(Alz, 30 gennaio 1999)
Questo documento riporta le idee emerse durante un incontro in cui sono stati discussi l’intento e le linee di azione della Fondazione
Piero Bassetti
All’origine della Fondazione Bassetti c’è la convinzione, maturata in me almeno 20 anni fa, di vivere in un mondo in cui la responsabilità dell’innovazione non ricade su nessuno in particolare, e questo nonostante l’innovazione sia diventata un elemento insostituibile e onnipresente dell’epoca moderna. Il problema non è nuovo ed è stato affrontato da alcuni dei presenti (qui con me, per esempio, ho tre contributi risalenti anche più di 10 anni fa, fra cui uno di Alberoni del 1986).
Dopo anni di riflessione sono così giunto a creare una fondazione il cui obiettivo, definito all’articolo 2 dello Statuto, è lo studio dell’innovazione nell’attività imprenditoriale, con particolare attenzione alla tematica della responsabilità dell’innovazione, all’influenza che i nuovi modi di produzione esercitano sulle condizioni economiche e sociali, sull’etica e sulla politica della convivenza umana.
Vi ho quindi invitato qui oggi per riflettere con me sui modi in cui questa organizzazione potrà contribuire ad approfondire questo punto di ricerca e interesse. In particolare, dovremmo affrontare due ordini di problemi, su cui vi invito a fornire un contributo totalmente libero: l’approfondimento del campo di attività e una prima elaborazione di un programma d’azione.
(…) La fondazione è dedicata al nome di mio zio, Gianni Bassetti, un imprenditore morto 30 anni fa e molto interessato a questo tipo di problemi, sia pure nel contesto di una cultura imprenditoriale totalmente diversa.
Al fine di indirizzare meglio il dibattito, desidero infine precisare che il mio interesse principale è etico. Il punto è la responsabilità.
Francesco Alberoni
Ho l’impressione che il tuo problema sia, in parte, uno dei problemi tipici della filosofia di questo secolo, su cui ha maggiormente insistito, fra gli altri, Heidegger. Tale problema, che deriva dall’imprevedibilità degli effetti a lungo termine della tecnica, è stato l’angoscia specifica della filosofia contemporanea.
Io stesso vedo il processo storico come un insieme di trasformazioni prodotte da cause non connesse le une con le altre. M fa una cosa, N un’altra, e i risultati delle loro azioni entrano a far parte di un patrimonio comune cui tutti possono attingere per qualsiasi fine. Queste azioni separate, che non hanno rapporti fra di loro, producono degli effetti e questi, superata una certa soglia, scatenano a loro volta reazioni culturali, politiche, religiose, etiche. Fra azione e risposta c’è sempre un intervallo: la risposta (il panico, un movimento, una riforma) non va mai in parallelo con il processo e non è concettualmente prevedibile o controllabile.
Si tratta, tuttavia, di un problema già ampiamente studiato dai sociologi.
Claudio Carlone
Secondo me i termini del problema sono già cambiati e il discorso di Heidegger non è più valido. Oggi la ricerca è diversa, in quanto non viene svolta dai singoli ma da sistemi più complessi in cui entrano a far parte in misura sempre maggiore le imprese. Il risultato della ricerca è già previsto in partenza, e la ricerca assolutamente libera non esiste praticamente più (se non in settori quali, forse, l’astrofisica).
Finora abbiamo dibattuto, come faceva Heidegger, della responsabilità dello scienziato. Oggi dobbiamo invece dibattere della responsabilità dell’imprenditore e questo potrebbe costituire uno dei punti di forza della nuova fondazione. Il presupposto non può più essere che la ricerca avvenga nell’inconsapevolezza del risultato e delle sue ricadute, ma piuttosto che l’imprenditore sia il depositario e gestore della ricerca e dei suoi risultati. L’intervallo fra azione e risposta non esiste più perché le domande sono più veloci delle risposte (e il caso delle biotecnologie è esemplare al riguardo). Poiché si sa già cosa si vuole ottenere dalla ricerca e dalla sua applicazione, la gente non ha più il tempo di porsi il problema. Il controllo sociale della tecnologia di cui si parlava una volta non esiste più.
