Il post-umano, il simulacro, la carne
E’ noto come, nel dialogo Il Sofista [1], Platone distingua l’eidos, ossia l'”idea”, l'”essenza”, la “forma” permanente che nell’aldilà fungerebbe da modello (paràdeigma) delle cose terrene, dalla sua copia fedele in quanto ne rispetta le proporzioni (l’immagine che chiamava eikon) e da una sua copia infedele, che solo apparentemente somiglia al proprio modello e che perciò risulta da condannare: l’immagine chiamata eidolon o, più precisamente, phantasma (“simulacro”).
La distinzione qui introdotta da Platone è esaminata e discussa da Gilles Deleuze nel primo
paragrafo del suo saggio ora inserito in appendice a Logica del senso col titolo “Simulacro e filosofia antica”, ma in una versione precedente pubblicato col più significativo titolo Renverser le platonisme [2]: un titolo che, riecheggiando esplicitamente Nietzsche, annuncia il carattere di programma filosofico che tale saggio riveste per il pensiero di Deleuze, impegnato, come già quello nietzscheano, appunto a “rovesciare il platonismo”, inteso come versione semplificata della filosofia con cui Platone ha contribuito, più di ogni altro, a elaborare l’impostazione metafisica dominante nella cultura occidentale.
Riferendosi al brano del Sofista prima ricordato, nel saggio in questione Deleuze osserva come rovesciarne l’impostazione significhi rinunciare a porre l’identità stabilita dall’idea a fondamento di ogni somiglianza e a discrimine di ogni differenza, per affermare invece come sia appunto l’incessante ricorrere e accostarsi delle differenze a poter produrre effetti di somiglianza o addirittura di identità [3].
E’ tuttavia nei termini dell’impostazione platonistica che tendiamo tuttora a pensare. Confrontandoci con quei termini, senza dubbio possiamo dichiarare che il post-umano non è mimèsi dell’umano, ossia “copia fedele” di una certa “forma” di vita intesa quale “modello” da imitare. Semmai, da Blade Runner in poi, a un primo sguardo il post-umano sembra offrire proprio quella somiglianza soltanto apparente su cui il detective del film indaga, non diversamente da Platone, allo scopo di individuare ed eliminare le “copie infedeli”: i “replicanti”.
Il post-umano sembra dunque imitare l’umano, ma in realtà se ne differenzia in virtù di uno
scarto tecnico. In questa luce, il compito della commissione atletica incaricata di stabilire se Oscar Pistorius possa o no partecipare ai prossimi Giochi Olimpici per normodotati da un lato mi sembra confermare come tuttora sia prevalente un’impostazione platonistica di pensiero, dall’altro mi sembra risultare, quel compito, evidentemente insensato.
Ma dire tutto questo certo non basta, se tende comunque a suggerire l’umano come modello originario di cui il post-umano si rivelerebbe la semplice, benché inquietante, “copia infedele” in quanto tecnicamente potenziata. Chiarificatrici e significative risultano in proposito le dichiarazioni riguardanti Pistorius rilasciate da un atleta privo di un solo arto inferiore, il quale, mentre augurava al sudafricano di poter gareggiare con i normodotati, sperava non lo facesse con chi si trova in condizioni come le proprie, perché quando si è privi di un solo arto, la protesi deve ancora imitare il modello, deve ancora assomigliare, insomma: per questo alcuni atleti in quelle condizioni studiano ora protesi in grado di immobilizzare la gamba umana ed essere così finalmente “post-umani”. Se infatti le protesi che Pistorius adopera nella vita quotidiana lo rendono evidentemente somigliante agli altri esseri umani, quelle al carbonio che usa per correre non solo gli impediscono di star fermo o camminare normalmente, ma rinunciano persino a produrre una “somiglianza soltanto apparente” [4].
Sganciarsi dall’umano inteso quale modello sembra dunque diventato l’obiettivo che segnala
il radicalizzarsi della prospettiva post-umana, quell’obiettivo che i replicanti di Blade runner, invece, non sapevano ancora porsi. Non a caso la Tyrell Corporation li pubblicizzava con lo slogan “più umano dell’umano” e Antonio Caronia parla pur sempre del loro come “corpo replicato” [5], mentre le protesi da corsa utilizzate da Pistorius ne sembrano favorire piuttosto il divenire-animale, giacché suggeriscono l’insistita assimilazione tra la sua falcata e la corsa di un ghepardo [6]: effetto di somiglianza prodotto dall’accostarsi di differenze.
