Testo dell’intervento al simposio internazionale del Club di Budapest “La sfida dell’evoluzione per l’impresa”, Fondazione Grauso, Cagliari, 26 febbraio 1999
Grazie innanzitutto al prof. Laszlo per l’invito e le parole di introduzione. Grazie anche a Niki Grauso per la cordiale ospitalità.
Per parte mia cercherò di assolvere nel miglior modo al difficile compito che mi è stato affidato: quello di affrontare, sul terreno proprio del soggetto “impresa”, il più generale tema del nostro Symposium, che il foglio illustrativo a vostre mani esplicita così: “una discussione dei principali elementi di un’etica del business e di una nuova cultura d’impresa, orientate a combinare la ricerca del valore per gli azionisti in termini di profitti e quota di mercato, con modi di crescita responsabili e selettivi quanto a impatto socio-ecologico”.
Comincierò allora con l’osservare che il sotto-titolo assegnato a me giustamente richiama a una diversa lettura a seconda del tipo di impresa alla quale ci si vuole riferire e dell’atteggiamento che si presume questa possa avere con riferimento alla sfida evoluzionista:
una prima lettura si ha, per esempio, se si pone l’impresa nel ruolo di soggetto passivo che deve imparare a adattare i suoi comportamenti alla evoluzione in atto nel mondo che la circonda. E deve farlo in modo di coglierne tutte le potenzialità o, quanto meno, di evitare di esserne danneggiata.
Una seconda lettura si potrà invece avere se si pone l’impresa, di fronte all’evoluzione, nel ruolo di soggetto attivo, di soggetto cioè insieme attento a coglier tutte le possibilità offerte dall’evoluzione ma in nessun modo responsabilizzato alla determinazione dei relativi contenuti.
Una terza lettura si ha se si ipotizza la necessità e la possibilità di esistenza – o invenzione – di un terzo tipo di impresa, quella delineata da Ervin Laszlo nel suo libro “Navigare nella turbolenza: la direzione di impresa del terzo tipo”. In questo caso il ruolo dell’impresa sarà di soggetto organico; di soggetto cioè collegato organicamente al suo contesto statico e dinamico, in un quadro la cui evoluzione si rivelerà più o meno “sostenibile” anche in relazione e per effetto dei comportamenti della e delle imprese. Una evoluzione cioè, nella quale l’impresa dovrebbe sapere di essere totalmente immersa e della quale dovrebbe profondamente sentire la co-responsabilità: in quanto sotto-sistema auto-evolvente e co-determinante il più generale sistema evolutivo planetario. Come scrive Romano Trabucchi, nella Prefazione del libro in questione, una situazione nella quale “per un verso, l’impresa produce disordine e squilibrio, per un altro, è capace di ricavare dal disordine ordine e equilibrio.” (ib. p. 16)
E’ chiaro che il discorso che qui ci interessa – cioè quello formulato nel titolo – si sviluppa in modo ben diverso a seconda, appunto, di quale impresa si assume: se si assume cioè l’impresa come un soggetto del primo, del secondo o del terzo tipo. Nel primo caso la sfida per l’organizzazione imprenditoriale coinvolta sarà di tipo prevalentemente adattivo. Si dirà da parte di questa: il mondo cambia intorno a noi, cerchiamo di continuare a sfruttarlo nello stesso atteggiamento di prima pur adattandoci ai nuovi parametri che nel frattempo emergono. Nel secondo caso sarà probabilmente di ricerca dei nuovi modi di produrre capaci di adattarsi dinamicamente alle evoluzioni – tecnologiche o marketistiche – in corso di definizione ma assunte come date. Si dirà: cerchiamo di non rimanere arretrati o esclusi dalle evoluzioni in corso per non essere spinti fuori dal mercato. Sarà cioè un atteggiamento di attiva accettazione dei cambiamenti del mercato ma esterna alle logiche e alle ragioni dell’evoluzione planetaria in atto. Solo nel terzo caso sarà di reale responsabile partecipazione al quadro evolutivo del sistema socio-culturale globale nel quale il mercato è immerso. Si dirà: il mondo sta cambiando anche per effetto di quello che, con gli altri, pure noi stiamo facendo, cerchiamo di collaborare a portarlo in direzioni evolutivamente accettabili anzichè continuare a spingere in direzioni inaccettabili.
