(Questo è il primo intervento nel Forum “Progresso e responsabilità: il passaggio dalla scienza alla tecnologia“ che prende spunto dall’omonimo articolo di Giuseppe O. Longo)
Ogni tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla magia.
Arthur C.Clarke
0. Io sono un tecnofilo. Sono tecnofilo nel senso che, se potessi, comprerei anche gli
oggetti tecnologici più inutili e complicati. Sono tecnofilo nel senso che credo che la
tecnologia abbia permesso, negli ultimi 100 anni, in occidente, un miglioramento radicale
delle condizioni di vita della maggior parte della popolazione. Entrate in un qualunque
centro commerciale: la maggior parte degli oggetti che vi troverete erano completamente
inaccessibili al mio bisnonno, bracciante della bassa pianura padana, costretto ad un
lavoro estenuante per 12 ore al giorno, e soggetto ai capricci del padrone che poteva in
ogni momento decidere di non rinnovargli il contratto ed di fargli fare “San
Michele” (ossia il giorno di San Michele, caricare tutti i suoi poveri oggetti su di
un carretto e mettersi a cercare un nuovo padrone; che difficilmente avrebbe trovato
perché il padrone avrebbe provveduto ad informare gli altri padroni del suo misfatto,
vero o presunto che fosse). La tecnologia, secondo me, fonda le condizioni essenziali
affinché la nostra società possa essere democratica. E’ forse un paragone azzardato, ma
così come la democrazia ateniense ha avuto tra i suoi presupposti la schiavitù, così le
moderne forme di governo occidentale hanno tra i loro presupposti lo sviluppo tecnologico.
Ma essere tecnofili non significa essere ciechi: è molto probabile che il nostro attuale
modello di sviluppo, di progresso, non sia esportabile al di fuori dell’occidente; e che,
quindi, l’idea di progresso che noi, oggi, in occidente abbiamo debba modificarsi.
Sono due le tesi di Giuseppe O. Longo che vorrei mettere in evidenza in questa mia breve e
preliminare discussione. La prima è la possibilità dello sviluppo di un intelligenza
collettiva. La seconda che il criterio di maggioranza possa essere uno strumento razionale
per il controllo dell’uso della tecnica.
1. Sinceramente non capisco, ma forse manco solo di immaginazione, che cosa significhi che
la rete è anticipatrice di una “creatura planetaria” o che “la rete possa
diventare sede di fenomeni inediti di intelligenza”. Sicuramente la rete ha favorito
la creazione o forse, meglio, l’amplificazione di dinamiche sociali che prima non potevano
che avere una dimensione locale. Penso, ovviamente, al movimento del software open
source. I suoi principi fondamentali erano già stati pensati a metà degli anni ’80
da Richard Stallman, e circolavano da tempo nell’ambiente dei programmatori, ma la (Free Software Foundation) ha iniziato ad
essere un attore importante nella diffusione del software solo negli anni ’90. La
comunità e la produzione di free software sono cresciute solo con l’avvento della
diffusione della rete a livello planetario, e hanno rivoluzionato alcune delle idee
fondamentali sulla produzione dei programmi: si è mostrato che dei dilettanti (ossia,
persone che lavorano non per denaro, ma per il puro piacere di lavorare) sono in grado di
produrre software di qualità uguale (se non superiore) a quella di programmatori
professionisti (l’esempio paradigmatico è il sistema operativo Linux); si è mostrato che
l’aumento del numero dei programmatori non è direttamente proporzionale all’aumento del
numero degli errori nel codice sorgente (errori che possono rendere instabile un
programma). La comunità dell’open source, che conta ormai migliaia di aderenti in
tutto il mondo, agisce, all’interno di ogni singolo progetto di sviluppo, come un’unica
entità. Ma l’organizzazione della comunità dell’open source è una struttura
completamente esplicita, il cui funzionamento non ha nessuna analogia biologica specifica
(la metafora usata dagli studiosi dei programmi open source è quella del bazar,
contrapposto alla cattedrale della produzione commerciale del software; cfr. Eric S.
