(Nuovo e Utile, Firenze 28-29 settembre 2004)
Anch’io ho le mie idee sulla creatività nella scienza – sul perché c’è o non c’è, se dipende dal modo di guardare la natura "con la meraviglia stupita di un bambino", dalla serendipity, dalle mode e dall’anticonformismo che suscitano, da metafore e metonimie, effetti di linguaggio, associazioni mentali di idee o di immagini, dal riconoscimento di regolarità o di un’irregolarità strana ecc. Mi fermo qui, sono idee banali, mentre non lo sono certe ricerche biotech in cui si esprimono, o almeno così mi sembra. I loro risultati promettono cose nuove e utili e cose nuove e micidiali. In Pappagalli verdi, Gino Strada di Emergency si chiedeva che cavolo ha in testa l’ingegnere per inventare una mina antiuomo a forma di uccellino così attira i bambini e li mutila meglio.
Si fa biotech anche nei laboratori militari, lo so, ma le notizie dal mondo sono già abbastanza tremende, farò esempi civili. Niente Dolly, niente Ogm, niente embrioni clonati, esempi molto più terra terra.
I – La colla della cozza
Ci sono molluschi che si attaccano a legni, rocce, navi, con un muscolo a ventosa, e altri come le cozze e i balani, che si attaccano con una propria colla istantanea e così potente che per scioglierla bisogna usare sostanze chimiche inquinanti che poi finiscono in mare.
I balani attaccati a uno scafo creano attrito, l’attrito frena la nave, logora i motori, spreca carburante, quindi bisogna eliminarli. L’alternativa ai prodotti chimici è l’abrasione meccanica, costosa, pericolosa per lo scafo e dannosa per i polmoni degli operai.
Nel gennaio scorso, Jonathan Wilker e altri ricercatori dell’università Purdue hanno scritto sul settimanale Nature che la colla della cozza – e dei molluschi che s’incollano in generale – è resa adesiva dagli ioni ferrosi che prelevano in mare e che si legano a una loro proteina. Quando il balano o la cozza vuol traslocare, modifica la composizione della proteina e i legami chimici con gli ioni ferrosi si spezzano di colpo, la colla non c’è più, è stata biodegradata al 100%.
Non è la scoperta del secolo, ma parte da una domanda da bambino: Perché quando voglio staccare un balano non ci riesco, e lui sì?
Infatti la domanda originale riguardava la colla dei balani, che a vederli non sembrerebbe
ma sono un grande stimolo alla creatività. Insieme all’intera famiglia dei Cirripedi, dal 1824 – durante il viaggio sulla Beagle – hanno ispirato a Darwin studi e articoli che, un secolo dopo, hanno ispirato a un grande biologo inglese, J.B.S. Haldane, Possible Worlds, uno dei saggi più belli sul senso dell’impresa scientifica, su cosa vuol cercare di conoscere il mondo e non darlo per scontato, non accettare spiegazioni preconfezionate, magari divine. E cinquant’anni dopo, sul finire degli anni Settanta del secolo scorso, Possible Worlds ha ispirato a sua volta alla romanziera Doris Lessing la pentalogia Canopus in Argos. Cinque romanzi di fantascienza e di fantapolitica, ma di Doris Lessing. Non tutti tradotti purtroppo, così come non è tradotto Possible Worlds. Perché?
Una colla potente, reversibile e biodegradabile ha valanghe di applicazioni. Pensate all’edilizia, all’arredo di casa, a produzioni industriali, alla chirurgia e alla medicina, al dolore evitato quando il dentista vi sostituisce le capsule dei denti, a un lifting delle rughe, reversibile se non viene bene, ai capelli attaccati senza anestesia invece che trapiantati.
Tutto questo succede perché ormai i ricercatori si muovono in una nuova dimensione, sulla nanoscala dei milionesimi di millimetro – e dei miliardesimi di secondo – con tecnologie prese a prestito da tante scienze. I risultati sono le nanobiotecnologie – il biotech – che spazia dalla A come agricoltura alla Z come zoologia, passando da tutti gli ambiti dell’ingegneria. Nasce dall’unione tra scienze della vita e scienze dei materiali, tra biofisica e biochimica, o dalla biologia sintetica.