Una prima domanda nasce, a questo punto, attorno al quesito: qual è la lettura comunemente praticata da parte del normale imprenditore?
Abbastanza facile la risposta: allo stato attuale, gli uomini di impresa che fanno una lettura del terzo tipo non possono che costituire eccezioni. La loro stragrande maggioranza tende a fare, quando ne fa, solo letture del primo o, al massimo, del secondo tipo. Considera cioè i parametri di mercato come dati sostanzialmente statici. Quelli che di tali parametri sono disposti a considerare anche la dinamica, con eventuali conseguenze e rischi, sono cioè disposti ad aggiungere al loro calcolo di convenienze comparate, riferite ai parametri esistenti, anche delle valutazioni sui modi per non mettere la loro impresa – e perciò anche gli interessi dei suoi stake holders – in contrasto con le esigenze dello sviluppo socio-ecologico in atto, sono certamente una minoranza.
Anche perché si tratta pur sempre di una posizione che, pur presente, discussa, recepita, non è certo facile e pacifica. E’ infatti opinione ancora diffusa fra gli economisti, e perciò anche fra i managers, che il calcolo aziendale che l’impresa capitalistica è tenuta ad assumere debba prevedere un collegamento assolutamente rigido all’altro calcolo, quello di mercato.
Se il vostro calorifero contiene clorofluoruro ma costa il 30% di meno di quello che non lo contiene, il consumatore “smithiano” compra il primo e della fascia di ozono non si preoccupa. Allo stesso modo l’imprenditore “marshalliano” se si vendono di più i frigoriferi con il clorofluoruro produce i frigoriferi con il fluorocloruro. Negli attuali calcoli di mercato o di impresa le “esternalità” di tipo ecologico non sono contemplate.
D’altro canto l’opinione diffusa in materia va anche più il là: per il grande pubblico e sopratutto fra i politici, è radicata la convinzione che non sia affatto bene che tra i compiti e le responsabilità dell’impresa si includa quello di partecipare a definire le direzioni evolutive di una determinata società, tale compito dovendo rimanere di competenza delle istituzioni politiche.
C’è infatti oggi una crescente tendenza cultural-politica – confusamente connessa agli incipienti problemi della globalizzazione – la quale, proponendosi di sostituire quanto più possibile la governance al government dei fatti economici punta a legare il comportamento dell’impresa alle regole di un mercato i cui parametri specifici devono essere calcolati rigorosamente fuori da ogni considerazione extra-economica: questi ultimi dovendo semmai essere oggetto di attenzione solo di chi le regole le fa, non di chi le applica. E’ chiaro che per chi ragiona così, considerazioni “finalistiche”, e quindi indirettamente politiche, quali quelle implicite nell’accettare i vincoli propri di un evoluzione sostenibile, non debbono far parte del calcolo di impresa, per restare competenza del Principe. In altri termini: un’impresa del “terzo tipo” come quella auspicata da Ervin Laszlo è un fuor d’opera politico, qualcosa da guardare semmai con sospetto!
Del resto se io chiedessi a voi che mi ascoltate: secondo voi l’impresa è responsabile dell’evoluzione del mondo? quante risposte convintamente positive raccoglierei?… e ciò malgrado tutto quello che pochi minuti fa, in questa stessa sede, il Professor Laszlo, ha argomentatamente detto.
E che invece resta vero. Perchè in realtà è proprio nell’impresa, cioè nell’istituzione preposta a operare le scelte sui modi di combinare il prodotto della scienza, cioè la tecnologia, e il prodotto del lavoro accumulato, cioè il capitale, che si decidono e si attuano i “modi del produrre”. E’ facendo così che si pone mano a concretamente cambiare il mondo e lo si fa in una misura che è sempre meno seconda a quella del Principe politico. Oggi è l’impresa la moderna officina di Vulcano! E’ qui che Prometeo continua a rubare il fuoco! Perchè è nell’impresa – sia essa agricola, industriale, di servizi – e nelle sue innovazioni, che potere e sapere si combinano; che la storia dei nostri desideri diventa storia delle nostre cose, delle nostre nuove relazioni con la natura, della vita che ci circonda; delle trasformazioni che rendono il mondo migliore o di quelle che lo rendono peggiore; di quelle che assecondano la nostra evoluzione positiva o di quelle che ci preparono l’involuzione e la catastrofe.