Renato Ugo
La domanda di Bassetti mi sembra sensata. La risposta è forse di distinguere livelli diversi. Nel parlare di responsabilità, Bassetti fa riferimento a una responsabilità sociale e politica. Quando si fa una scoperta, tuttavia, esiste un primo livello di responsabilità che corrisponde alla decisione su come utilizzarla. è una responsabilità tecnica, che sancisce la validità tecnica della scoperta. Questo livello esce dal campo di interesse della fondazione, ma va comunque considerato.
Il secondo livello, quello di cui parliamo, dipende dall’incertezza che circonda la possibile evoluzione futura di ogni singola innovazione. Eppure, se valutiamo i risultati del processo innovativo nel loro complesso, vediamo che statisticamente la società cresce. Anziché fissarci sul punto unico della responsabilità, quindi, dovremmo forse valutare se questo tipo di innovazione rappresenta statisticamente un attivo o un passivo per la società, senza dimenticare che l’attivo è spesso il risultato della somma algebrica di un attivo e un passivo inferiore. Trenta anni fa, la speranza di vita in Asia e in Africa era di 40 anni, oggi è di 65-70. Nel mondo occidentale era di 65 anni, oggi è di 82. C’è quindi stato un progresso non solo nel mondo occidentale, dove l’innovazione è stata creata, ma anche in Asia ed Africa. Il saldo è attivo.
Anche senza una responsabilità politica precisa, il potere dell’innovazione è tale che, malgrado tutti gli errori che possiamo fare, statisticamente c’è sempre una crescita. Il problema è come controllare tale crescita e come accelerarla.
Umberto Colombo
La mia domanda è: vogliamo veramente concentrarci su questi punti? Mi sembra infatti che esistano già organismi, anche a livello comunitario, che si occupano della valutazione delle tecnologie, dei loro effetti a lungo termine, ecc. (…). Ritengo (…) che l’idea di Giovanni Bassetti fosse di conferire una dimensione etica all’imprenditore.
Dato il prevalere dell’approccio liberista, tuttavia, mi sembra che cercare di inserire una componente etica nella motivazione principale dell’imprenditore sarebbe del tutto utopistico, se non addirittura pericoloso (dato che si rischia di alterarne l’animal spirit). Una nicchia interessante per la fondazione potrebbe risiedere invece nella promozione di una nuova etica, basata su una visione globale e intergenerazionale della società.
Nelle imprese di oggi c’è una concentrazione schizofrenica sul profitto nel brevissimo periodo, come ho avuto modo di constatare in qualità di membro dell’advisory board della Mobil. La sfida sarebbe quindi di dimostrare la compatibilità fra gli obiettivi globali e di lungo periodo e l’interesse dell’impresa.
Molte imprese italiane hanno appreso dagli USA gli insegnamenti del core business concentration, e hanno tagliato fuori dalle proprie attività di ricerca proprio la ricerca più promettente, che non riguarda la loro attività presente, ma che è al centro di quello che sarà la loro principale attività nei prossimi venti o trent’anni. Anziché criticare tale scelta per la sua mancanza di etica, potremo criticarla per la sua stupidità in quanto ha comportato l’abbandono di una ricerca che sarà molto importante in futuro.
Il punto è quindi di creare una nuova visione dell’imprenditore che includa una componente etica, ma che non sottolinei troppo tale aspetto e insista sul futuro a lungo termine dell’impresa in un mondo globalizzato. Nel rapporto sullo sviluppo delle Nazioni Unite del 1994 figurano dati significativi a riguardo: il capitalismo sta causando un aumento del divario fra poveri e ricchi del mondo. Nel 1970 il 20% della popolazione con il reddito pro-capite più basso guadagnava 32 volte meno del 20% più ricco. Nel 1980 tale rapporto è salito a 45, nel 1990 a 60, oggi è a 66. è questo che vogliamo? Ciò comporterà migrazioni di massa, morte, la fine della democrazia come la conosciamo. Sarebbe quindi opportuno attirare l’attenzione dell’imprenditore su questo tipo di considerazioni, senza tuttavia cadere nella trappola dell’approccio etico, perché è assolutamente inefficace.
