(Questo è l’abstract della relazione di Giuseppe O. Longo per il seminario on-line della Fondazione Bassetti di Febbraio 2003)
(Per leggere direttamente l’intera relazione cliccare qui. Per scaricarla per la stampa, cliccare qui)
All’interno del ricco paper di Giuseppe O. Longo abbiamo isolato alcuni passaggi
che ci sono sembrati di particolare rilevanza. Non sono naturalmente gli unici passaggi
rilevanti e non esauriscono la complessità del paper di Longo. Possono, tuttavia, essere
utilizzati come un vademecum che ci auguriamo sia di ausilio nella lettura del testo.
Indice della pagina
- Sull’idea di progresso
- Il disorientamento delle visioni progressiste in ambito scientifico
- Lo iato che si è creato tra scienza e tecnologia, con la prima che rischia di
essere sorpassata dalla seconda - Le nuove modalità che può assumere l’attività mentale e conoscitiva
- La connessione tra scienza e globalizzazione
- L’antidemocraticità essenziale della scienza
- Le ricadute etiche del paradigma scientifico
- Non necessariamente quello scientifico è il paradigma migliore
- La faccenda della fiducia nella tecnoscienza
- Il significato del principio di precauzione
- Per un ritorno al principio di Jonas
‘[…] sotto il profilo sistemico, la critica progressista del progresso è,
nonostante le sue intenzioni, regressiva: poiché le strutture profonde non devono
cambiare, quindi non devono essere soggette a progresso. E’ come chi dicesse: accetto
l’idea di innovazione, nel senso che tutto può cambiare, ma l’innovazione non si discute;
oppure: la ricerca deve contribuire a cambiare il mondo, ma la ricerca non si deve
toccare. Non si fa innovazione sull’innovazione e non si fa ricerca sulla ricerca. Come il
nonno che dice al nipotino: “Ti dò un consiglio: non accettare mai consigli.”
E’ evidente che il consiglio del nonno è “meta” rispetto a tutti gli altri
consigli, è di un ordine o tipo logico diverso.
Proprio per risolvere paradossi di questo tipo, Bertrand Russell inventò la “teoria
dei tipi logici”, il cui fondamento è che un insieme di elementi non può essere un
elemento di quell’insieme (l’insieme delle sedie non è una sedia) e quindi non gli si
possono applicare le proposizioni che valgono per gli elementi. Allo stesso modo l’insieme
delle componenti del progresso non è una componente del progresso e quindi a questo
insieme non si applicano le considerazioni che si applicano alle componenti. Se per tutte
le componenti del progresso vale una certa proposizione, questa proposizione può non
valere per il loro insieme. Se la proposizione è: “ogni componente del progresso è
sottoposta agli effetti del progresso (per esempio subisce fenomeni di saturazione e così
via)” e se questo non vale per l’insieme delle componenti, se ne ricava subito che la
visione progressista si trasformerebbe in conservatrice: il progresso non è sottoposto a
progresso, è statico o stazionario, è destinato a rimanere uguale a sé stesso. Nella
visione “progressista”, insomma, il progresso è considerato una conquista
definitiva e un bene indiscutibile, perciò deve continuare: affinché ciò accada non
vengono toccati (cioè non vengono sottoposti a progresso) alcuni elementi del sistema (la
ricerca di base, l’uso della razionalità…), che devono invece rimanere stabili: il
progresso avviene grazie alla conservazione.
Una critica radicale alla nozione di progresso dovrebbe rifiutare questa
extraterritorialità di certe componenti e mettere in discussione l’idea stessa di
progresso, senza accettarlo aprioristicamente come un bene. E’ vero, lo farebbe ricorrendo
alla razionalità, ma la stessa razionalità può essere soggetta a critica. Si entra qui
in un gorgo concettuale: ma il disagio che esso ispira non è ragione sufficiente per
rifiutarlo in nome della tranquillità epistemologica.