Ed è ancora l’impresa il luogo dove dall’incrocio delle diverse convenienze o interessi, nel nostro mondo dominato dalla comunicazione, sempre più si cominciano, quantomeno, a proporre – se non addirittura a formare – le nuove scale di valori con le quali l’odierna cultura si trova poi a dovere fare i conti.
Il guaio è che non sono molti quelli disposti, o interessati, a riconoscerlo.
Noi ci siamo infatti abituati a vivere in un mondo di soggetti economici e istituzionali tra i quali sono state portate avanti con successo due operazioni culturali fortemente riduzioniste in termini di responsabilità e che hanno prodotto questi importanti risultati:
1) due soggetti economici – quello micro (l’impresa) e quello macro (il mercato) – sono stati deresponsabilizzati trasformandoli da soggetti, in qualche modo politici, in meccanismi come tali apolitici;
2) i parametri di valore assunti per entrambi i contesti sono stati sempre più allontanati da quelli che incorporavano sensibilità suscettibili di essere coniugate in modo, latu sensu, meta-economiche o ecologiche.
Le conseguenze, per il discorso che qui ci interessa, non sono di poco conto.
Ma v’è di più, qualcosa di molto simile si è riusciti a fare pure con quello che fino a ieri era il Principe per antonomasia: il Governo nazionale. Era lui fino a ieri il vero responsabile dei valori assunti dall’economia a lui soggetta. Oggi pure a lui si sta sempre più chiaramente chiedendo di attenersi a regole sovranazionali come regole date, indipendentemente da eventuali precipuità, o perplessita nazionali, di natura etica o anche solo politica. Sembra quasi che approfittando della globalizzazione, il capitalismo e la democrazia moderna abbiano organizzato un sistema che, sui grandi temi di “dove va il mondo”, riesce a de-responsabilizzare, insieme, tanto il consumatore quanto l’imprenditore, quanto il governante.
Il che si spiega, del resto, se si considera che su questo c’è stata spesso una oggettiva convergenza di interessi tanto da parte dei politici “puri”, che vedono così teoricamente ripristinato l’antico privilegio del primato della politica, alla quale sola toccherebbe l’esercizio della governance, quanto da parte di molti intellettuali: questi ultimi per una ragione solo apparentemente più sottile, connessa al timore di compromissioni tra scienza e potere economico. Per qualcuno di questi, infatti, qualunque avvicinamento del potere economico al dispiegarsi della ricerca scientifica si presenta minaccioso di un altro primato: quello delle idee sugli interessi. La tecnica, heideggerianamente intesa, fa infatti troppa paura se saldata al potere del capitale. Se si deve discutere di essa – si insinua – lo si faccia nell’istituzione politica lasciando perciò rigorosamente fuori l’impresa: una realtà da intendere come istituzione ancillare dell’economia e mai come possibile soggetto politico in sè.
Senonchè le conseguenze di tutto ciò sono, insieme, gravi e centrali per lo sviluppo del nostro discorso.
Come il contributo di molta riflessione ecologica ha già evidenziato, ma come in particolare è stato posto in rilievo dalle riflessioni del Club di Budapest e in particolare dallo stesso Lazlo (nei suoi volumi, come “Navigare nella turbolenza”) il sistema economico globale, se lasciato proseguire nelle sue attuali tendenze, mostra una evidente propensione all’auto-distruzione o quantomeno a un fortissimo rischio di degrado. Per cambiarlo, radicali cambiamenti dei nostri modi di consumare e di produrre sono irrinunciabili.
Ma quali?