Ignazio Masulli
Il problema è generale e non riguarda solo le responsabilità dell’imprenditore. La responsabilità dell’innovazione riguarda il nostro futuro, il futuro della nostra società. Possiamo pensare all’innovazione in due modi:
- la responsabilità dell’innovazione può essere vista come relativa alle conseguenze dell’innovazione;
- la responsabilità dell’innovazione implica la possibilità di fare libere scelte relativamente al nostro futuro. Per esempio: se il gap fra i paesi più ricchi e quelli più poveri aumenta rapidamente, cosa possiamo fare a livello tecnologico? Quali tecnologie sono più facilmente esportabili nei paesi meno sviluppati? In questo senso, innovazione significa creare opportunità, riuscire a mettere in pratica l’improbabile, favorire il cambiamento economico, tecnologico, sociale.
Il problema ha delle implicazioni teoriche che, secondo me, richiedono una ricerca sistematica. Se, infatti, decidiamo di interessarci a questo problema, dovremo studiare come l’innovazione prende forma, in quali condizioni riesce ad affermarsi, da quali dinamiche è originata.
Dal punto di vista storico, i quesiti da porsi sono i seguenti: perché l’innovazione che è disponibile in alcuni contesti non è applicata o è applicata molti anni dopo la sua scoperta (anche un paio di secoli)? O ancora: perché un’innovazione disponibile in un dato contesto non è utilizzata in un altro contesto analogo, nello stesso periodo e nello stesso paese? E infine: come prende forma l’innovazione?
Inoltre: siamo soddisfatti dal fatto che la responsabilità dell’innovazione sia passata dal potere politico al mercato, che è per definizione irresponsabile? Oppure riteniamo che ciò costituisca un problema? La Fondazione Bassetti potrebbe lavorare su questo argomento e, in tal caso, dovremmo elaborare un’idea di processo di innovazione con il chiaro obiettivo di provocare un cambiamento. Gli strumenti esistono. Lo studio dell’autorganizzazione di sistemi complessi, per esempio, si occupa dei cambiamenti imprevedibili, ed è molto interessante dal nostro punto di vista.
Adriano De Maio
Non so se i miei commenti metteranno realmente a fuoco il problema, ma cercherò di dare alcuni spunti di riflessione. Il primo è connesso al discorso di Colombo. Credo che, data la già citata miopia delle società private, la ricerca (e soprattutto la ricerca di lungo periodo) sarà sempre più l’esclusiva degli istituti pubblici (Università o altro). La suddivisione delle responsabilità sta quindi cambiando. Poiché tale tipo di ricerca è svolta da centri pubblici, infatti, le decisioni sul tipo di ricerca e sull’allocazione delle risorse sono prese dai politici.
D’altro canto, una parte della responsabilità è anche dei ricercatori. Sotto la pressione dell’opinione pubblica, essi annunciano risultati sempre nuovi, che spesso non sono nuovi e che non sono neanche vera e propria ricerca, ma che hanno la capacità di mobilitare l’opinione pubblica, spingendo il governo a stanziare altri fondi per un determinato settore. Questo è il problema della responsabilità etica del ricercatore.
C’è poi la responsabilità etica dei mass media, e poi del governo, che decide sotto la pressione dell’opinione pubblica anziché analizzare in profondità il problema della ricerca. è questo il paradosso dell’aumento della democrazia, perché democrazia dovrebbe anche significare approfondimento dei problemi tecnici, ma ciò risulta di fatto impossibile.