La rivoluzione biotech, come altre, è dovuta meno a un cambiamento di paradigma caro a Thomas Kuhn, che all’invenzione di nuovi strumenti cara a Freeman Dyson.
Evelyn Fox Keller dice che la biologia merita il proprio nome, logos del bios, conoscenza della vita, da quando esiste il microscopio confocale sotto il quale si vedono cellule vive e vegete. Prima il nome era improprio: si osservavano cellule che avevano già un piede nel thanatos, appiattite in due dimensioni nel loro gel. Saremmo vivi noi, ridotti a lasagne in gelatina?
Nella faccenda della colla, la creatività sta anche dalla parte della cozza. E nel biotech, è importante riconoscerla in animali meno esaltanti dei cebi che ci ha mostrati ieri Elisabetta Visalberghi, e persino dei balani di Darwin (se v’interessano, l’anno scorso è uscito un ottimo libro di Rebecca Stott, Darwin and The Barnacle). All’istituto Weizmann, in Israele, Lia Addadi si chiede – altra domanda infantile – come fa un’ostrica a costruire con del carbonato di calcio (calcium carbonate), quello che v’incrosta il bollitore per dire, un guscio che all’esterno è irregolare, opaco, scuro e all’interno è l’esatto contrario, madreperla. O come mai questa stella marina serpentina
crea con la calcite quel singolo cristallo blu pieno di piccole lenti tonde che sta sulle spine bianche dei suoi tentacoli.
La biologia sintetica è anche creativa di suo. Vuole mettere…
… qui al centro un intero genoma, sequenze di DNA assemblate apposta per interagire con le molecole dei materiali qui presenti. Dopodiché da microchip banale, dovrebbe diventare un biochip iperattivo e interattivo con la materia vivente nel quale andrà inserito. Dovete andare in Giappone per qualche giorno? vi mettete un biochip in una fenditura dietro l’orecchio, collegato con le aree del linguaggio del cervello, e capite e parlate il giapponese. Così diceva la neurologa Susan Greenfield. E si può immaginare un biochip per apprezzare Cézanne o Michelangelo, da infilare in mezzo ai neuroni della corteccia visiva di cui parlava ieri Semir Zeki.
La concezione della genetica che hanno gli ingegneri di biochip mi pare un po’ semplicistica, ma siamo ancora agli inizi.
II – Il geco e Fred Astaire
A volte nel biotech c’entra pure la fisica in senso stretto.
Come fa questo geco a camminare sul soffitto? Con questa, bambino mio.
Vedete le protuberanze sotto la zampa? Ognuna è coperta da milioni di setole più piccole, e ogni setola termina con circa mille spatole ancora più piccole.
Anche la superficie sulla quale la zampa si posa è complicata. A noi sembra liscia, su nanoscala il paesaggio cambia –
Vi piacciono? se volete ve le faccio rivedere
Il geco cammina sui muri e sul soffitto grazie alle forze di van der Waals, all’attrazione – per effetto elettrostatico – tra le molecole della zampa e della superficie. Le forze sono state analizzate, simulate, ricostruite per arrivare alla produzione di un materiale che ha un po’ le stesse proprietà della colla di prima.
Questo è prodotto all’università della California a Berkeley, dovrebbe rivestire le ruote di certi robot, o le scarpe di soccorritori mandati in mezzo a rovine. E’ tenace ma la sua tenacia è reversibile, basta uno sforzo meccanico minimo – alzare il tallone – e il piede si libera dall’attrazione. Come Fred Astaire nel film Royal Wedding
III – La batteria che va a batteri
Da oltre tre miliardi di anni, i batteri sono i veri signori del pianeta, diceva Stephen Jay Gould. E forse di altri pianeti, aggiungo io. Intanto il biotech si adopera per ingegnerizzare batteri capaci di degradare la plastica non biodegradabile in polimeri con i quali fabbricare plastica biodegradabile. O di produrre idrogeno quale carburante per le auto. O di bonificare i suoli e le acque: ce ne sono di bravissimi a ripulirle dal mercurio e poi di escretare prodotti metabolici innocui. Il vantaggio per l’ambiente è che, una volta finito l’inquinante che sono in grado di metabolizzare, restano senza cibo, muoiono e sono a loro volta degradati da altri batteri. In teoria, ma finora la teoria regge.