E’ proprio su questo punto che non sempre le idee appaiono sufficientemente chiare: quand’anche si capisce il problema, non si riesce però a concepirne la sicura via d’uscita. Mentre infatti non sfugge un corno del dilemma, e cioè che il sistema non può pretendere di essere evolutivamente accettabile se non lo è da un punto di vista ecologico, non si riesce a intravvedere la fuoriuscita dall’altro e cioè come costruire un sistema di relazioni e interessi economici, organici a quelli implicati dalla sfida evolutiva; mentre cioè si capisce che economia e ecologia spingono spesso in direzioni diverse, perchè espressioni di equilibri di forze interne oggi spesso contrapposte, non si vede come il miracolo di un equilibrio compatibile possa essere raggiunto basandosi solo sul contributo del Principe cioè affidandosi solo a government e governance.
Fallita in tutto il mondo l’esperienza programmatoria di ispirazione socialista il capitalismo moderno si dibatte nel problema di come rendere interne al sistema forze adeguate a raccogliere le nuove sfide tra le quali quella genericamente ecologica è certamente la prima e più seria.
C’è allora chi si sofferma sul tema delle cosidette “esternalità”: introduciamo, si dice, nuovi parametri di convenienze nel calcolo degli operatori – consumatori o produttori – e si riuscirà cosi a determinare quei cambiamenti negli incentivi e deterrenti che, uniti, incanaleranno le forze del mercato verso obbiettivi meno incompatibili. C‘è chi, invece tende ad appoggiarsi piuttosto sull’auspicio di mutamenti nella “cultura” diffusa degli operatori. Peccato soltanto che questi tentativi, altamente benemeriti, di introdurre miglioramenti nella capacità del mercato di valorizzare tutte le risorse, comprese quelle ecologiche, migliorando nel contempo l’attuale, carente, teoria economica e arricchendola con considerazioni come quelle care a Amartya Sen, se pure hanno potuto procurare a quest’ultimo un meritatissimo Nobel, non sono affatto entrate a far parte del comportamento concreto e diffuso nè dei consumatori, nè degli imprenditori. Mentre gli appelli a una cultura più consapevole, malgrado il grande sforzo delle più diverse organizzazioni internazionali- tra le quali non esiterei a collocare anche il nostro Club di Budapest – e alle quali si è aggiunta anche l’ONU, sembrano aver lasciato il quadro a un livello del tutto insoddisfacente. Consumatori e produttori continuano a ritenere che le varibili da ottimizzare non includono quelle implicate dalla “sfida evolutiva”. E che di queste dovrà, semmai, occuparsi il “Governo”!
L’impresa, in quanto tale, coi suoi vincoli ma anche con le sue responsabilità oggettive, come dovrà allora posizionarsi tra tutte queste incertezze e confusioni? è, o non è, un soggetto responsabile o responsabilizzabile per le mancate risposte a questi temi?
L’atteggiamento del Club di Budapest è, in proposito, assolutamente chiaro. Una frase fra tante: “Al termine di questo secolo, le ultime tracce della classica cultura di impresa dell’età industriale dovrannno essere eliminate. Non sarà più sufficiente concentrarsi sulle operazioni interne dell’azienda; ci sarà bisogno di un’ampia visione e di una responsabilità che si renda sensibile agli orientamenti eagli sviluppi sociali e ambientali.” (E.L. “L’uomo e l’universo” D.R. Ed., p. 43, grassetto mio). Anche le più recenti riflessioni proposte al Club di Budapest -mi riferisco a quelle del volume “Navigare nella turbolenza: la direzione di impresa del terzo tipo”- vanno nella stessa direzione.
Ma a quale tipo di impresa si rivolgono? Solo a quelle ritenute suscettibili di essere o diventare imprese del “terzo tipo”, o a tutte? Certo la prima impressione è che in questi enunciati, l’impresa assunta a riferimento possa essere prevalentemente la grande impresa: nella quale l’attribuzione di una responsabilità – anche meta-economica, e come tale almeno parzialmente politica – alla persona dell’imprenditore non stupisce più di tanto.
Ma a noi, che osserviamo il problema da un contesto come quello italiano, caratterizzato da un’importante presenza della p.m.i, nasce il dubbio che questo non possa bastare. Che per raggiungere risultati non trascurabili nelle direzioni auspicate, poche imprese illuminate del terzo tipo possano non bastare. Che occorra andare un poco più in là nella ricerca di modi capaci di coinvolgere, se non tutte, almeno una più larga base di imprese anche piccole.