Secondo spunto di riflessione: fino a qualche decina d’anni fa, il processo di innovazione era molto lento e la società aveva il tempo di appropriarsi del processo innovativo, di digerirlo e metabolizzarlo. L’avvento dell’energia elettrica, per esempio, ha rivoluzionato il comportamento degli uomini ma in una prospettiva di lunghissimo termine che ci ha consentito di abituarci. Oggi, invece, il processo innovativo avviene sempre più velocemente, e non abbiamo tempo di metabolizzarlo. Non so di chi sia la responsabilità di migliorare la cultura affinché impari ad assorbire il processo innovativo. Ritengo tuttavia che ciò costituisca un problema, che è collegato alla mia terza e ultima riflessione.
A mio avviso, alcune innovazioni tecnologiche stanno modificando radicalmente le modalità dei processi cognitivi umani. Gli adolescenti, per esempio, non leggono mai le istruzioni sul funzionamento di un apparecchio, ma provano immediatamente a farlo funzionare. E anche se ci riescono, non apprendono mai la totalità delle funzioni, ma si limitano a usarlo come gli è stato suggerito. Scompare così la capacità di criticare l’innovazione e le nuove tecnologie.
Ciò avrà un effetto enorme sulla generazione dei nostri figli. è quindi fondamentale che il problema diventi l’oggetto di una profonda riflessione, altrimenti l’abilità di criticare andrà perduta. E’ questa la più importante responsabilità etica, il problema più grave di questo periodo.
Tomaso Quattrin
La discussione procede in modo molto libero e cercherò di contribuirvi con un paio di osservazioni. Trattando la questione della responsabilità mi sembra in primo luogo necessario chiedersi: nei confronti di chi si è responsabili? La risposta è semplice quando si è in presenza di un corpo legislativo codificato o di un insieme di regole etiche ben definite. Altrimenti il problema è più complicato.
Creare un collegamento fra innovazione e responsabilità non è molto facile. Certamente, quando la ricerca si muove con i risultati già previsti è più facile risalire ai responsabili di ogni singola fase di sviluppo. In molti casi, tuttavia, la ricerca si muove diversamente. Anche se sono fondamentalmente d’accordo con quello che ha detto Carlone sulla ricerca nell’industria, è innegabile che molte scoperte avvengono ancora per caso. Basta pensare al caso del Post-it, oppure a Internet, che a mio avviso si è sviluppato in modo completamente diverso da quanto previsto alla sua nascita.
Trovo che i commenti di Colombo e De Maio siano molto pertinenti: bisogna contribuire a un livello che non sia etico di per sé ma che includa una certa dimensione di intelligenza, consapevolezza, senso critico anche autocritico. Nel nostro settore, l’informatica, tendiamo a privilegiare l’assenza di memoria, la rottura con il passato. E indubbiamente, il contributo di chi non ha conosciuto il passato può essere spesso proficuo, proprio perché aperto e libero. D’altro canto, tuttavia, il fatto di essere aperti, innovativi e liberi non compensa completamente la mancanza di esperienza, di storia, di passato. Dovremmo quindi concentrarci su un contributo che aiuti gli imprenditori e la gente ad avere sempre presenti tutti i fattori o le situazioni pertinenti, una specie di richiamo alla coscienza, che non sia etico ma che porti a un comportamento etico.
Successivamente, da tale richiamo generico alla coscienza potremmo concentrarci sulla ricerca, magari dimostrando con esempi concreti come la miopia possa condurre a scartare importanti possibilità di sviluppo, solo perché non rientrano nel semplice core business attuale. Sono sicuro che Colombo ha esempi concreti, così come me e gli altri. La dimensione generale dovrebbe quindi essere di consapevolezza, sviluppo del senso critico, educazione dei giovani e successivamente un richiamo alla storia, con lezioni su quello che l’innovazione avrebbe potuto produrre se fossimo stati meno miopi, meno ossessionati dai risultati del prossimo trimestre.
Peter Goldmark
La filantropia opera in un contesto di relatività e non di fisica newtoniana. Fra tre anni, quando ci guarderemo indietro per vedere cosa abbiamo conseguito, ci accorgeremo che i nostri risultati sono stati determinati non tanto dalle idee, dalla geografia, o dal vento, quanto dal tipo di imbarcazione su cui navighiamo. La fondazione è un’imbarcazione, un tipo di veicolo molto particolare e credo che dovremmo cominciare ad analizzare anche questo aspetto.
