Punti chiave dell’intervista:
1. Oggi la nostra capacità di creare innovazione è molto superiore alla capacità di prevederne le conseguenze
2. La responsabilità delle conseguenze delle innovazioni
3. "Oggi l’umanità ha una grande consapevolezza: sappiamo di poter determinare il corso della storia, anche se localmente e per un breve periodo. Questo da un lato ci paralizza, ma è anche inebriante. Ci fa sentire semidèi."
4. Io auspico un rallentamento ma…
5. "Credo che la scienza sia quanto di più antidemocratico si possa immaginare."
6. Il nostro concetto di responsabilità va ripensato nell’ambito del nuovo rapporto uomo-macchina-ambiente.
Margherita Fronte: Richard Nelson, economista della Columbia University e studioso dei processi di innovazione, ritiene che oggi i rapporti fra scienza e applicazione siano invertiti, e che in molti campi le innovazioni precedano la spiegazione teorica. Molti scienziati però non sono d’accordo.
Giuseppe O. Longo: Alla luce di quello che è avvenuto negli ultimi secoli, con le grandi sistemazioni teoriche della scienza – e soprattutto della fisica – ancora oggi la sensazione diffusa fra i ricercatori è che la scienza sia la matrice delle applicazioni. Ma se per un lungo periodo la scienza ha accompagnato o preceduto le applicazioni, in seguito questo rapporto si è invertito. Lo sviluppo delle tecnologie legate all’informatica, alla biologia molecolare avanzata o a Internet mette bene in luce che oggi l’attività teorica della scienza non è più in grado di preparare il terreno alle applicazioni. Succede anzi che siano queste ultime a imporre una retroazione positiva ai processi di innovazione, accelerandoli come mai in passato.
Il cambiamento è avvenuto per due motivi. Il primo è che i settori che si stanno evolvendo più rapidamente dal punto di vista delle applicazioni chiamano in causa sistemi complessi, per i quali le spiegazioni teoriche sono ancora molto indietro. Questi sistemi infatti non si prestano a essere descritti con le teorie sviluppate in precedenza per altri campi. In secondo luogo, è intervenuto un fatto nuovo: ovvero, si è un po’ perso l’interesse per la spiegazione scientifica. In passato, qualsiasi scoperta era considerata di second’ordine se non era suffragata da una spiegazione teorica. Guglielmo Marconi intuì che le onde elettromagnetiche seguono la curvatura terrestre, e aiutato da una serie di coincidenze fortunate portò a buon fine i suoi esperimenti molto prima che i fisici scoprissero le proprietà riflettenti della ionosfera. Ma Marconi non era considerato un vero scienziato dai suoi contemporanei. Oggi non è più così. La comunità scientifica non ha alcuna ragione di essere supponente nei confronti di chi crea innovazioni senza dare giustificazioni teoriche. Ma proprio perché la scienza non è più in grado di fornire un contesto teorico, accade che oggi la nostra capacità di creare innovazione sia molto superiore alla capacità di prevederne le conseguenze.
MF: E’ per questo motivo che nel suo saggio Tecnoscienza e globalizzazione, lei giudica saggi coloro che auspicano un rallentamento dell’innovazione tecnologica, pur senza voler fermare il progresso?
GL: In tutto ciò il tema della responsabilità è centrale, anche se difficile da individuare con precisione. C’è una responsabilità di chi inventa e diffonde le innovazioni (per i possibili effetti che queste avranno su tutti), ma c’è anche una responsabilità di chi rifiuta le tecnologie, perché così facendo ostacola i progressi che potrebbero scaturirne. C’è però una dissimmetria: mentre l’adozione di una tecnica può avere conseguenze irreversibili, non adottarla oggi spesso consente di adottarla domani, quando ne siano più chiare le implicazioni.
Oggi l’umanità ha una grande consapevolezza: sappiamo di poter determinare il corso della storia, anche se localmente e per un breve periodo. Questo da un lato ci paralizza, ma è anche inebriante. Ci fa sentire semidèi. La nostra percezione della responsabilità si intreccia con la consapevolezza di ciò che possiamo fare. Gli scienziati che vanno in piazza a manifestare per la libertà di ricerca si pongono in una situazione più primitiva rispetto a questa consapevolezza di responsabilità, perché continuano a ritenere valida la distinzione fra teoria e applicazioni. Ma questa distinzione oggi non esiste più. Di fatto sono le applicazioni che guidano lo sviluppo della scienza. I finanziamenti sono concessi ai settori della scienza per cui si intravedono applicazioni. Per esempio, i programmi finalizzati del CNR erogano finanziamenti a ricerche che hanno ricadute applicative. Questo è un altro esempio di retroazione positiva, in virtù della quale l’innovazione procede sempre più velocemente senza che noi riusciamo a capire dove si stia andando.