E’ questo lo sforzo al quale vorrei dedicare il seguito di questa mia esposizione.
La prima affermazione che farò è la seguente: chiedere all’impresa comportamenti più in linea con le preoccupazioni che ci stanno a cuore è possibile solo alla precisa condizione che non si pensi di staccarla dal contesto delle sue possibilità e convenienze. Non la si assuma, anche solo concettualmente, per quello che lei non è: e cioè un operatore politico o culturale a pieno titolo, suscettibile di essere chiamato a impostare le sue scelte sulla base di un sistema di responsabilità svincolato quasi del tutto dal contesto economicistico che invece la caratterizza. Si continui invece a considerarla per quello che deve continuare ad essere: cioè un’organizzazione nel cui ambito si definiscono, sì, le combinazioni produttive e quindi i rapporti reali tra economia e natura, tra economia e mondo; ma lo si fa nel perseguimento di un profitto, assunto quanto meno come irrinunciabile parametro di efficienza e sopravvivenza. L’impresa, quantomeno l’impresa cosidetta “marshalliana”, non può, infatti, prescindere dal sistema di vincoli in cui è tecnicamente immersa; non può, neanche se vuole, ritenersi avulsa da ciò che la circonda. Essa può certamente considerare e scontare le situazioni culturali e politiche alle quali -se è sensibile e colta- può decidere di dare spazio. Forse, se è molto grande o dispone di poteri monopolistici, può inoltrarsi da sola in direzioni culturalmente o politicamente impegnative. Ma alla lunga essa non può andare contro il contesto nel quale è chiamata a sviluppare la sua azione; non può cioè trascurare il sistema di concreti interessi dei quali è intimamente portatrice e la connessione coi quali essa non può superare senza una sostanziale trasformazione, non soltanto della sua natura ma anche delle forze che concretamente la condizionano. E quindi del suo ruolo.
Come abbiamo già detto essa è tenuta a rispettare il calcolo di mercato, a determinare le cui risultanze co-agiscono i consumatori, gli altri produttori, le regole del gioco esistenti o introdotte volta a volta. Ne va della sua sopravvivenza. Assai limitati sono quindi gli spazi entro i quali essa può rendersi ricettiva di qualunque advocatory policy o richiamo morale per quanto autorevolmente formulato.
Nè d’altro canto il problema coinvolto è di natura specifica, di una o più imprese. E’ sistemico. L’impresa opera in un sistema che è il mercato. Per collaborare ad avviare a soluzione problemi come quello che ci sta a cuore non basterà infatti che qualche impresa, che attualmente si comporta secondo logiche del primo o del secondo tipo dei tre che abbiamo sopra illustrato, passi per sopravvenuta conversione etica o opportunistica, a comportarsi da impresa del terzo tipo. Perchè questo avvenga sarà invece necessario che molte altre cose, esterne alla stessa impresa, mutino contestualmente così da trasformare coerentemente anche il quadro di riferimento reale, dentro il quale l’impresa opera, mantenendolo però compatibile con una concreta prospettiva di sua sopravvivenza. Occorrerà cioè che possa darsi, accanto a qualche diverso comportamento volontaristico, anche lo spazio per appartenere a una diversa struttura di rapporti tra incentivi, responsabilità, forze in gioco; una struttura cioè tale da rivelarsi adeguata, qualitativamente ma anche quantitativamente, non solo alla sfida in oggetto ma anche alle regole del gioco sistemico globale con le sue dinamiche.
Perchè l’impresa capitalistica possa operare diversamente nel suo contesto occorre cioè che anche il contesto nel quale essa è chiamata ad operare muti adeguatamente. Nè può una impresa, grande o piccola che sia, diventare parte organica di un mondo che si avvia a diventare diverso – che va, cioè, verso un evoluzione compatibile con l’etica della sopravvivenza – senza, in pari tempo, modificare il proprio sistema di motivazioni, il proprio modo di rapportarsi con quelle degli altri, l’intero sistema di rapporti che la legano ai soggetti con i quali vuole essere collegata, appunto organicamente. Senza, in altri termini, mutare i suoi rapporti col mercato. Il mercato non potrà mai, d’altro canto, mutare i suoi meccanismi e veder mutare i calcoli di chi in esso opera domandando, senza che nello stesso tempo mutino comportamenti e calcolo di chi in esso opera offrendo.