In primo luogo, qual è l’obiettivo di una fondazione? Il suo obiettivo è di vincere due leggi. La prima legge è quella del tempo: una fondazione è un’istituzione umana concepita per sopravvivere al suo creatore, alla ricchezza che l’ha fondata, persino alla prima persona che ne ha beneficiato. La seconda riguarda l’essenza dell’attività filantropica: grosso modo, possiamo dire che intraprendere un’attività filantropica significa cercare di influenzare una situazione che ci appare in qualche modo insoddisfacente o migliorabile. è tuttavia improbabile che il cambiamento che desideriamo avvenga da solo. Immaginiamo che qualcuno chieda alla Fondazione Carlone un piccolo finanziamento per far sorgere il sole ad est: la proposta non è interessante. Ma se il giorno dopo, qualcuno chiede un finanziamento alla Fondazione Quattrin, o Ugo, promettendo di far sorgere il sole ad ovest, allora forse vale la pena di parlarne. La legge da sconfiggere è infatti quella della probabilità, cercando di conseguire l’improbabile.
La nostra è un’imbarcazione di piccole dimensioni. Le caratteristiche che dobbiamo cominciare a definire oggi dipendono dalle sue dimensioni e sono: la velocità e ilsuo loop di decisione, l’insieme dei processi e delle dinamiche decisionali. Un breve aneddoto illustrerà meglio il concetto. Durante la guerra di Corea, un giovane colonnello americano notò che, nonostante i velivoli in dotazione all’aviazione militare russa (i Mig) fossero tecnicamente superiori a quelli americani, i piloti americani riportavano comunque il 95% dei successi negli scontri aerei. Uno studio sull’argomento dimostrò che di fatto, il processo decisionale dei piloti americani era completamente diverso da quello dei russi. La differenza, lungi dall’avere basi ideologiche, era connessa al processo decisionale dei piloti (detto OODI, da Orient yourself, Observe what is going on, Decide what you’re going to do e Initiate action). Non solo, infatti, il pilota americano compiva le singole fasi più in fretta, ma era in grado di ridare inizio al processo non appena conclusa la sequenza, a differenza del russo che tendeva a fermarsi. I loro loop di decisione erano completamente diversi.
I loop di decisione sono estremamente importanti anche nella vita delle fondazioni, e per sopravvivere la Fondazione Bassetti dovrà imparare ad essere più veloce tanto nell’azione che nella correzione di tante altre fondazioni più grandi e lente.
L’idea di correggere i propri errori è molto importante. Una piccola fondazione deve essere in grado di agire in modo estremamente concentrato, selezionando solo le cose che è in grado di fare, operando scelte in modo agile e mai dogmatico, osando là dove le imbarcazioni più grandi e lente non possono osare.
Prima di salpare l’ancora, è opportuno controllare se siamo pronti, (e quindi se abbiamo risposto a tutte le domande fondamentali) altrimenti rischieremo di non lasciare mai il porto. La domanda più importante riguarda la strategia di azione: la fondazione avrà alleati e di che tipo? La risposta più logica sembra essere sì, ma la domanda va comunque posta.
Seconda domanda: quali saranno la filosofia della fondazione, i suoi obiettivi in termini di identità e di unicità? Il problema dell’unicità non va sottovalutato: molte fondazioni spendono enormi energie psicologiche, umane e intellettuali nel tentativo di essere unici piuttosto che efficaci. Qual è l’obiettivo della Fondazione Bassetti? Quanto vi interessa poter dire che fate cose che nessun altro fa? Oppure pensate che la priorità vada al risultato e non al riconoscimento che esso comporta? Si tratta di una scelta molto personale.