Raymond, La
cattedrale e il bazaar).
2. Il nostro problema è il fatto che ogni nuova scoperta scientifica, banalmente, porta
con sé usi buoni ed usi cattivi. Proprio perché la tecnologia è distaccata dalla
ricerca non è possibile prevedere le ricadute tecnologie di una particolare scoperta. Non
tutti i casi sono semplici, dal punto di vista morale, come il caso degli scienziati di
Los Alamos.
Inoltre, come rileva nel suo scritto Giuseppe O. Longo, anche i prodotti tecnologici sono
diventati così complessi internamente e semplici esternamente, che degli utensili, delle
protasi, degli artefatti di ultima generazione alla maggior parte degli utilizzatori
sfugge non solo il funzionamento, ma anche gli scopi e gli usi essenziali. Si pensi
all’esempio della rete Internet: essa può essere sia il mezzo della diffusione del sapere
(il mezzo per la creazione di una Nuova Atlantide globale) sia il mezzo di controllo
sociale totale (si veda il controllo
che l’apparato tecnico-giuridico voluto dal governo inglese impone ai sudditi di sua
maestà); ma qual è lo scopo essenziale per il quale è stata progettata? (un esempio per
chiarire l’idea di scopo essenziale: anche se posso usare un martello come un’arma, è
chiaro che il martello è stato progettato come strumento per piantare chiodi.)
Se, da una parte, siamo tutti d’accordo che la scienza e la tecnologia sono troppo
importanti nella quotidiana vita di ciascuno di noi per lasciare tutte le decisioni
esclusivamente in mano agli scienziati, l’alternativa proposta da Giuseppe O. Longo non mi
convince fino in fondo. Non mi sembra che l’introduzione di sistemi di decisione
maggioritaria possa in effetti risolvere il problema.
Intendo mostrare due esempi in cui, secondo me, i meccanismi di decisione maggioritaria
sull’uso di tecnologie mature, ha portato, in un caso, e porterà, in un altro, a
decisioni fondate su di un insieme di credenze insufficiente.
2.1. Il primo esempio che vorrei portare, è il referendum sull’abolizione del nucleare,
approvato in Italia all’indomani dell’incidente di Chernobyl: il 26 aprile 1986 durante un
intervento di manutenzione ordinaria esplode il reattore numero 4 della centrale nucleare
di Chernobyl. L’8 e il 9 novembre del 1987 si svolge in Italia il referendum per
l’abolizione del nucleare. Il risultato, sull’onda di quanto successo poco più di un
anno, prima è scontato e quasi plebiscitario: va a votare il 65,1 % degli italiani; l’
80,6 % dice no alla costruzione di centrali nucleari in Italia; il 71,9 % vota per
il divieto di partecipazioni dell’Enel a impianti nucleari all’estero; il 79,7 dice no ai
contributi verso gli enti locali che ospitano centrali nucleari. Come conseguenza vengono
chiuse tutte le centrali nucleari italiane ed inizia il loro smantellamento (che durerà
circa altri 20 anni, durante i quali continueremo a corre un rischio di inquinamento
radioattivo : cfr. l’articolo della giornalista Milena Gabanelli, Radioattività di stato)
La centrale di Crey Malville, si trova in Francia, a poche centinaia di chilometri dal
confine con l’Italia (in Francia sono attivi 58 reattori nucleari, funzionanti in 19
diverse località: Societé Française
d’Énergie Nucléaire). Il reattore di Crey Malville non è un semplice reattore
raffreddato ad acqua, ma un “superphenix”, ossia è raffreddato con sodio (qui ,
a cura del Laboratoire de Physique Subatomique et de Cosmologie, potete trovare una spiegazione tecnica di come funzioni un reattore Superphenix). Dall’angolo di mondo che è l’Italia,
è paradossale che spesso usiamo l’energia elettrica importata da impianti nucleari
francesi. La Francia produce il 74% dell’energia elettrica con il nucleare e, dei 355.874
milioni di kWh prodotti, ne esporta 58.533 milioni. In Italia, importiamo il 10% del
nostro fabbisogno di energia elettrica dalla Francia.
