1. Inizio del dialogo – Giacomo Correale
(Cercate il riferimento al caso della Nike? Cliccate qui per raggiungerlo immediatamente)
Gli eventi planetari degli ultimi due decenni (globalizzazione, internet, superamento o per lo meno ridimensionamento del ruolo degli stati-nazione, …) portano a una riconsiderazione del ruolo e della responsabilità delle aziende, dalle multinazionali (corporate) alle piccole imprese. Cerco qui oltre di chiarire cosa intendo.
Non vorrei però che la "responsabilità sociale" venisse trattata come l’"etica negli affari": cioè come una materia facoltativa, un po’ come l’educazione civica nelle scuole. Io credo che debba essere considerata come intrinseca allo sviluppo economico e discriminante tra aziende che producono veramente ricchezza e aziende che più che produrla, la redistribuiscono (in genere iniquamente) o la distruggono.
Credo che occorra:
1) sgombrare il campo da un preconcetto "cattivista" sulla produzione di ricchezza;
2) porsi una domanda su cosa vuol dire "responsabilità" dell’azienda.
Punto 1)
Il preconcetto è che, per funzionare, il sistema economico debba essere lasciato libero da vincoli eccessivi, che invece valgono per altre attività umane. Mi riferisco in particolare alle operazioni e ingegnerie finanziarie finalizzate esclusivamente al profitto, che non tengono conto del substrato produttivo ed umano che esse coinvolgono e spesso distruggono.
Per assurdo, questo preconcetto è sostenuto non solo da chi ne trae diretto vantaggio, ma, in senso "cattivista", anche da seguaci di ideologie di derivazione cristiana o marxiana, che considerano il denaro come "farina del diavolo" o come furto nei confronti dei lavoratori. Con il risultato che, quando questi sono coinvolti in operazioni economico/finanziarie, si comportano come e peggio degli operatori "liberisti". Le vicende che hanno coivolto banche, aziende e affaristi facenti capo al Vaticano o all’ex PCI testimoniano ampiamente questa realtà.
In parole povere, si tratta di provare e affermare che ci sono infiniti modi per fare soldi, compresa la rapina a mano armata, ma che è possibile farli anche rispettando certe regole ispirate alla fiducia reciproca, alla civile convivenza e a una equa distribuzione della ricchezza prodotta. Che, anzi, questo secondo modo di operare si rivela nel medio termine capace di dar luogo a una somma superiore a zero, cioè a una crescita diffusa della ricchezza, mentre i sistemi più aperti al profitto di breve termine, speculativo, tendono a determinare redistribuzioni della ricchezza a somma zero, e nel medio termine, a livello sistemico, a somma minore di zero (come avviene nelle aree dominate dalla corruzione o dalla mafia).
Questo equivale a dire che occorre distinguere tra economia di mercato, che costituisce uno strumento fondamentale di libertà e di "disuguaglianza controllata" (l’uguaglianza richiede altri strumenti), e "liberismo" inteso come economia della giungla, dove tendenzialmente chi vince senza merito prende tutto.
Punto 2)
La domanda da porsi sulla responsabilità dell’azienda è: l’azienda deve semplicemente rispettare le regole imposte dall’esterno (il che equivale a considerarsi "liberi di uccidere" dove e quando le regole non ci sono), oppure deve farsi autonomamente promotrice di regole riconosciute come opportune, ma non formalizzate dagli ordinamenti in cui essa si trova ad operare?
Nelle società sviluppate, questi vincoli sono numerosi e sono stati riconosciuti non solo validi, ma anche economicamente accettabili se non addirittura fattori di sviluppo, sia pure spesso dopo aspre battaglie tra chi li considerava necessari per una convivenza civile e chi li considerava lesivi della libertà economica. Essi non costituiscono un "corpus juris" organico per regolare il sistema economico, ma nondimeno sono ormai ampiamente pervasivi e hanno cambiato in senso positivo molti comportamenti delle aziende. Proviamo ad elencarne alcuni:
– Regole sulla corporate governance
– Legislazione antitrust
– Norme contro gli inquinamenti delle acque, dell’aria, acustici
– Norme sulla qualità e la sicurezza dei prodotti
– Norme sulla sicurezza dei luoghi di lavoro
– Regole sulla trasparenza e sull’informazione aziendale
– Difesa dei diritti dei lavoratori
– Difesa del consumatore
Ripeto quindi la domanda: le aziende sono solo tenute a rispettare le regole, o devono farsene promotrici?
Ebbene, la storia economica dimostra che molte regole sono nate dalla stessa convenienza delle aziende a darsele, magari badando prima di tutto alla propria convenienza (corporazioni, camere di commercio, …), ma alla fine anche a quella del "mercato", cioè dei clienti e consumatori.