Terza problema: gli strumenti. La maggior parte delle istituzioni filantropiche moderne operano tramite grant e fellowship, ma esistono anche altri strumenti, fra cui l’investimento o il premio. Nella fisica della relatività in cui operiamo, la scelta di uno strumento piuttosto che di un altro potrà avere effetti enormi sui risultati finali del processo. Supponiamo di voler combattere la tossicodipendenza ma di avere a disposizione solo una piccola somma di denaro: anziché finanziare l’industria farmaceutica, sarà forse preferibile istituire un premio di 5 milioni di dollari da devolvere alla persona che scoprirà un agente che sopprima la dipendenza dalla cocaina. Non bisogna quindi limitarsi agli strumenti tradizionali.
Quarto problema: il settore. In quali settori agirà la fondazione? Si tratta di un’imbarcazione di superficie o di un sottomarino? Il settore implicitamente più citato oggi è stato quello privato e, in una certa misura, quello dell’istruzione. Secondo me, tuttavia, il settore che in futuro sarà più rilevante per l’innovazione e la responsabilità è quello del non-profit. L’attività umana opera in sei settori (privato, pubblico, non-profit, media, religione e crimine) e noi dobbiamo scegliere quello in cui attivarci.
Con questo ho concluso. Desidero solo aggiungere che sono d’accordo con ciò che ha detto Colombo sulla dimensione etica. Il progetto Bassetti ha una dimensione etica. Perché sia efficace, tuttavia, è necessario che la dimensione etica diventi un requisito di risultato. Solo così, esso potrà avere un orizzonte temporale diverso e sarà incorporato nel sistema.
Bassetti
Volevo a questo punto fare una considerazione. Sono d’accordo che la fondazione è una piccola imbarcazione, come ha detto Goldmark, ma il primo punto da discutere è quello che Quattrin ha definito "coscienza". Penso infatti che prima di discutere dell’identità dell’imbarcazione è assolutamente necessario scoprire se i loop di riconoscimento della responsabilità dell’innovazione sono chiari. Non lo sono, e di ciò sono sempre più convinto.
Il lavoro iniziale della fondazione dovrebbe quindi essere quello di dire agli imprenditori: siete irresponsabili riguardo a un problema molto importante. Il mio è un approccio di provocazione, perché ritengo che nella società moderna e della comunicazione di massa, una piccola nave ha, fra i suoi strumenti, quello della provocazione.
Come diceva De Maio, il vero rischio di cambiamento della nostra società è che la responsabilità passi dall’uomo ai sistemi, un’evoluzione cui non siamo preparati. Forse nel Medio Evo sapevano come gestire la responsabilità nei sistemi (le cattedrali erano costruite senza architetti e progetti), ma noi no. Dobbiamo quindi scegliere: continuiamo a pensare che la responsabilità sia un problema personale oppure no? E se lo è, chi deve assumerlo?
Vi chiedo quindi di constatare che l’idea di responsabilità è molto confusa e che una nicchia di opportunità potrebbe essere connessa al coraggio di lavorare su questo assunto, premiando qualcuno che abbia il coraggio di teorizzare sulle cause di questa strana caratteristica che è l’irresponsabilità.
Sarò forse obsoleto nel mio modo di ragionare, ma credo che la sequenza sia: diamo priorità all’obiettivo e poi vediamo come potremo disegnare gli strumenti. Il vostro contributo di questa mattina mi conferma in tale idea, dato che, come ha detto Goldmark, l’identità della fondazione è una priorità, è l’inizio. Quando si è piccoli, è necessario privilegiare la qualità. E quando si lavora nel campo del pensiero, bisogna privilegiare la profondità. Personalmente non dimentico che abbiamo quasi 20 anni di riflessione sull’argomento. Questa mattina discutiamo per la prima volta con la nave in acqua. Quando la nave sarà stata varata, ci sarà il problema di muoversi. Vi ringrazio comunque per avermi dato un’analisi della complessità del problema molto più ordinata e affidabile di qualsiasi altra fonte. Il nostro obiettivo non è complicato nella realizzazione, bensì già nella sua essenza.