[…]
Sul piano pratico, poi, si pone un problema di decisione e di responsabilità:
chi e come decide quali componenti devono essere conservate in una visione
“progressista” del progresso? Non possono essere i rappresentanti di quelle
componenti: non possono essere i ricercatori a pretendere di conservare la ricerca, o gli
innovatori l’innovazione tecnologica. La decisione spetterebbe alla politica, intesa come
attività di mediazione tra le varie istanze sociali. (Ammesso che questa
“decisione” possa essere tale, cioè assumere le caratteristiche di
consapevolezza informata che una decisione dovrebbe possedere, perché spesso, invece, si
ha l’impressione che sia il sistema nel suo complesso, in una sorta di evoluzione non
guidata, a prendere le decisioni.) Accade tuttavia che, contro il ruolo della politica, si
ergano gli interessi di certi gruppi (per esempio di scienziati) che rivendicano il ruolo
di motori immobili del progresso perché si ritengono rappresentanti delle componenti
intangibili del progresso. Questo mi sembra essere il limite profondo di una “critica
progressista del progresso”, a prescindere dai giudizi di valore che ciascuno può
dare della razionalità, della ricerca scientifica, delle tradizioni popolari,
dell’irrazionalismo, delle emozioni, delle fumisterie e via dicendo.’
Il disorientamento delle visioni progressiste in ambito scientifico
‘Oggi le leggi della fisica, che avevamo creduto eterne, universali e assolute nella
loro precisione si rivelano di fatto leggi statistiche: la nostra visione del mondo è
segnata da un’imprecisione ineliminabile. La certezza di un tempo si è rivelata più un
nostro pio desiderio che una realtà sperimentale.’
Lo iato che si è creato tra scienza e tecnologia, con la prima che rischia di
essere sorpassata dalla seconda
‘Il superamento della scienza da parte della tecnologia ha portato alla costituzione
di aree tecniche vastissime in cui le apparecchiature e i sistemi funzionano senza che si
sappia bene perché: non esiste una teoria del software, non esiste una teoria di
Internet, non esiste una teoria dell’ingegneria genetica. Grazie al computer e alla
simulazione, queste aree tecnologiche, e altre ancora in rapido progresso, sono grandi
palestre di improvvisazione creativa, di invenzione spicciola e locale, di soluzioni ad
hoc, di espedienti e aggiustamenti ingegnosi, insomma di bricolage, più che di
programmazione e progettazione razionale e sistematica secondo la tradizione scientifica
ortodossa.’
Le nuove modalità che può assumere l’attività mentale e conoscitiva
‘[…] nel momento in cui l’oggetto d’indagine comincia a comprendere non solo il
naturale ma anche l’artificiale, il vuoto epistemologico che la scienza minaccia di
lasciarsi dietro potrebbe essere via via colmato dalla tecnologia, anche se in modi molto
diversi e magari sorprendenti. Per esempio la tecnologia produce sistemi di cui, come si
è detto, ci serviamo senza capirne bene il funzionamento, e spesso non c’interessa
affatto comprenderlo. Mentre la scienza ha sempre cercato di fare affiorare la
complessità soggiacente per ridurla e darne una descrizione semplice (quasi direi
“compressa”) attraverso le teorie, la tecnologia tende a nascondere la
complessità dei manufatti sotto una superficie o interfaccia di grande semplicità ed
efficacia operativa: mi pare che anche in questo caso si possa parlare di magia. La
semplificazione offerta dalla tecnologia riguarda sì il mondo artificiale, ma il mondo
artificiale si presenta ormai come il mondo tout court.’
La connessione tra scienza e globalizzazione
‘Molti di coloro che si scagliano contro il mercato e la concorrenza selvaggia allo
stesso tempo sono a favore della concorrenza tra le istituzioni di ricerca e del libero
scambio delle idee, che sono sempre stati tra i principi fondamentali della scienza. La
scienza, per sua natura, non (ri)conosce frontiere. Tuttavia quando la circolazione non
riguarda più solo il pensiero ma anche le merci o gli uomini nasce l’opposizione… Se la
competizione porta alla scomparsa delle idee più deboli e al trionfo di quelle più
forti, ciò viene identificato con il progresso della scienza (e della verità), mentre la
scomparsa di una fabbrica di automobili che non ha saputo reggere la concorrenza viene
accolta con lamentazioni e proteste e si cerca in tutti i modi di evitarla. Le sovvenzioni
alle fabbriche sono viste come un’interferenza nel mercato, le sovvenzioni alla scienza
sono invece considerate doverose e sembrano non viziare la concorrenza. Se però si tiene
presente la ricaduta economica delle ricerche, il loro finanziamento si configura come
un’interferenza nel libero gioco del mercato… E spesso sono proprio gli scienziati che
richiamano l’attenzione sul valore economico della loro attività per farsi finanziare.
Insomma: ancora una volta l’attività scientifica vorrebbe collocarsi in una posizione
specialissima rispetto alle altre attività, ma il legame ormai innegabile tra ricerca ed
economia rende sempre più problematica questa differenziazione. Il legame è duplice: da
una parte la scienza vuole denari, dall’altra asserisce di essere a sua volta un’attività
redditizia.
