(Prosegue dalla Prima Parte)
3. Giacomo Correale
Non c’è bisogno di andare nell’utopia. Cioè: non è necessario che tutte le banche siano delle Grameen Bank, e tanto meno che tutte le aziende si pongano il problema della CSR. Basta che, tanto per cominciare, si comportino correttamente nei confronti dei loro clienti e degli altri stakeholder.
Tanto meno c’è bisogno di un improbabile regime "dirigistico" universale. Il mercato (il vero mercato, quello in cui viviamo per tanti prodotti e servizi, il mercato della concorrenza imperfetta, o se si vuole della concorrenza monopolistica –come per il colesterolo, c’è anche un "monopolio buono", quello che il mercato smaltisce continuamente con il superamento dei vecchi prodotti e il progredire dell’innovazione), il mercato resta sempre il principale strumento dello sviluppo economico.
Quanto al comportamento responsabile degli imprenditori e delle aziende, siamo proprio sicuri che siano una minoranza? Si potrebbe invece asserire che sono la maggioranza, più o meno come quelli che pagano il biglietto nella metropolitana di Milano, ben sapendo che potrebbero farla franca facilmente nel non pagarlo. Come quelli che fanno la coda senza esserne obbligati, anche se spesso o raramente (e questo è un sintomo del costume) vengono scavalcati da pochi prepotenti. Altrimenti, né business community, né trasporti pubblici, né traffico potrebbero funzionare. Mi sembra che nello stesso senso, cioè in un senso "ottimistico" (o come si dice perversamente da noi, "buonistico") circa il funzionamento delle democrazie, si siano espressi grandi liberal, non del tutto utopici, come Popper o Dahrendorf, svolgendo naturalmente il discorso a livelli un po’ più elevati…
Però è anche vero che il sistema economico appare "schiacciare", cioè impedisce a chi ci sta dentro di agire virtuosamente. Se tutti sfruttano il lavoro minorile in Indonesia per fare i palloni per il calcio, anch’io, se sono sul mercato, debbo adeguarmi per non morire. Ma è vero fino a un certo punto. Posso fare in modo che il mio modo di lavorare diverso e più umano di quello dei concorrenti diventi una immagine e un punto di forza competitivo.
Questo risponde alla domanda "chi fa la prima mossa?" Chiunque, quando vuole e può: le aziende, le istituzioni o qualcun altro. Non necessariamente le istituzioni. Tra l’altro, l’imprenditore in genere è uno che ha il gusto della prima mossa, anche se rischiosa, non solo e non tanto dal punto di vista economico.
E’ un gioco di "feed back" tra comportamenti e norme, tra scelte autonome e costrizioni (non erano già i romani che dicevano "Lex sine moribus esse non potest")?
Tutti pensiamo che le istituzioni pubbliche abbiano perso gran parte del loro potere, e che le aziende contino come e più degli stati. Del resto anche gli stati-nazione, circa duecento, sono ormai affiancati da quasi duemila organismi pubblici internazionali (v. Cassese, "La crisi dello Stato", Laterza). Ma forse c’è qualcun altro, una sorta di terzo incomodo, che conta di più di una volta, perchè le tecnologie dell’informazione gli consentono di aggregarsi più che nelle piazze: non è nè l’istituzione pubblica nè l’azienda. E’ un insieme di entità, più o meno allo stato nascente o formalizzate, che esprimono con forza e possibilità di influenza le esigenze di clienti, consumatori, utenti, cittadini, lavoratori. Forse in futuro gli equilibri (o gli squilibri) del mondo si giocheranno fra tre protagonisti, e non più tra due: istituzioni pubbliche, imprese, organizzazioni civili. Ognuno dovrà tener conto dell’altro, ma dovrà e potrà anche agire senza attendere l’imbeccata.
Esempi.
E’ abbastanza recente l’annuncio pubblicitario a tutta pagina sui principali quotidiani italiani di 130 organizzazioni senza fini di lucro italiane (con il sostegno dell’European Foundation Centre, che raccoglie otre 200 fondazioni europee e altre associazioni) contro la pubblicizzazione (cioè il predominio degli enti territoriali, stato, regioni, provincie, comuni) nelle fondazioni di origine bancaria, a scapito dei "privati" non profit.