Ecco allora che una questione adeguatamente radicale mi pare vada indagata, una questione che così potrebbe forse esser formulata: se il post-umano viene a caratterizzarsi per lo scarto tecnico attraverso il quale tende a sganciarsi, dicevo, dall’umano inteso quale modello, in che senso parlare, a proposito di un tale progetto, di “nuova carne”? [7] Il diffuso ricorso a quest’ultimo termine non sarà traccia di una involontaria ma persistente subalternità al modello da cui viene programmato il congedo?
Pur facendo frequente uso del termine “carne”, la riflessione sul post-umano si è riferita in modo tutt’al più rituale e poco centrato [8] al pensiero sviluppato in merito da Maurice Merleau-Ponty, che, com’è noto, nel Novecento ha per primo esplicitamente rivendicato valore filosofico alla nozione di “carne”, spiegando infatti di utilizzarla per indicare un tipo d’essere che “non ha nome in nessuna filosofia” [9].
Ma trascurare il riferimento al pensiero di Merleau-Ponty non vuol dire solo mancare di
riconoscerne l’importanza storica (e forse questo non sarebbe di per sé così grave, se è vero che l’insistito richiamo alla storia della filosofia sembra ormai soltanto una prerogativa italiana), bensì significa soprattutto privarsi dell’apporto di un pensiero a mio avviso in grado di offrire un
importante contributo alla riflessione sulla prospettiva post-umana e sul suo attuale radicalizzarsi.
Come già ho cercato di mostrare altrove [10], Merleau-Ponty cerca di caratterizzare la carne quale trama unitaria in cui ogni corpo e ogni cosa non si danno se non come differenza rispetto agli altri corpi e alle altre cose. Egli pensa dunque l’identità corporea a partire dal rapporto di parentela carnale che il corpo intrattiene col mondo sensibile, dal quale nel contempo si differenzia in quanto risulta senziente oltre che sensibile. In altre parole, Merleau-Ponty pensa il costituirsi dell’esperienza corporea a partire dall’orizzonte relazionale della carne, pensa insomma il corpo a partire dalla carne anziché la carne a partire dal corpo: ecco la prospettiva che sembra porre la sua riflessione in particolare sintonia con quella sul post-umano allorché quest’ultimo tende ad abbandonare l’umano – e dunque lo stesso corpo umano – quale proprio modello.
In tale prospettiva, la carne risulta dunque tessuto di differenze che avvolge e attraversa gli
stessi scarti introdotti dalla tecnica, che infatti non possono venir considerati esterni o estranei a quel tessuto, come se l’umano non fosse per essenza intrecciato alla tecnica stessa. E’ quindi l’orizzonte della carne, piuttosto che l’imitazione del corpo, a fornire la condizione di possibilità della protesi.
Insomma, come sintetizza il più recente libro di Pietro Montani, tutto “ciò comporta […] un
decisivo mutamento di vocabolario, contrassegnato dal passaggio da una concettualità legata
all’idea di ‘corpo’ a una concettualità legata all’idea di ‘carne’ (con notevoli ripercussioni sul piano dell’immagine)”. [11] Se poi ricordiamo che, come si è visto all’inizio, lo statuto di quest’ultima risultava connesso già da Platone a quello dell’identità, possiamo suggerire che la prima costellazione concettuale indicata da Montani, assumendo a modello l’idea di corpo, sembra potersi ancora legare a una concezione stabile dell’identità di ascendenza platonistica. La seconda invece – in quanto ruota intorno all’accezione merleau-pontyana di carne, “in via di principio aperta e ibridata” [12] – converge con il post-umano nel far segno verso una caratterizzazione molteplice e “migrante” delle identità in quanto di volta in volta distribuite a partire dalle relazioni di ciascuno con gli altri e col mondo e dagli ambiti d’esperienza che queste relazioni rispettivamente enfatizzano [13]. Per i motivi sin qui indicati ritengo insomma che l’insistito riferimento della letteratura sul post-umano al termine “carne” trovi nell’accezione fornitane da Merleau-Ponty il suo senso filosofico più pertinente, profondo e ricco di fruttuose implicazioni.