Bassetti
Il problema cui vi chiedo di dedicarvi ora è: verso chi si è responsabili? Questo perché non si può fondare un sistema etico senza conoscerne il fine. Ciò che avevo in mente è un contributo al miglioramento della società. Mio zio era cattolico e probabilmente sarebbe stato soddisfatto all’idea che il suo lavoro facesse aumentare il numero di persone che vanno in paradiso. Oggi ciò non costituisce più una misura di produttività. Per lungo tempo abbiamo pensato che tale misura potesse essere costituita dalla ricchezza. Oggi non ne siamo più convinti. Il collegamento fra innovazione e miglioramento delle condizioni di vita è chiaro. Ma se la misura non è più il PIL, quale dovrà essere? La felicità? (difficile da definire). La riduzione del danno (come propugna il Club di Roma)? Il problema quindi non è solo stabilire chi decide l’innovazione, ma anche chi decide le linee lungo le quali l’innovazione deve essere considerata un fattore di miglioramento.
Alberoni
(…)
La preoccupazione di Bassetti è proprio la responsabilità, che è la responsabilità del potere. Chi ha il potere, chi è responsabile? Questa è la sua ossessione. Responsabile non perché debba rispondere a qualcuno, ma perché risponde a se stesso. In questo senso Bassetti non esce dalla morale. Si potrebbe allora fare un programma più semplice, di cose fattibili, utili, proprio nel campo dell’etica della responsabilità, raccogliendo e diffondendo dei contributi di notevole valore. La fondazione potrebbe prendere accordi con una casa editrice e organizzare una collana sul tema (per fare un esempio concreto) dell’etica della responsabilità per i prossimi cinquanta anni. Ogni anno si esce con un numero di contributi in diverse lingue, se ne assicura un minimo di diffusione, una presenza nei media, nel mondo intellettuale, ecc. Però, i criteri sono che la cosa abbia un senso fuori e dentro.
Ugo
Penso che Bassetti veda il problema della responsabilità in senso sociale più ampio, non limitato all’impresa. Manca però il concetto di innovazione.
Bisogna quindi cercare una seconda suddivisione in cui introdurre questo concetto. Sta comunque emergendo una cosa molto chiara: l’imprenditore è di fatto irresponsabile dell’innovazione, non perché non desideri essere responsabile, ma perché non può seguire il loop fino in fondo. Questo è un concetto che dobbiamo discutere: può l’imprenditore, una volta avviato il loop, governarlo fino in fondo? Oppure, se non può, come può agire perché il loop sia responsabile? Questa è la base della discussione.
Masulli
La teoria della costruzione sociale dell’innovazione è importante, ma è stata per lo più applicata allo studio dell’impatto che una nuova tecnologia può avere su un paese del terzo mondo o in un determinato contesto, al fine di favorire l’esportazione di questa tecnologia e ottimizzarne l’impatto. I numerosi studi svolti in questo campo hanno per lo più questa intenzione.
Come storico ho un’altra considerazione pessimistica: l’etica della responsabilità non si insegna. Non si può dire a qualcuno: non essere miope, guarda di più al futuro, pensa alle nuove generazioni. A parte il fatto che esistono già grandi fondazioni che agiscono in questo senso, la storia insegna che non si può mettere l’uomo sulla strada di una maggiore responsabilità per via pedagogica. Storicamente, molte innovazioni si costruiscono in modo del tutto contingente, a cominciare dalla rivoluzione industriale. Il mio punto è: è possibile concepire un tipo di innovazione che si fondi socialmente e scientificamente in modo diverso dal passato? Un’innovazione che, proprio per come è concepita e formata, costituisce strumento di cambiamento e non si presta ad altro? Questa è la sfida teorica, il motivo per cui richiamavo l’utilità di tutti gli studi che hanno per oggetto come prepararsi all’imprevedibile.
(…) Propongo che la Fondazione Bassetti promuova un approfondimento teorico, un nuovo modo di concepire l’innovazione, di costruire socialmente la tecnologia.
Colombo
In primo luogo, trovo che il discorso di Bassetti sulla responsabilità risenta di un certo pregiudizio ideologico, in particolare quando afferma che alcuni soggetti non sono responsabili. Dal mio punto di vista i media, gli imprenditori, ecc. sono responsabili, ma hanno un’altra definizione di responsabilità, un’altra scala di valori. Dobbiamo quindi essere aperti e non accusare gli altri di irresponsabilità, perché ciò sarebbe inutile.
