– Come è cambiata la natura dei rischi in questi ultimi trent’anni?
– Nella Società del rischio, ho sviluppato un’argomentazione secondo cui la scienza e la tecnologia sono oggi la causa dei principali problemi della società industriale. La produzione e la distribuzione dei "beni", delle ricchezze, poggiano alla base su un principio regolatore di rarità. Il problema viene dal fatto che le istituzioni della società industriale non sono state pensate per trattare la produzione e la distribuzione dei "mali", cioè dei rischi e degli imprevisti legati alla produzione industriale. La mia tesi principale è che questi rischi e questi imprevisti, che erano conseguenze latenti e non ricercate dell’industrializzazione al suo inizio, globalizzandosi a partire dall’inizio degli anni ’70, hanno cominciato a minare le istituzioni dello Stato-nazione moderno. In sintesi, a un dato momento del nostro recente passato, la nostra percezione dell’ordine sociale è risultata modificata: esso non poggia più sullo scambio dei soli beni, ma piuttosto sullo scambio dei beni e dei "mali". Questo mutamento della percezione ha portato ad una crisi delle istituzioni e del funzionamento delle società occidentali.
Contrariamente a ciò che hanno affermato certi miei critici, io non ho mai detto che la società industriale presentava meno rischi ai suoi inizi, o che essa sarebbe stata sostituita dalla società del rischio. Sono l’universalizzazione del rischio e la sua percezione che fanno la differenza. La rarità esiste sempre e la divisione in classi anche, soprattutto se li si considera in rapporto alla loro esposizione ad una grande varietà di rischi. Tuttavia la società del rischio porta una dimensione supplementare all’analisi delle classi sociali e della politica. Il cambiamento non è quantitativo, ma qualitativo: la rarità diventa qualcos’altro, come un’immagine di se stessa deformata da uno specchio. Così, le posizioni tradizionali della lotta di classe diventano irrilevanti a fronte delle minacce concernenti la salute e la sicurezza. Di fronte ad una catastrofe nucleare o ad un disastro genetico, ad un crollo finanziario mondiale o – per restare nell’attualità – a delle minacce terroristiche globali, la lotta di classe cessa di essere un concetto universale.
– Gli esperti e gli scienziati sono oggi in grado d’identificare le cause e le probabilità di questi rischi, ed i gestori dei rischi possano contribuire a ridurne le conseguenze negative?
– No! Ciò che rende la produzione e la distribuzione dei "mali" così determinante nel nostro mondo contemporaneo è l’impossibilità di sfuggire alle loro conseguenze. I sistemi di spiegazione chiusi offerti dalla scienza sotto la forma della perizia, dalla politica sotto la forma del diritto e dai media sotto la forma del "panico morale" non sono più opzioni valide, nella misura in cui siamo tutti implicati in questa rete mondiale dei rischi tecnologici.
La cosa può sembrare paradossale, ma è proprio il progresso della scienza che mina il ruolo degli esperti. La scienza e le sue tecnologie di visualizzazione dei "segnali deboli" hanno fondamentalmente trasformato il principio di "non vedo il male, dunque non c’è male" che ha a lungo focalizzato l’attenzione sugli aspetti quantificabili e visibili dei rischi industriali. "Lasciate ciò agli esperti" è diventato uno slogan che non è più accettabile di "Si fidi di me, sono un medico", non sono altro che battute per film hollywoodiani.
L’invisibilità non è più una scusa per respingere sempre la decisione e l’azione, nella misura in cui il potere di nuocere della produzione industriale ha conseguenze sempre più rilevanti per ciascuno di noi. Questo potere di nuocere è generato dal carattere indeterminato degli imprevisti e dei rischi, che ha già reso ormai superate le politiche di sicurezza del complesso finanziario assicurativo su cui poggia il capitalismo contemporaneo.
– In che cosa questi mutamenti modificano l’equilibrio dei poteri, della politica e della democrazia?
– La società del rischio ha in effetti un immenso impatto politico. Si può persino dire che i rischi producano una situazione quasi rivoluzionaria: l’ordine sociale ne esce rovesciato, nella misura in cui il rischio entra in contraddizione con il concettodi cittadinanza limitato alla nazione. La cittadinanza è stata concepita in Occidente in termini di rischi "nazionali", cioè concernenti ogni persona vivente su di un dato territorio. La globalizzazione dei rischi mette in luce l’immensa difficoltà dello Stato-nazione di predire, organizzare e controllare il rischio in un mondo di reti mondiali interattive e di fenomeni ibridi, soprattutto quando nessuno assume la responsabilità dei risultati. La crisi della mucca pazza ce lo ricorda in modo esplosivo. I titolari delle decisioni politiche affermano che non sono responsabili: al più essi "regolano lo sviluppo". Gli scienziati dicono di creare nuove opportunità tecnologiche, ma di non decidere il modo con cui esse saranno usate. I capi d’impresa spiegano che essi rispondono alla domanda del consumatore. È ciò che io chiamo l’"irresponsabilità organizzata". La società è diventata un laboratorio in cui nessuno è responsabile del risultato degli esperimenti.
– Si può immaginare una nuova regolamentazione dei rischi?
– Le domande che seguono sono cruciali per regolare i conflitti legati alla gestione dei rischi: chi deve provare che cosa? A chi spetta l’onere della prova? Che cos’è una prova in una condizione d’incertezza? Quali sono le norme di responsabilità in vigore? Ed infine: chi deve pagare il conto? Se una politica di gestione dei rischi risponde a questi interrogativi, essa darà un carattere concreto all’idea di evoluzione sociale. Perché cambiare le politiche di rischio implica il cambiamento dei rapporti di potere che attraversano oggi la regolamentazione dei rischi .
Abbiamo bisogno di una cultura dell’incertezza che sia chiaramente distinta dalle culture del rischio residuale da un lato, e dalla sicurezza assoluta dall’altro. La chiave di questa cultura dell’incertezza risiede nella capacità di affrontare liberamente tutti gli approcci del rischio: riconoscere la differenza tra un rischio quantificato ed un’incertezza non quantificata; arbitrare tra differenti razionalità, dimostrare la propria volontà di agire in modo responsabile riguardo ai danni che si possono produrre a dispetto di tutte le precauzioni. Così, una cultura dell’incertezza non parlerà alla leggera di "rischi residuali" nella misura in cui questa espressione indica nei fatti un rischio con cui si spera di non doversi mai confrontare. Ma la cultura dell’incertezza differisce anche profondamente dalla "cultura del non rischio", che consiste nell’imbrigliare l’innovazione con dispositivi di sicurezza fin dalla sua origine.
(traduzione di Domenico Lanfranchi)