Io auspico un rallentamento, che dovrebbe servire a capire in che direzione si sta muovendo il sistema globale, a dare un orientamento in un’epoca in cui domina un forte disorientamento. Ma non ho proposte su come si potrebbe concretare. Anzi, credo che ottenere un rallentamento sia un obiettivo utopistico. Nel mondo globalizzato questo potrebbe ottenersi soltanto se fosse deciso all’unanimità. Se infatti una decisione del genere venisse presa da un solo attore e in modo autonomo, si tradurrebbe in una perdita economica per il singolo. Solo un "governo mondiale", che è difficilissimo da istituire, sarebbe in grado di imporre una moratoria globale. Anche in questo caso però temo che l’esito non sarebbe quello sperato, perché comunque qualcuno la infrangerebbe. A quel punto tutti gli altri dovrebbero fare altrettanto, perché altrimenti rischierebbero di restare indietro in modo irreparabile. Forse l’unica possibilità di rallentamento globale sarebbe offerta da una crisi economica. In questo caso alla spinta all’innovazione guidata dal profitto si sostituirebbe la spinta guidata dall’ingegno. Il risultato di una crisi petrolifera grave non sarebbe certo la scomparsa dei mezzi di trasporto, quanto piuttosto la ricerca seria e motivata di energie alternative.
MF: La struttura del potere e quella economica oggi fanno sì che le decisioni siano in mano a pochi, e che gli effetti si propaghino a livello planetario, anche per via dei processi di globalizzazione.
GL: Credo che la scienza sia quanto di più antidemocratico si possa immaginare. A livello dei singoli, per capire la scienza bisogna avere una predisposizione e bisogna che le capacità individuali siano allenate tramite un apprendistato lungo e faticoso. La scienza non si improvvisa. Ma l’allenamento dipende da una serie di fattori – fra cui il luogo di nascita, le condizioni economiche, le vicende personali eccetera – che di fatto limitano l’accesso alla scienza. Questo fa sì che i compiti della ricerca vengano delegati a chi può svolgerli: ovvero agli scienziati. Inoltre, i ricercatori stessi compiono un processo di delega ai colleghi, quando per esempio si trovino a lavorare in un laboratorio che non ha i mezzi per riprodurre i risultati ottenuti in strutture più attrezzate. E’ impossibile ripetere in un laboratorio di fisica di un’università quello che si fa al CERN. Il processo di doppia delega crea delle aspettative nei confronti della comunità scientifica, che questa voglia ammetterlo oppure no. Ma la millantata democraticità della scienza ha deluso molte persone: molte "promesse", implicite o esplicite, non sono state mantenute. Per questo oggi si assiste a una fuga dalla scienza. Per esempio, la promessa di rappresentare o ricostruire il mondo in termini razionali non può essere mantenuta. Dal punto di vista pratico, la delega che diamo agli scienziati si estende al momento applicativo. Si delega in modo tale che pochi prendono le decisioni per tutti. Questo ci fa comodo finché l’applicazione non mostra i suoi aspetti negativi. Ma quando questi aspetti emergono allora il nostro atteggiamento cambia e condanniamo ciò che prima accettavamo. Si genera così un’ambivalenza nei confronti della scienza e dei responsabili delle innovazioni.
MF: Se però, attraverso Internet, l’uomo evolvesse in un super-organismo, come lei scrive, allora la responsabilità delle innovazioni e dei cambiamenti sarebbe condivisa e non più riconducibile a nessuno…
GL: In effetti, le innovazioni recenti non hanno un unico autore o inventore. Internet è nato dal progetto di molte persone, così come la decodifica del genoma umano è frutto del lavoro di numerosi ricercatori. La collettivizzazione dell’iniziativa tecnoscientifica porta a una diminuzione dell’autorialità, e quindi a una diluizione della responsabilità. La delega non viene più data a singoli scienziati ben individuabili, ma alla comunità dei ricercatori e anche alle macchine. La delega alle macchine è parte del processo di ibridazione fra uomo e tecnologia. La bizzarra e paradossale locuzione "errore umano" indica che per non provocare guai l’uomo non deve interferire con la macchina e denota che il processo di delega è irreversibile. Ma se poi la macchina sbaglia di chi è la responsabilità? Penso che il nostro concetto di responsabilità vada ripensato, perché sono cambiati i parametri etici, che prima erano dettati dal rapporto uomo-ambiente. Oggi questi parametri devono essere ridefiniti nell’ambito del nuovo rapporto uomo-macchina-ambiente.
(27 giugno 2002, pubblicata il 31 luglio 2002)