Almeno tre sono infatti le grandi famiglie di operatori – i sottosistemi – i cui comportamenti, sotto la sfida planetaria, dovranno mutare, e mutare in stretto rapporto fra loro: i consumatori, i produttori, i governanti.
Per conseguire questo risultato, per vederli cioè strettamente corresponsabilizzati verso un’unica sfida – quella metodologica di disporre di un calcolo di convenienza comune capace di renderli fra loro convergenti su obbiettivi anche ecologicamente accettabili – più di un approccio dovrà perciò essere adottato. Solo così questi tre diversi plessi di forze potranno infatti essere chiamati a spingere in direzioni convergenti con un’accettabile evoluzione planetaria: mentre attualmente almeno due -consumatori e produttori- spingono spesso in direzioni chiaramente entropiche cioè contrastanti.
E’ questa, in sostanza, la vera e complessa questione implicata dal tema di questo simposio dove la ricerca di una “nuova cultura di impresa” viene opportunamente accostata alla necessità di orientarla “a combinare la ricerca del valore per gli azionisti in termini di profitti e quota di mercato con modi di crescita responsabili e selettivi quanto a impatto socio-ecologico”
Ed è qui che l’apparente paradosso sul quale noi vogliamo costruire la nostra proposta per “quale impresa per una sfida evoluzionista” deve essere sbloccato: come far sì che il sistema delle imprese che ci serve per affrontare la sfida evoluzionista possa decidersi a fare scelte almeno parzialmente diverse da quelle a cui attualmente lo spingono le forze in campo. Come, in altri termini far sì che l’impresa – che in questo gioco complesso conserva una parte importante – possa imparare a procurarsi lo spazio per un ruolo rigenerante che, trasformandola almeno parzialmente, la renda più adatta per la sfida dell’evoluzione.
Secondo noi si può fare, ma rispettando un passaggio preciso, peraltro impegnativo: che si riesca a individuare il punto nel quale le dinamiche del sistema esterno all’impresa e allo stesso mercato si incrociano con quelle potenzialmente interne alla stessa impresa e allo stesso mercato co-determinando l’evoluzione del sistema globale nel suo complesso.
Ora questo punto c’è ed è l’innovazione. L’innovazione come processo imprenditoriale nel corso del quale, nel crogiuolo dell’impresa si combinano gli apporti dei nuovi saperi – in primo luogo quello scientifico e tecnologico – con il capitale e il lavoro, ponendo in atto nuove tecniche di trasformazione della natura.
Sappiamo bene che processi di mutamento della natura, del mondo e della storia, sono posti in atto, con pari o maggiore rilevanza, anche in sedi esterne all’impresa e al mercato: basterebbe citare l’impresa bellica e come esempio la bomba atomica.
Ma ci sembra che in un’ipotesi di vigenza di un’organizzazione globale come quella capitalistico tecnocratica attuale, l’affermazione della centralità dell’innovazione d’impresa come momento chiave del cambiamento e insieme del suo raccordo con gli equilibri precedenti regga.
Se regge è chiaro che si tratta di un ben preciso nodo: perchè è qui che dal punto di vista economico, i diversi calcoli del consumo e della produzione si intrecciano per recepire le variazioni che il cambiamento, incorporato dall’innovazione in oggetto, si accinge ad apportare alle dinamiche precedenti. Ed è qui che dal punto di vista per cosi dire politico – cioè dei poteri coinvolti – si può compiere un accadimento nel quale gli assetti di potere precedenti si trasformano. E lo fanno sotto la spinta congiunta di due poteri: il potere economico, che si accinge, col cambiamento, a forzare le regole preesistenti, e quello politico che è chiamato a decidere se recepire tale cambiamento, adattandovisi, o a rifiutarlo opponendosi. Un nodo quindi dove il gioco delle responsabilità, di tutte le rsponsabilità è inscindibilmente proposto ai diversi protagonisti: la scienza, la finanza, il lavoro, il consumo, chiamati insieme a codecidere e coresponsabilizzarsi nell’ambito di una scelta che resta d’impresa.