Ho parlato del rapporto fra breve e lungo periodo. Dobbiamo comunque attribuire una certa importanza anche al breve periodo perché viviamo in una giungla e se pensiamo troppo al lungo periodo, saremo uccisi mentre cerchiamo di migliorare il mondo. Dobbiamo quindi cercare di equilibrare l’attenzione per il futuro immediato e la previsione a lungo termine.
Per quanto riguarda le dimensioni, il mondo attraversa mode che sono contraddette da quelle successive. Negli anni ’50 e ’60, l’accento era sull’economia di scala. Con l’emergere delle diseconomie delle grandi scale, l’enfasi è poi andata alla riduzione delle dimensioni dell’impresa. Infine con la tecnologia dell’informazione, è subentrata la filosofia dell’outsourcing, della snellezza, della produzione just-in-time, ecc. Ora abbiamo una nuova fase di fusioni, le cosiddette fusioni centrate sulle competenze centrali dell’impresa (core business) e non credo che l’evoluzione sia finita. Sono un po’ riluttante ad accettare il dogma delle grosse dimensioni e mi chiedo quindi se la fondazione non dovrebbe essere più pertinente alla situazione italiana.
In Italia le PMI sono la vera forza portante dell’economia. L’idea che prevale è che debbano crescere, aiutate anche dalla creazione di distretti industriali e da un’innovazione incrementale che si diffonde molto rapidamente nel sistema. Ma cosa seguirà questa fase? L’idea di moda presso il governo è di spingere le PMI a crescere, senza prestare troppa attenzione al ruolo di scienze, tecnologie e innovazione. Il governo ritiene infatti che l’innovazione sia sufficiente, perché abbiamo effettivamente innovato senza ricerca. Ma è vero? E la situazione resterà la stessa in futuro?
Se si prendono i dati medi degli altri paesi industrializzati e si paragona il numero di ingegneri necessari in un paese con pil paragonabile al nostro, il fabbisogno è di 25-30.000 ingegneri all’anno. In Italia non raggiungiamo neanche la metà di quel valore, eppure solo chi esce dai migliori politecnici trova lavoro immediatamente. Il problema è quindi che l’Italia non assimila scienze, tecnologie, e ha un atteggiamento opportunistico nei confronti dell’innovazione. Tale problema è correlato a quello della responsabilità. Ho voluto aggiungere questa dimensione locale perché penso che Giannino Bassetti vorrebbe essere pertinente ai problemi del nostro paese.
Carlone
Per definire il campo d’azione della fondazione è necessario in primo luogo distinguere fra due concetti fondamentali: l’effetto dell’innovazione e l’impatto. L’impatto dell’innovazione chiama infatti in causa l’opinione pubblica, che è essenzialmente guidata dai media, ma che influisce fortemente sul finanziamento della ricerca, sui sentimenti delle persone che decidono dell’allocazione delle risorse. L’effetto, invece, riguarda la società reale, il modo in cui l’innovazione influirà sulla gente e su problemi quali la povertà, il divario fra il Nord e il Sud del mondo ecc.
Definita la distinzione, dobbiamo ora decidere se vogliamo lavorare nella direzione della società intera, inviandole un messaggio sull’etica e la responsabilità dell’innovazione, oppure limitarci ad agire sulle società che producono innovazione. A mio avviso, la seconda opzione è la più opportuna.
(…) Gli sforzi della fondazione, quindi, dovrebbero essere rivolti a convincere le persone che lavorano nel settore avanzato di tecnologia e innovazione a definire meglio i loro progetti di comunicazione, riconoscendo alla comunicazione il ruolo fondamentale che le spetta. Le espressioni Public understanding of science e Public awareness non hanno traduzione in italiano e ciò riflette un problema. Credo che se non facciamo qualcosa a riguardo, ne risentiremo negli anni a venire.
(…)