Ed è altrettanto recente un importante articolo, che consiglio di leggere, su la Repubblica di venerdì 15 febbraio, pg.15, che riferisce di un rapporto di Amnesty International sui costi a cui le aziende vanno incontro a causa di richieste di risarcimenti miliardari per danni singoli e collettivi da esse causati, per attentati, spese per la sicurezza, boicottaggi sui prodotti, fughe di finanziatori, campagne di stampa, siti avversi e passaparola su Internet. Problemi di "risk management" che possono essere evitati da parte delle aziende con strategie lungimiranti basate sul rispetto di tutti i legittimi interessi in gioco, ovviando alle carenze di leggi a tutela di clienti, dipendenti, collettività.
E’ inoltre straordinaria la notizia che la Cassazione ha condannato l’Icmesa, la società proprietaria dello stabilimento da cui 26 anni fa fuoriuscì una nube di diossina che causò la contaminazione del territorio di tre comuni a Nord di Milano, a risarcire un imprenditore per il semplice danno morale causatogli dal prolungato turbamento psichico).
4. Carlo Penco
Vorrei inserirmi e dire la mia.
Devo subito chiarire che il mio punto di vista è diverso da quelli che avete espresso.
Io guardo al problema della responsabilità con interesse ma anche con un certo sgomento. Questo mio sgomento ha una duplice radice.
Da una parte, penso che il problema sia grave e, se è vero che coinvolge tutti, è, a mio avviso, una questione che non può essere affrontata a livello di sensazioni od opinioni personali. In particolare, se è vero che la responsabilità deve "guidare" le imprese prima e a prescindere dal diritto positivo, essa deve avere anche un carattere cogente ed universale, "necessario", per funzionare. Ma quest’aspetto "necessario" non può, a mio avviso, essere trovato nella "convenienza", o nella "maggiore convenienza" a comportarsi in modo responsabile. Il perché è ovvio, di nuovo si aprirebbe una discussione senza fine su questa convenienza (cos’è, ma quello che è più conveniente per uno potrebbe non esserlo per l’altro, o lo stesso soggetto in situazioni diverse potrebbe essere sensibile a convenienze diverse).
Inoltre senza un significativo fondamento il discorso sulla responsabilità diventa puramente esortativo e, come spesso succede con le esortazioni, scaturisce l’effetto opposto (tanto che su un’autostrada americana hanno intenzionalmente aggiunto sotto i cartelli che indicano il limite di velocità "Non guardate questo cartello!").
Sembra che basti essere un po’ addentro alle cose del mondo per parlare di responsabilità. E così intellettuali, famosi manager, politici, prelati, tutti ne parlano, scrivono libri sull’argomento (io ne posseggo una discreta collezione). In realtà esprimono le loro opinioni, luoghi comuni e, peggio ancora, inutili esortazioni.
Così che una vera ricerca sulla responsabilità e sui fondamenti della responsabilità (perché dobbiamo essere responsabili) dovrebbe essere affrontata con strumenti più sofisticati che la semplice "doxa" (opinione personale). Ma questi strumenti ci sono, sono lì, ma curiosamente molti di quelli che si affannano a parlare di responsabilità non li usano. Sono quelli della ricerca filosofica, della tradizione filosofica occidentale.
È qui l’altra parte del mio sgomento. Si parla di responsabilità a prescindere da un approccio etico (etica è la tecnologia filosofica che fornisce gli strumenti per affrontare i problemi della responsabilità). Anzi, si considera l’etica applicata agli affari un orpello, un qualcosa di inutile e/o astruso.
Bene, la mia posizione è questa: non ha senso parlare di responsabilità senza fare i conti con la base filosofica della questione. Il rischio è di divenire astratti ed esortativi e, quindi, favorire proprio il cinismo, l’anomia, il contingentismo e il relativismo etico.
Intendiamoci bene e subito, con ciò non voglio dire che soltanto i filosofi possono parlare di responsabilità! Al contrario, ma è necessario che chi si vuole occupare seriamente di queste cose lo faccia con la necessaria tecnologia. Forse che tutti quelli che utilizzano strumenti matematici, dai più semplici algebrici (alla base della contabilità industriale, ad esempio) a quelli un po’ più sofisticati (calcolo delle probabilità, ad esempio) sono laureati in matematica? Noi consideriamo la matematica alla stregua di un tool senza confonderla con la speculazione matematica pura. Perché non fare lo stesso con l’etica?
(Continua)