Malgrado la preferenza affermata ancora pochi anni fa da Jean-Luc Nancy a un pensiero del
corpo piuttosto che della carne – da lui qualificata “una parola di spessore, mentre corpo è una
parola leggera” [14] – risulta allora significativo che all’accezione merleau-pontyana di carne si ispiri un libro “che s’intitola Estetica del virtuale perché tratta di corpi che sono immagini e delle interazioni tra il nostro corpo, appesantito e insieme alleggerito da protesi inorganiche, e quelle immagini” [15]. L’autore di tale libro, Roberto Diodato, giudica infatti quell’accezione “un buon descrittore del campo virtuale, i cui oggetti sono modalità di relazione,” [16] nonché “dell’essere precedente alla distinzione organico-inorganico” [17]. L’efficacia di tale descrizione si deve a mio avviso a quanto a sua volta indicato da Antonio Caronia: “La virtualizzazione del corpo (o, se vogliamo, la tematica del post-umano) ha a che fare con delle trasformazioni dell’immaginario che dimostrano una certa coerenza, e sono collegate a mutamenti del modo di pensare delle varie epoche, che hanno una relazione con categorie concettuali e filosofiche di un certo rilievo” [18].
Appunto di trasformazioni epocali che investono lo statuto stesso dell’immaginario Merleau-Ponty si adopera dichiaratamente a formulare le implicazioni filosofiche, riflettendo sulle
novità della pittura moderna, nell’ultimo scritto da lui portato a termine: L’oeil et l’esprit.[19] Precisamente come nelle coeve pagine dell’incompiuto Le visible et l’invisible, egli pensa qui il costituirsi dell’esperienza corporea a partire dall’orizzonte relazionale della carne e pertanto descrive il sorgere della visione dal cuore di tale orizzonte anziché il suo sporgere dall’interno del corpo. [20] A collocarmi al centro di quell’orizzonte – spiega Merleau-Ponty – è il mio essere un corpo senziente e insieme sensibile, vedente e insieme visibile, in virtù del quale intrattengo col mondo un rapporto descrivibile come una sorta di nastro di Moebius: quelli che tradizionalmente sono stati definiti “interno” ed “esterno” delineano cioè il diritto ed il rovescio dell’unico circolo della visione.
Ecco allora che in virtù di questo circolo – annota Merleau-Ponty più oltre – “tocchiamo il
sole e le stelle, […] siamo contemporaneamente ovunque, accanto alle cose lontane come a quelle vicine, e […] perfino la nostra facoltà di immaginarci altrove […], di mirare liberamente a esseri reali, dovunque essi si trovino, attinge anch’essa alla visione, reimpiega mezzi che ci vengono da essa” [21].
E’ con questa verità, commenta Diodato, che “i mondi virtuali […] hanno a che fare” [22]. Connesso con quella caratterizzazione della visione, infatti, l’immaginario non può essere concepito quale facoltà sostitutiva o surrogato del reale, non esprime una semplice assenza o un totalmente altro rispetto a quest’ultimo, ma risulta germogliare – insieme con la visione stessa, appunto – da quel nostro rapporto di parentela sensibile col mondo che, lo sappiamo, Merleau-Ponty chiama “carne”, in una celebre pagina del Visibile e l’invisibile precisando che essa “non è materia, non è spirito, non è sostanza. Per designarla occorrerebbe il vecchio termine ‘elemento’, nel senso in cui lo si impiegava per parlare dell’acqua, dell’aria, della terra e del fuoco, cioè nel senso di una cosa generale, a mezza strada fra l’individuo spazio-temporale e l’idea, specie di principio incarnato che introduce uno stile d’essere in qualsiasi luogo se ne trovi una particella. In questo senso la carne è un ‘elemento’ dell’Essere” [23].
In questo stesso senso, sembra allora possibile concepire il virtuale, sullo sfondo del tessuto di differenze che ci lega al mondo e agli altri, come l’elemento sensibile comune al reale e all’immaginario, situabile precisamente “a mezza strada” tra i due, accentuabile nell’uno come nell’altro versante senza perciò recidersi, essendo anzi lui stesso a rendere possibile tale diversa accentuazione, proprio in quanto è fatto di quella carne che “non è materia, non è spirito, non è sostanza” , abbiamo sentito, ma appunto “elemento”. C’è insomma un sensibile – giacché interessa i nostri sensi – che non è materia, del quale possono pertanto essere intessuti tanto il reale quanto l’immaginario: al virtuale così inteso sembra essersi riferito anche Jean-François Lyotard, allievo di Merleau-Ponty poi in rotta col suo pensiero, intitolando significativamente Les immatériaux una celebre mostra tenutasi al Centre Pompidou nel 1985 che esponeva molteplici prodotti dell’incontro, allora agli inizi, tra ricerca scientifica, artistica e informatica [24].
Se una simile concezione porta evidentemente a trasformare anche la nozione di immagine,
come abbiamo già trovato Montani indicare, è perché quest’ultima non può allora continuare a
essere definita – ricorda Merleau-Ponty – “un ricalco [décalque], una copia, una seconda cosa” [25], più o meno fedele al suo modello, ma comunque prodotta da una visione intesa quale “operazione del pensiero” [26], quale indipendente dalla nostra relazione carnale col mondo.
