Ho letto il documento di Ervin Laszlo su Business Ethics, mi è molto piaciuto e lo condivido sostanzialmente. L’inizio è fondamentale: "Ethics is becoming business, in both senses". Tuttavia il seguito dell’articolo sembra continuare a distinguere troppo tra etica ed affari, e pur sostenendo che etica ed affari possono andare di pari passo non esclude che chi è in affari sia legittimato ad agire senza tener conto dell’etica. Naturalmente certe soglie ci sono: il furto, la rapina, la truffa, l’aggiotaggio, l’insider trading, ecc. sono sanzionate come forme di affari non ammesse. Ma sono soglie che danno l’impressione di non essere composte in un sistema coerente di valori di fondo.
Io mi chiedo: perchè si parla di etica degli affari, e non si parla di etica della politica? Perchè si parla, ad esempio, di "commercio equo e solidale", di "banche etiche", e non si parla, o si parla molto meno, di politica equa e solidale, o di istituzioni etiche?
Credo di sapere perchè: perchè la politica, per quanto oggetto di disaffezione da parte di molte persone, per quanto criticata in quanto dedita più alle lotte di potere che al servizio del cittadino, è considerata, almeno potenzialmente, una attività ad alto contenuto etico, forse il più alto: il governo della polis. Si dà per scontato che la politica dovrebbe rispondere a finalità altamente etiche. Del resto, anche "il fine giustifica i mezzi" machiavelliano dava per implicito che il fine avesse un valore etico (cosa che molti dimenticano parlando di Machiavelli). Analogamente, nessuno rinuncerebbe all’affermazione contenuta in tante costituzioni democratiche secondo cui "la sovranità appartiene al popolo", anche se tutti sanno quanto questa affermazione sia di difficile realizzazione.
Ben diversa la situazione nel mondo economico. Se molti parlano e apprezzano attività economiche definite come "commercio equo e solidale", o "banche etiche", o di "non profit", è perchè si suppone, consapevolmente o no, che il commercio sia normalmente e legittimamente iniquo ed egoista, che le banche siano normalmente e legittimamente immorali e che il profitto sia riprovevole (la sua stessa esaltazione come fine dell’attività economica lo considera sostanzialmente moribus solutus). Insomma vige, soprattutto da noi, l’arrière pensée che fare business implichi fondamentalmente un furto (marxismo) o che il denaro sia di per sè farina del diavolo (cattolicesimo).
E’ chiaro che è facile portare prove che confermano questo modo di vedere l’economia. Ma lo stesso si potrebbe dire della politica, se considerata solo come finalizzata a un qualsivoglia potere. D’altra parte sarebbe possibile, anche se meno facile, dimostrare che queste concezioni non sono necessariamente vere. Se tali fossero, tra l’altro, l’economia non avrebbe portato a un aumento e a una diffusione crescente della ricchezza e del benessere, sia pure solo per una parte limitata dell’umanità e tra molti squilibri (che potrebbero essere dovuti proprio al modo più diffuso di intendere l’attività economica, e all’insufficiente e incorerente governo di essa).
Insomma, mentre per la politica vige una presunzione di moralità per così dire costituzionale, per l’economia vige una presunzione di immoralità costituzionale.
Io credo tuttavia che qualcosa stia cambiando (a mio parere, con duecento anni di ritardo rispetto alla politica). Da una parte le aziende e la business community si rendono conto in misura crescente che i comportamenti etici, il riferimento a valori non solo economici, a partire da quello della lealtà e trasparenza nei rapporti tra aziende e in generale nei mercati, contraddistinguono le economie e spesso le singole aziende più floride, mentre dove questi valori sono messi in non cale l’economia ristagna o regredisce, le aziende falliscono. Ma dall’altra, il mondo economico viene sempre meno considerato come una zona franca rispetto alle regole di convivenza politica. Non esiste ancora un corpus juris organico per la convivenza economica, come esiste per uno stato democratico, dalla costituzione in giù. Ma sono molti i filoni che convergono verso questa riconduzione dell’economia alle regole di una convivenza democratica: legislazioni antitrust, norme sulla corporate governance, tutela dell’ambiente naturale, difesa dei consumatori, vincoli e garanzie sulla qualità e la sicurezza dei prodotti, eccetera, fino alle stesse normative WTO, la cui improvvisa "popolarità" (o impopolarità) va considerata comunque come un segnale positivo di presa di coscienza politica globale.