I codici recenti sulla corporate governance non sono stati imposti dalla legge, ma sono nati dalle aziende. Persino in Italia (incredibile! ma per pura imitazione dei paesi più avanzati…) il codice di comportamento delle imprese in materia di corporate governance è nato come codice di autoregolamentazione, anche se poi una azienda che voglia entrare in borsa è obbligata a sottoscriverlo (questo "Codice di autodisciplina" è visibile in www.borsaitalia.it)
La mia risposta è: una azienda, grande o piccola, nel proprio ambito d’azione, deve farsi promotrice di regole che trascendono la propria convenienza economica immediata, deve darsi dei codici di comportamento e consentire ad altri la verifica del loro rispetto, deve, insomma, comportarsi in modo responsabile, come se le regole fossero una propria scelta e non qualcosa imposto da altri. E questo per la propria sopravvivenza e sviluppo nel medio-lungo termine, non solo per scelta etica o "sociale".
Seguendo questa impostazione, non parlerei dunque di responsabilità sociale, bensì di responsabilità "tout court". L’azienda deve generare profitto, per sopravvivere. Ma il suo ruolo primario non è quello di generare profitto, bensì quello di produrre beni e servizi, cioè ricchezza reale (anche se spesso intangibile), e, attraverso questa produzione, anche il profitto. E’ qui che comincia la sua responsabilità. Che è ovviamente un fatto etico, ma che non è necessariamente un vincolo (cioè qualcosa di negativo, di limitativo) per la sua azione. Al contrario può essere una carta vincente, un fattore di successo per l’azienda.
Proviamo a pensare: un’azienda che fornisca ai clienti un prodotto migliore rispetto ai concorrenti, fa il proprio interesse o un atto di responsabilità verso i suoi clienti? Una azienda che, grazie al suo successo di mercato, riesca a trattare meglio i propri dipendenti (magari in Indonesia, dove fornire benessere costa molto poco), non ne trarrà vantaggio oltre a compiere un atto di responsabilità? Un’azienda che stabilisca buoni e stabili rapporti con i suoi fornitori, facendoli guadagnare e non strozzandoli non sarà in grado di dare ai clienti prodotti più affidabili, compiendo un atto di responsabilità verso clienti e fornitori? Forse un’azienda di questo tipo non sarà quella che retribuirà manager e azionisti ai massimi livelli (senza peraltro sacrificarli), ma in cambio darà a questi maggiore sicurezza e soddisfazione nel lungo termine. Dovrà solo contare su manager e investitori "giusti".
A questo punto, un’azienda ideale (ma non utopica: ce ne sono diverse che si avvicinano a questo modello) di questo tipo, avrebbe già fatto molto per la sua responsabilità.
Se però la responsabilità "sociale" si riferisce non agli "stakeholder" diretti dell’azienda, ma alle comunità in cui essa agisce, all’ambiente esterno, ai cittadini che sono estranei all’azienda ma sono coivolti dalle sue decisioni (l’esempio classico è quello dell’inquinamento) allora l’azienda che si preoccupa di non inquinare (magari ancora in mancanza di leggi adeguate), l’azienda che, invece di deturpare il territorio, collabora con gli amministratori per un impatto ambientale non solo negativo, ma urbanisticamente creativo (viene in mente, da una parte, in senso positivo, l’utopia olivettiana, dall’altra, in senso negativo, i "non luoghi" di certi centri commerciali attuali)… questa azienda –v’è da chiedersi– è necessariamente destinata a sacrificare i propri interessi per essere responsabile? La mia risposta è "no", almeno non necessariamente.
Per questo io collegherei la responsabilità dell’impresa alla sua strategia, all’innovazione e quindi alla capacità dell’azienda di differenziarsi rispetto alla concorrenza, alla creazione di valore come precondizione della generazione del profitto.
2. Gian Maria Borrello
Secondo me, il punto è: chi fa il primo passo? In che grado, per realizzare un’impresa socialmente responsabile, sono essenziali regole che tutelino l’imprenditore, o che lo incentivino? E’ un problema di sistema in cui l’impresa vive.
Il problema –un grosso problema– sta nel fatto che i sistemi schiacciano le iniziative che non si conformano ai loro trend.
Un’altra domanda, che mi sorge spontanea: quante Grameen Bank ci sono? perché quello della Graameen Bank non è diventato un modello di sviluppo più diffuso di quanto sia realmente?
Osservo che il riferimento al comportamento etico come modello di convenienza sembra in sintonia con quanto troviamo nel Percorso "Una questione di… convenienza".
(Continua)