Detto così, sembra evidente, quasi banale. Ma scrivendo un libro sull’evento dell’11 settembre 2001, da quante persone mi sono sentito obiettare che, non fosse stato per le immagini, quell’evento non sarebbe certo risultato una tragedia più grave di altre, ben più sanguinose! Non fosse stato per le immagini: esiste concessione più platonistica di questa? Certo, non fosse stato per le immagini, quello sarebbe stato, né più né meno, un altro evento. Ma ciò, anziché servire a ridimensionarne la gravità, dovrebbe semmai aiutarci a considerare sino in fondo l’intrinseca portata politica dell’ambito estetico-sensibile, di cui l’immaginario si dimostra il “risvolto carnale per la prima volta esposto agli sguardi” [27]: ecco l’intrinseca portata politica che proprio il platonismo ha sterilizzato. Come sentivamo Merleau-Ponty avvertire, non possiamo allora continuare a pensare che l’immagine sia soltanto “una seconda cosa” rispetto al reale, aggiungendo o togliendo la quale esso rimanga, platonisticamente, identico.
Viceversa, l’immagine fa tutt’uno con il reale, condizionandolo non meno di quanto ne venga condizionata. Il rovesciamento del platonismo non può quindi che passare da una conseguente interpretazione dell’evento dell’11 settembre, al cui proposito Jean Baudrillard ha infatti dichiarato: “le immagini non sono un raddoppiamento, ma fanno parte dell’evento” [28]. Perché se è vero che, come ha scritto Bergson anticipando molta riflessione sul virtuale, il mio corpo “va sino alle stelle” [29], non è meno vero che la mia carne, come mi è stato fatto notare, “arriva sino alle Torri gemelle” [30].
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Note:
- [1] Cfr. Platone, Sofista, 235 D sgg.
- [2] G. Deleuze, Renverser le platonisme, “Revue de Métaphysique et de Morale”, n. 4, 1967, ora con il titolo “Simulacro e filosofia antica” in Id., Logique du sens, Éd. de Minuit, Paris 1969, tr. it. di M. de Stefanis, Logica del senso, Feltrinelli, Milano 1975, ora 20062, pp. 223-246.
- [3] Ibidem, p. 231.
- [4] Cfr. C. Arrigoni, Tutti dietro a Pistorius, simbolo del futuro, www.corriere.it, 17 luglio 2007.
- [5] “Siamo sempre di fronte a un tentativo di ricostruire un corpo umano, più o meno simile morfologicamente, più o meno potente funzionalmente (in genere molto più potente), ma insomma sempre un ‘corpo replicato’.” (A. Caronia, “Corpi e informazioni. Il post-human da Wiener a Gibson”, in M. Pireddu e A. Tursi, Postumano. Relazioni tra uomo e tecnologia nella società delle reti, Guerini e associati, Milano 2006, p. 46).
- [6] Così anche T. Pievani, Che cosa ci dice l’evoluzione, “la repubblica”, 20 luglio 2007, p. 43.
- [7] Così R. Marchesini, Post-human : verso nuovi modelli di esistenza, Bollati Boringhieri, Torino 2002, p. 45, dove egli definisce la “tecnosfera” che, insieme con la “teriosfera”, ibrida il corpo umano quale “nuova carne dell’uomo in grado di modificare profondamente la performità della nostra specie”. Questi termini sono assunti da Marco Belpoliti (“Lunga vita alla nuova carne!”, poi ripreso in Crolli, Einaudi, Torino 2005) ma anche dagli organizzatori del seminario Il postumano nelle reti. Dalla carne alla politica svoltosi nel 2005 all’Università La Sapienza di Roma (17 gennaio – 11 aprile), i cui atti sono ora raccolti a cura di di Mario Pireddu e Antonio Tursi nel citato Postumano. Relazioni tra uomo e tecnologia nella società delle reti.
- [8] Cfr. M. Pireddu, “La carne del futuro. Utopia della dematerializzazione”, ibidem, p. 24, dove si sostiene che “la fenomenologia della percezione di Merleau-Ponty ha approfondito già negli anni Quaranta del secolo scorso le implicazioni di una filosofia della carne” che in realtà risulta da lui elaborata soltanto nella seconda metà del decennio successivo.
- [9] M. Merleau-Ponty, Le visible et l’invisible, texte établi par C. Lefort, Gallimard, Paris 1964, tr. it. di A. Bonomi riv. da M. Carbone, Il visibile e l’invisibile, nuova edizione italiana a cura di M. Carbone, Bompiani, Milano 1993, p. 163.