C’è da aggiungere che, se vogliamo considerare la scienza sotto il profilo puramente
cognitivo, la concorrenza senza limiti tra le varie teorie in base al solo criterio di
“verità” porta all’affermazione di una sorta di pensiero unico (scientifico).
Ancora una volta, ciò che è deprecato in ambito sociopolitico, e culturale in genere,
viene accettato senza riserve nell’ambito scientifico e, tendenzialmente, in ambito
tecnico. Ma questo pensiero unico dimostra la propria fragilità appena viene a contatto
con la variegata realtà umana e si frammenta in un ventaglio di opinioni che sembrano
aver perso il contatto con la monocorde robustezza primitiva: nel tribunale o in quella
sorta di moderna arena circense che è il dibattito televisivo, lo scienziato o il tecnico
vedono spegnersi la loro aureola e si ritrovano spesso a contendere su un piano di penosa
parità, con avvocati, periti di parte avversa, maghi, cartomanti e imbonitori.’
L’antidemocraticità essenziale della scienza
‘[Il carattere della scienza è] profondamente antidemocratico: non è vero che
la scienza è democratica, non è vero che chiunque può ripetere a casa propria i
costosissimi esperimenti compiuti nei laboratori da squadre di specialisti attrezzati,
addestrati e motivati (e poi perché qualcuno dovrebbe ripetere nel chiuso della propria
casa quegli esperimenti quando fuori, in strada, succedono cose meravigliose o atroci, le
cose vere e fulminee della vita?).
[…] è vero che la legge di gravitazione universale non può essere oggetto di
referendum, ma se la verità sussiste a dispetto del parere o del voto dei più, come
possiamo sostenere che la scienza e la sua verità sono democratiche? Come si fa a
distinguere i campi di applicazione della democrazia da quelli che devono esserle
sottratti? E chi deve compiere questa distinzione? La distinzione è a sua volta
soggetta alle regole democratiche? E se per alcuni aspetti importanti della vita siamo
decisamente antidemocratici, a che cosa si riduce allora questa democrazia? Basta
considerare gli esseri umani uguali tra loro solo quando si chiudono nella cabina
elettorale per eleggere i propri rappresentanti politici o amministrativi (e anche lì ci
sarebbe molto da precisare)? E’ vero peraltro che la scienza recupera il suo aspetto
democratico a un livello diverso: se i singoli non possono ripetere gli esperimenti
compiuti nei grandi laboratori, li possono ripetere altri grandi laboratori. La democrazia
a questo livello garantisce un certo controllo dei risultati.
Chi di noi scienziati privilegiati sosterrebbe che il creazionismo e la teoria
dell’evoluzione hanno pari diritto di essere insegnati a scuola? Pochi, o punti. Eppure se
la gran parte della popolazione sostenesse questa parità, come accade in qualche regione
del mondo, che cosa potremmo o dovremmo fare, democraticamente?’
Le ricadute etiche del paradigma scientifico
‘La ricostruzione del mondo operata dalla razionalità scientifica e dall’efficienza
tecnologica ha aperto prospettive grandiose, di fronte alle quali cadono uno dopo l’altro
i limiti [etici], i tabù e gli scrupoli tradizionali.’
Non necessariamente quello scientifico è il paradigma migliore
‘Non ci sono motivi, se non ideologici o metafisici, per ritenere che la mente, che ci
serve per stare al mondo, trovare cibo e cercare un altro individuo con cui accoppiarci,
ci fornisca un’immagine “veritiera” della realtà. E’ vero che l’uomo ha una
razionalità che gli altri animali non possiedono e che gli ha permesso di sviluppare un
imponente edificio scientifico; ma è anche vero che l’uomo possiede una capacità
mitopoietica e autoillusoria senza pari.’
La faccenda della fiducia nella tecnoscienza
‘Bisogna accettare l’incertezza intrinseca del nostro rapporto col mondo e vivere
nello stretto margine tra la rigidità e il caos, altrimenti il giudizio sulla
tecnoscienza oscilla sterilmente tra perfezione e fallimento. Non esistono soluzioni certe
e ogni decisione è frutto di un compromesso; i modelli matematici non possono sostituire
del tutto una lunga esperienza sul campo (e viceversa); l’analisi dei calcoli non
fornisce una scala di accettabilità dei rischi.’