Il caso della batteria che va a batteri, lo dedico – posso? – alla sezione italiana dell’Aspo che ha sede a Firenze, o meglio ce l’ha il suo presidente e animatore Ugo Bardi che fa lo stesso. L’Aspo è un’associazione mondiale di esperti che analizzano il livello delle riserve di petrolio. Anche se domani ci fosse la pace dal Medioriente alle Isole Spratley, un giorno andrà sostituito con altre fonti di energia, dicono. Per ora, a parte i pannelli solari ancora poco efficienti, e il metano prodotto a partire dagli escrementi di polli, maiali e altri animali, non ho visto alternative prive di effetti collaterali spiacevoli sull’ambiente o sul paesaggio. All’Aspo non mi prendono sul serio quando dico che i batteri sono la grande fonte di energia rinnovabile, pulita, meno pericolosa da trasportare e da usare del petrolio, del gas o dell’idrogeno. Mi sembrano promettenti i geobatteri, come questo
Qui, l’hanno colorato, al naturale si presenta così:
Derek Lovley e Swames Chaudhuri dell’università del Massachusetts a Amherst, l’hanno scoperto a Oyster Bay, nella baia delle ostriche (poi non dico più niente sul mare, ma non è un caso se i miei esempi vengono da lì: è da poco che si sta imparando a conoscerlo su piccola scala).
Si nutre di idrocarburi policiclici aromatici, rifiuti di ristoranti, effluenti di cartiere e porcherie simili, e rigurgita chiare fresche e dolci acque. E’ detto "ferrireducens" perché ossida il ferro, ma diversamente dagli altri ferrireducens, con i resti di quell’ossidazione, metabolizza gli zuccheri strappandone via gli elettroni. Quindi se mettete dei Rhodoferax ferrireducens vicino a un elettrodo che poi collegate a un circuito esterno – sul principio della cella a combustibile – e date loro un po’ di zuccheri di scarto, vi tengono accese le lampadine o vi ricaricano la batteria del computer. Il tutto a temperatura ambiente, con spesa minima e una modestissima emissione di anidride carbonica.
Per produrre più elettricità, al Rhodoferax non serve aggiungere dei geni alieni, bisogna rafforzare l’attività di quelli esistenti. Ma per farlo bisogna sapere come funziona l’intero macchinario cellulare – a cominciare dall’RNA interferenza – e come interagisce con i geni.
IV – Conan il batterio
Adesso che si sanno manipolare i componenti delle cellule e vederne il risultato in vivo, si può essere creativi Derek Lovley con i suoi geobatteri e vedere la creatività della natura all’opera nei batteri. Per esempio nel
sembra Miss Italia, ma è solo un blob arancione. Ho preso la foto dal sito della NASA che lo chiama "Conan il batterio". Tra l’altro è entrato nel Guinness Book of Records, sotto il titolo The toughest bacterium in the world, il più tosto del mondo e forse di altri mondi visto che, secondo la NASA, ha tutte le caratteristiche di un extraterrestre. D’altronde non è un batterio, ma un Archeobatterio.
Lo conoscete già?
Se n’è parlato poco, ma è di grande d’attualità e non solo per simulare l’effetto della vita su Marte, nei posti dove ci sono acqua e metano. Un articolo uscito a giugno sui Proceedings of the National Academy of Science, e uno che esce su Science dopodomani spiegano come fa il deinococco in questione a sopravvivere a sostanze e in ambienti ipertossici, persino nelle miniere d’uranio, a un milione e mezzo di rad quando la dose di radiazioni letale per noi è tra i 500 e i 1 000 rad. Il suo DNA spezzato dalle radiazioni segnala a quello integro – e ne ha in sovrabbondanza – di innescare la produzione di una proteina che provvede alle riparazioni. E l’equivalente di quella proteina è stato identificato nei mammiferi.
Sarebbe bello riuscire a renderla altrettanto efficiente nei mammiferi umani, rischiano di averne bisogno.
Infatti si stanno diffondendo le munizioni con il guscio d’uranio impoverito. Non fa male, ci avevano detto, lasciandoci un po’ di stucco perché eravamo convinti che le munizioni comunque rivestite servissero a fare del male. Invece non lontano da qui, un giovane mammifero umano sta morendo per un linfoma incurabile. Auguro molta creatività, al biotech.
Sylvie Coyaud (Firenze, 29 settembre)