- [10] Cfr. il mio “Carne. Per la storia di un fraintendimento” in M. Carbone – D. M. Levin, La carne e la voce. In dialogo tra estetica ed etica, Mimesis, Milano 2003, p. 12.
- [11] P. Montani, Bioestetica. Senso comune, tecnica e arte nell’età della globalizzazione, Carocci, Roma 2007, pp. 14-15.
- [12] Ibidem, p. 14.
- [13] Ricordo che Merleau-Ponty utilizza appunto il verbo “emigrare” per descrivere il trasferirsi della carne da un ambito d’esperienza ad un altro. Cfr. M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, cit., p. 168.
- [14] J.-L. Nancy, Être singulier pluriel, Galilée, Paris 1996, tr. it. di D. Tarizzo, Essere singolare plurale, Einaudi, Torino 2001, pp. 27-28.
- [15] R. Diodato, Estetica del virtuale, Bruno Mondadori, Milano 2005, p. 2.
- [16] Ibidem, p. 112.
- [17] Ibidem, p. 116.
- [18] A. Caronia, “Corpi e informazioni. Il post-human da Wiener a Gibson”, in M. Pireddu e A. Tursi, Postumano. Relazioni tra uomo e tecnologia nella società delle reti, cit., p. 48.
- [19] M. Merleau-Ponty, L’oeil et l’esprit [datato 1960, 19611], Gallimard, Paris 1964, p. 41, tr. it. di A. Sordini, L’occhio e lo spirito, SE, Milano 1989.
- [20] Cfr. M. Carbone, Ai confini dell’esprimibile. Merleau-Ponty a partire da Cézanne e da Proust, Guerini e Associati, Milano 1990, 19983, p. 158.
- [21] M. Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, cit., p. 58.
- [22] R. Diodato, Estetica del virtuale, cit., p. 3.
- [23] M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, cit., p. 156.
- [24] J.- F. Lyotard – T. Chaput, Les immatériaux, Centre Georges Pompidou, Paris 1985.
- [25] M. Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, cit., p. 21. (fr., p. 23).
- [26] Ibidem, p. 18.
- [27] Ibidem, pp. 21-22.
- [28] J. Baudrillard (intervista a), Le photoreportage en son miroir, ripubblicata su www.lemonde.fr il 6 marzo 2007.
- [29] H. Bergson, Les deux sources de la morale et de la religion, Alcan, Paris 1932, tr. it. di M. Vinciguerra, Le due fonti della morale e della religione, Comunità, Milano 1950, p. 282.
- [30] Nel corso della trasmissione radiofonica “Farenheit” del giorno 11 settembre 2007.
Mauro Carbone è professore di Estetica Contemporanea nell’Università degli Studi di Milano.
Ha conseguito il dottorato di ricerca a Lovanio (Belgio) con una tesi premiata dalla Académie Royale de Belgique ed edita in italiano col titolo Ai confini dell’esprimibile. Merleau-Ponty a partire da Cézanne e da Proust (Milano 1990, 19983), poi in francese, in versione riveduta e ampliata, col titolo La visibilité de l’invisible. Merleau-Ponty entre Cézanne et Proust (Hildesheim 2001).
Sul pensiero di Merleau-Ponty, di cui a livello internazionale è uno dei più importanti specialisti della sua generazione, ha pubblicato altresì The Thinking of the Sensible, Merleau-Ponty’s A-Philosophy (Evanston 2004).
Più volte professore invitato in Francia, Stati Uniti e Messico, è condirettore della rivista Chiasmi International. Pubblicazione trilingue intorno al pensiero di Merleau-Ponty e per due anni lo è stato dello “International Symposium on Phenomenology”. E’ stato inoltre fellow dell’Italian Academy for Advanced Studies in America presso la Columbia University di New York e lo è attualmente della University of Warwick (UK). Dal 2002 dirige la collana “L’occhio e lo spirito” per le edizioni Mimesis di Milano.
Le sue ricerche si sono andate via via allargando alla più recente produzione filosofica d’ispirazione francese, di cui ha cercato di prolungare la riflessione in un’autonoma elaborazione teorica. Tra i suoi ultimi volumi: Una deformazione senza precedenti. Marcel Proust e le idee sensibili (Macerata 2004), che ha ottenuto, ex-aequo, il primo premio “Viaggio a Siracusa”, ed Essere morti insieme. L’evento dell’11 settembre 2001 (Torino 2007).