Secondo gli ecologisti francesi,
un guasto, non già al reattore, ma all’impianto di raffreddamento con la diffusione
nell’ambiente del sodio avrebbe conseguenze disastrose per l’ambiente e per gli esseri
umani. E le Alpi non servirebbero da scudo alla popolazione del Nord Italia.
2.2. Il secondo esempio che vorrei portare è diverso. Nel primo esempio, credo si possa
sostenere che il calcolo del rischio dell’elettore italiano sia stato quantomeno falsato
in parte dall’emotività, in parte dalla scarsa informazione. Nel secondo esempio, vorrei
mettere in evidenza la difficoltà anche per i rappresenti legittimamente eletti (e che
quindi hanno ben studiato una questione prima di proporre una sua regolamentazione
giuridica), ad affrontare un problema in modo corretto dal punto di vista semplicemente
metodologico.
Si legge nella relazione sul disegno di legge del Senato n. 1837, “Norme in materia
di procreazione medicalmente assistita”: (il cui testo completo potete trovarlo qui):
(…) dopo decenni di ricorso su vasta scala alle pratiche di fecondazione assistita
eterologa, nessuna ricerca empirica ha potuto mettere in evidenza danni o anche solo
problemi apprezzabili, vuoi di natura fisiologica, vuoi di natura psicologica, a carico
dei nati mediante il ricorso a tali tecniche.
Date queste premesse quale potrà essere secondo voi la proposta? Ecco la risposta del
legislatore:
La facoltà di ricorrere a tecniche di fecondazione assistita di tipo eterologo è
peraltro consentita nel presente disegno di legge solo quando essa rappresenti l’unico
trattamento possibile, nel rispetto del principio di gradualità e di adeguatezza degli
interventi terapeutici nella cura della sterilità.
La domanda che, penso, ciascuno di noi vorrebbe porgere ai promotori di questa legge è
questa: perché se nessuna ricerca empirica ha potuto rilevare l’insorgenza di qualche
genere di problemi a bimbi nati con la fecondazione assistita, essa deve in ogni caso
essere considerata esclusivamente una cura alla sterilità? (Una domanda che mi sono
sempre posto: perché se un individuo è, “per natura”, sterile deve avere
comunque il diritto di trasmettere il proprio patrimonio genetico? Ma mi rendo conto che
questo è un altro problema.)
Io sinceramente non so come sia possibile regolare le delicate questioni bioetica; quello
che però mi sento tranquillamente di poter affermare è che un progetto di legge come il
S.1837, dietro una apparente rispetto della pluralità della posizioni, veicola una ben
precisa idea di uomo e di società.
3. Vorrei concludere riprendendo un’osservazione di Giuseppe Longo sull’uso del termine
‘scienza’ e conferma la sua tesi secondo la quale la scienza tende ad avere sempre più
spesso venature messianiche. La parola ‘scienza’ imperversa nell’Università: non si
studia più “giurisprudenza”, ma “scienze giuridiche” o “scienze
per operatori dei servizi giuridici”; e poi: “scienze antropologiche ed
etnologiche”, “scienze della formazione”, “scienza dalla
comunicazione”, “scienza dell’educazione”, “scienze e tecniche
psicologiche”, “scienze del turismo e comunità locale”. Fino a quello che
hai tempi in cui mi sono laureato io (e, anche se è successo nel secolo scorso, non sono
passati neppure dieci anni) sarebbe stato, se non inconcepibile, quanto meno strano: non
si studia più “filosofia”, ma “scienze filosofiche”.
Andrea Rossetti
ricercatore di Filosofia del Diritto presso l’Università di Milano Bicocca
10 febbraio 2003