un gran fascino ed è potentemente radicato nel senso comune. Io credo invece che gli umani si devono comportare bene perché scelgono di farlo e, di conseguenza, questo salvaguarda il bene comune e la convivenza, e non l’inverso. Può sembrare una distinzione di lana caprina, ma quando si mette in mezzo l’interesse individuale difficilmente si crea convergenza. E anche l’idea di Adamo Smith di una mano invisibile che riporta magicamente tutto all’ordine è di nuovo frutto di una ingenua visione utilitarista: gli effetti mi paiono sotto gli occhi di tutti, con il 25% percento dell’umanità che consuma il 75% delle risorse energetiche, idriche e alimentari, mentre un altro 25% è sotto la soglia della sopravvivenza (ma se dalla scala planetaria scendiamo ad esaminare "la salute della mano invisibile" a livello di singoli stati, troviamo proporzioni analoghe in paesi avanzati come USA, Gran Bretagna ed Italia!).
Attenzione: io non sposo la tesi che profitto ed etica siano per definizione divergenti. Posso pensare che essi possano pur convivere: nessuno è obbligato a fare business, mai, come nessuno è obbligato a fare business in modo non etico. La prima libertà è la via di uscita nel caso non funzioni la seconda! È doloroso, ma se ci viene impedito di fare affari secondo coscienza si può sempre uscire dagli affari.
A mio modo di vedere il discorso della responsabilità dei vertici aziendali e delle aziende come soggetti collettivi va fondato al di là della ricerca dell’utilità. È una scelta di valore, quindi al di fuori da calcoli economici. Per questo, però, può guidare, se la si sceglie consapevolmente. Si fonda, infatti, su valori (cosa vorremmo essere, come vorremmo comportarci) e principi (cosa non vorremmo mai diventare, cosa non possiamo fare). Questi vengono prima dell’azione economica e ne diventano un metro di giudizio.
Va aggiunto però, lo ripeto, che l’etica funziona bene nelle situazioni medie. Dove non è troppo facile comportarsi rettamente né troppo difficile (perché i condizionamenti sono fortissimi, ne va della nostra libertà o della nostra vita, ad es.: lì bisogna essere eroi oltre che etici!). Le situazioni medie sono però, di solito, le più frequenti e le più dubbie. E spesso il dubbio è proprio tra il proprio interesse e qualcosa d’altro, un’altra possibilità che si intravede. Non penso che in queste situazioni si possa sempre dire che poi, dopo, nel lungo periodo si guadagnerà, specie se la concorrenza è molto sostenuta.
Prendiamo laicamente il toro per le corna, e affrontiamo la questione con toni filosoficamente maturi, il fondamento della responsabilità è altrove, è nella scelta libera di essere diversi, di essere autenticamente umani. È nella ricerca di valori che si costruiscono insieme, cercandoli in modo problematico.
L’obiettivo non è la perfezione, semmai la constatazione della nostra imperfezione, di come sia difficile essere migliori, tuttavia possibile. Si esecra sempre la cattiveria degli altri, ci si indigna ma spesso molti restano senza sapere cosa fare. Parlare d’etica vuol dire indicare una possibilità concreta ed individuale.
Per rendere la cosa concreta gli eticisti anglosassoni usano un metodo maieutico, lavorando sulla discussione di casi e in seguito, con chi ha ruoli di responsabilità, di autocasi. I casi sono il pretesto per allargare e problematizzare il discorso, tirando in ballo, come immaginari consulenti, i filosofi della tradizione filosofica e portare il dialogo verso temi inattuali come: "che cosa siamo", "perché siamo qui", "cosa è il buono", "cosa è la verità".
7. Gian Maria Borrello
Ma… e se mentre il mondo migliora (perché questo è l’auspicio, alla fine) col contributo della filosofia e dell’etica, qualcuno, in men che non si dica, manda tutto in malora?
Non sto parlando ironicamente, anche se –lo riconosco– sono provocatorio. Il punto è, infatti, che "qui ed ora" esistono espressioni del potere che sono assolutamente inedite: il potere di una multinazionale o il potere conseguente a una scoperta scientifica. Personalmente avverto che quello che sta dietro alcune modalità di espressione dell’economia e della scienza odierne non è mai stato di simile portata. Mai. In che senso? Nel senso che oggi la dimensione delle conseguenze di un "atto di potere" in campo "economico" o "scientifico", o semplicemente "di un atto di potere" (che distinguere per settori non ha alcun senso) può essere planetaria. La misura dell’"inedito" è quindi data dalla possibilità di incidere (non necessariamente decidere, azione che implicherebbe una consapevolezza) sul destino di cose ed esseri viventi a livello globale, nel senso di planetario. Questo è –io credo– il grande scarto che la questione della responsabilità presenta rispetto a ieri.
Riferendomi alle tesi sin qui esposte, la questione decisiva mi sembra dunque sia: sono tali ottiche davvero capaci di intervenire su quello che è oggi il mondo? Di confrontarsi, "hic et nunc" ed efficacemente, con l’attuale dimensione della portata di molti poteri?
Io temo di no. Nelle riforme dal basso, o in quelle di medio raggio, posso anche avere fiducia, ma credo che occorra stare attenti che esse non siano "fuori tempo massimo". Quindi io vedrei la questione che discutiamo con occhi un tantino più preoccupati. Questa percezione mi porta a non escludere a priori l’approccio che potremmo chiamare come "della responsabilità intesa come una questione di… convenienza".
Riguardo alla "convenienza", mi chiedo se si possa intenderla in un modo che prescinda dai valori (condivisi, o meno) e da forme di altruismo (convenienza del mercato, convenienza dei consumatori). In sintesi azzarderei l’ipotesi di una selezione (dovuta a una sorta di legge di natura… altri direbbero "di mercato"…) a vantaggio di chi opera sì, egoisticamente, per propria convenienza, ma anche –per calcolo, per caso, o per qualche altro motivo– a vantaggio di molti altri. Come dire che l’egoismo puro e semplice alla lunga non ripagherebbe. Con ciò mi pongo sulla linea illustrata, in questo sito, nel Percorso "Una questione di… convenienza", per esempio con riferimento a due casi ivi presi in considerazione: Ford e Microsoft. Il primo varrebbe a dimostrazione del fatto che un comportamento responsabile (dovuto, eventualmente, anche –o esclusivamente– proprio a un calcolo di convenienza) può innescare un circolo virtuoso che imprime un modello di comportamento. Il secondo mostrerebbe come un comportamento altruistico potrebbe essere dovuto a un calcolo egoistico: nel caso specifico, la Microsoft non sarebbe stata sufficientemente lungimirante da capire che innovare "altruisticamente" andava a proprio vantaggio.
Niente a che vedere, si capisce, con una responsabilità in senso etico, ma per quale ragione non si dovrebbe poter pervenire a intendere la responsabilità come semplice frutto della consapevolezza del proprio agire imprenditoriale, a prescindere da un’etica?
Mi sembra che, invece, la "questione di convenienza" presenti delle affinità con l’impostazione utilitarista (ma senza scomodare la teoria generale).