Il significato del principio di precauzione
‘Non bisogna confondere il principio di precauzione con un generico invito alla
prudenza o con un’ingiunzione aprioristica: il principio si applica quando, in presenza di
rischi gravi o irreversibili non se ne possa ancora stabilire con certezza un’esatta
quantificazione e una precisa relazione tra causa ed effetto sulla base delle conoscenze
scientifiche a disposizione. L’adozione di decisioni cautelative dipende insomma dalla
mancanza totale o parziale degli elementi necessari per valutare il rischio che presenta
un fenomeno, prodotto o processo, rischio la cui esistenza plausibile tuttavia è
dimostrata.’
[…] l’applicazione delle misure restrittive o cautelative sulla base del principio di
precauzione postula tre condizioni: l’identificazione di effetti potenzialmente negativi,
l’esame dei dati scientifici a disposizione, un’ampia incertezza scientifica.
Si osservi esplicitamente che per fare scattare il principio basta che le conseguenze
negative siano potenziali: il rischio non può essere dimostrato ma non può neppure
essere escluso alla luce delle conoscenze del momento. Alla base di questo atteggiamento
di cautela sta la velocità con cui le conseguenze si possono manifestare e propagare: è
bene dar peso anche ad effetti negativi non dimostrabili ma prospettabili perché il
passaggio da evento negativo plausibile a evento negativo probabile a evento negativo in
atto potrebbe essere così rapido (e le conseguenze così gravi) da non consentire
interventi correttivi a posteriori.’
Per un ritorno al principio di Jonas
‘Non si tratta di prendere delle decisioni prudenziali in presenza di un rischio certo
e quantificato, magari solo su base statistica, come sarebbe quello derivante
all’incolumità di chi attraversa una strada piena di traffico. D’altra parte non si
tratta neppure di adottare misure preventive quando i rischi sono soltanto immaginati: i
rischi devono essere “plausibili” anche se non sono certi e quantificati. Forse
il nome del principio è infelice: qualcuno ha proposto di chiamarlo “principio di
Jonas” dal nome di Hans Jonas che per primo ha cercato di formularlo, ma le
differenze sono cospicue, come cercherò di chiarire tra poco.
[…]
Qui si misura tutta la distanza che separa il principio di precauzione, un’istanza
giuridica e formale basata sul presunto trionfo asintotico della certezza scientifica, dal
“principio di responsabilità” di Hans Jonas, che fra le soluzioni etiche del
problema tecnologico contemplava anche l’abbandono di quei progetti che fossero sentiti
troppo pericolosi. Oggi i progetti vengono al massimo procrastinati e sottoposti a regole
(che ovviamente possono sempre essere cambiate). Nel principio di precauzione viene a
mancare, mi sembra, quella dimensione assoluta della rinuncia che si collega alla
valutazione di un eccesso rispetto a una misura sentita come giusta.
[…]
Forse, di fronte al potere e all’autorità degli scienziati che tendono a imporre il
loro punto di vista, l’unico antidoto contro il pensiero unico e le decisioni unilaterali
è proprio il rafforzamento dei canali di informazione e delle consultazioni di tipo
democratico. Il pubblico è composto da esseri umani dotati di buon senso e di intuizione:
gli esperti (non solo tecnici in senso stretto) dovrebbero assumersi il ruolo di mediatori
tra la scienza e i cittadini, fornendo loro gli elementi su cui esercitare
responsabilmente queste doti. Sarebbe, questo sì, un procedimento davvero scientifico,
perché consentirebbe di tenere in considerazione una quantità di dati e di fatti (la
percezione dei rischi, l’orientamento culturale del pubblico, le componenti irrazionali,
gli aspetti simbolici, la sensibilità e gli interessi comuni delle persone e altro
ancora) che l’impostazione astratta che oggi passa per scientifica trascura (già la
scelta dei fatti da considerare tali è ideologica, quindi non scientifica e già da tempo
sappiamo che non esistono fatti, ma solo fatti interpretati, inseriti in un contesto e
perciò carichi di valori: quindi le scelte politiche basate sui fatti scientifici sono
comunque scelte ideologiche, non si scappa). Così si potrebbe forse rimediare alla
dissimmetria d’informazioni tra gli specialisti (gli scienziati, i politici, le imprese) e
la società civile, dissimmetria sempre più accentuata e causa certa di una
polarizzazione antidemocratica e autoritaria.’
(Redazione FGB – 4 febbraio 2003)