Diceva già Adamo Smith: "Il consumo è il solo fine e scopo di ogni produzione… Il principio si illustra a tal punto da sè che sarebbe assurdo cercare di dimostrarlo. Tuttavia nel sistema mercantile… sembra che si consideri la produzione, e non il consumo, come fine ultimo e obiettivo di ogni industria e commercio". Per certi versi la situazione denunciata da questo padre del capitalismo è peggiorata, con la crescente finanziarizzazione dell’economia, che troppo spesso perde di vista non solo il consumo, ma anche la stessa produzione. Ma per altri versi sta migliorando, perchè da poco tempo si capisce che il profitto è solo uno dei "derivati", sia pure fondamentale per la sopravvivenza e la crescita di una azienda, del vero obiettivo dell’azienda: quello di produrre valore per i destinatari dei suoi prodotti, fisici o intangibili che siano, tenendo presenti anche gli effetti indotti per i terzi. Valore che naturalmente va inteso come qualcosa che "solleva o mobilita" i destinatari, come dice Richard Normann, o, secondo l’elevata concezione ruskiniana della ricchezza, come qualità della vita (questo significa che la droga o le armi, di regola, non sono un valore, anche se desiderate e pagate a caro prezzo da molti "consumatori"). [*]
Per concludere: a me piacerebbe che non si parlasse più o si parlasse molto meno di etica degli affari, di banche etiche, di non profit, eccetera. Tra l’altro, queste stesse attività possono dare luogo, e hanno in effetti dato spesso luogo, ad attività affaristiche molto poco etiche. Preferirei che si parlasse tout court di economia e di attività economiche, e che si cercasse di ricondurle a un sistema di convivenza civile che non può esistere senza riferimenti etici fondamentali.
Per suffragare la mia aspirazione, faccio due esempi:
– La Grameen Bank di Muhammad Yunus, nata nel Bangladesh e che fiorisce e si sviluppa in nuove iniziative secondo una logica sanamente business, cioè senza i vincoli , le sovvenzioni e i paludamenti di una banca etica. Questa banca ha raggiunto alti livelli di redditività, attribuiti tra l’altro all’elevato frazionamento del rischio (concesso a migliaia di famiglie povere ritenute normalmente inaffidabili dal sistema bancario normale!).
– I fondi d’investimento che finanziano aziende che operano in modi e settori del tutto "normali" (cioè non in iniziative umanitarie, o ecologiche, ecc.), ma che hanno adottato per le loro strategie e il loro operare quotidiano codici di comportamento ispirati a specifici principi di deontologia sociale e professionale. Fondi di questo tipo, inseriti nell’indice americano "Domino 400", hanno visto le loro quotazioni salire in un decennio del 302%, contro il 267% dell’indice Standard & Poor’s 500. Se ne deduce che le aziende facenti parte di questi fondi mostrano una maggiore capacità di crescita sostenibile nel lungo termine. Questi fondi mostrano inoltre una permanenza degli investitori doppia rispetto ai titoli azionari in generale.
Concludo dicendo: forse le mie considerazioni non sono molto bene argomentate, o sono piuttosto incolte in termini di teoria economica. Ma qualcosa di vero deve esserci. Spero che qualcuno mi aiuti a precisarle meglio o a rivederle.
[*] Giacomo Correale, il 25 giugno 2000, scriveva in proposito: ‘Dice Richard Normann, un rinomato esperto di strategie aziendali, che un fornitore ha due modi per migliorare il "sistema di creazione di valore" del suo cliente (Normann considera addrittura il cliente come un soggetto attivo, che usa i beni o servizi acquistati per "farsi" da solo il proprio valore): o assumersi "attività che i clienti svolgevano in prima persona, liberando risorse che essi possono dirottare su attività più vantaggiose" (sgravio"), oppure "aiutare il cliente a fare cose che prima non avrebbe potuto fare o a farle meglio" (mobilitazione). (v. R. Normann-Rafale Ramìrez: "Le strategie interattive d’impresa", Etas Libri, 1995, pg.58-59). Magari uno stereo migliore per ascoltare musica. Quella di Ruskin è una citazione "rubata" all’economista Marcello De Cecco (La Repubblica, 7 luglio 1997). Scriveva De Cecco: "John Ruskin per le gran parte degli italiani è un illustre storico dell’arte. Egli è stato invece il pensatore che ha maggiormente influenzato la classe dirigente inglese e, tramite essa, quella americana alla fine del secolo scorso e nella prima metà di questo… Cardine della filosofia sociale di Ruskin era l’idea che la vera ricchezza, sia a livello individuale che nazionale, fosse costituita dalla "qualità della vita".
Perchè queste citazioni, e soprattutto quest’ultima? Perchè i sostenitori del "valore per il cliente" come fine dell’azienda, (valore o ricchezza reale da cui deriverebbe poi il valore monetario in termini di profitti, salari, ecc.), sono indotti a considerare il cliente come arbitro assoluto del valore stesso. In parole povere, il valore consisterebbe in ciò che piace al cliente e nella misura in cui gli piace. Secondo questa logica, qualsiasi cosa, da un semilavorato alla droga, avrebbe valore se il cliente così valuta. Ciò potrebbe avere senso in una logica puramente economica. Ma la logica puramente economica è una astrazione come l’homo economicus. Quindi qualche criterio discriminante sul valore o la ricchezza del, o per il cliente deve esserci. E Ruskin aiuta a discriminare.’ (torna al testo)
(giugno 2000)