Certo un’innovazione, così assunta, postula consapevolezze e responsabilità alquanto diverse da quelle tradizionalmente presenti nella diffusa cultura d’impresa. Ed è da qui che verrà pertanto il secondo impegnativo passaggio costituito da una più precisa comprensione, da parte di chi gestisce l’impresa, della effettiva duplicità nella quale, già oggi, è immersa l’impresa innovativa. Una duplicità che spesso essa non sfrutta. La duplicità che le consente di potere essere insieme soggetto economico – vis a vis del contesto economico nel quale è immersa – e soggetto politico, vis a vis delle responsabilità che le spettano come portatrice – oltre che del suo abituale potere economico – di un altro tipo di potere, questo sì chiaramente politico. Un potere che essa concretamente dispiega ogni qualvolta opera nel campo squisitamentre dinamico dell’innovazione anzichè limitarsi a combinare fattori produttivi secondo le regole economiche di un calcolo di mercato staticamente inteso.
L’impresa infatti, quando è impresa innovativa (e lo è molto spesso, al di là della dimensione o natura) non opera e sceglie soltanto in un quadro “storico” di tipo puramente statico o, quantomeno, a dinamica stabilizzata o ciclica. L’impresa, in quanto luogo dell’innovazione, opera e sceglie anche con responsabilità e incidenza sulla dinamica del sistema cioè sulla sua evoluzione o involuzione. Al suo interno l’imprenditore moderno, anche piccolo, per ottimizzare il risultato di valore, o di profitto, non organizza solo fattori di produzione esistenti, entro i parametri già dati dal mercato ma, praticando l’innovazione, li cambia e li modifica spesso.
E’ questo, del resto, un punto che è stato già ben chiarito nella teoria economica: l’ha fatto Schumpeter. Certo Schumpeter non aveva preoccupazioni del tipo di quelle che noi annettiamo alla “sfida evolutiva”; perlomeno non ne aveva di esplicitamente tali: il suo pensiero, la sua idea di innovazione rimanevano dentro i vincoli del mercato tradizionale, inquadravano il cambiamento raccordandolo con il premio del suo concetto di profitto; limitavano quindi la componente dinamica entro i limiti di mutamento adatti a generarlo. Il vincolo ecologico non era ancora presente e esplicito, neanche sotto forma di esternalità incorporabili nel sistema di costi e prezzi di quel dato mercato.
Basta però riflettere un momento su che cosa è oggi l’innovazione per accorgersi che ulteriori passi, lungo questa strada, a noi non sono affatto preclusi. Se se ne assume come definizione quella di “realizzazione dell’improbabile” e la si concepisce come la combinazione, o l’applicazione, dei prodotti della scienza ai prodotti del capitale, non si tarda a scorgere che innovare altro non è se non combinare i frutti del lavoro pregresso – cioè il capitale – con i frutti del pensiero pregresso – cioè le ultime scoperte, non solo scientifiche – in modi di produrre capaci di incontrare le nuove potenzialità esistenti non già sul mercato – perchè in quel caso non di innovazione si tratterebbe – bensi nella vicenda culturale, sociale, storica nella quale siamo tutti immersi. E’ qui, attorno a questo gioco sull’improbabile, nell’invenzione di nuovi prodotti e di nuovi modi di produrli che l’imprenditore riacquista spazi di libertà altrimenti perduti da quando come osservano Galimberti e Severino, con la fine dell’età pre-tecnologica il “fare” ha cessato di essere “arte” ed è diventato “produzione” (Umberto Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano, 1998, p. 404; Emanuele Severino, Il destino della tecnica, Rizzoli, Milano, 1998). Da quando cioè si inventano e si finanziano tecnologie innovative che non necessariamente assumono, nè potrebbero, l’improbabile all’interno del mercato dato. L’improbabile è infatti tale se include la possibilità del mutamento dei parametri precedentemente vigenti su quello stesso mercato.
Questa è la vera innovazione. Questo è l’aspetto nuovo che lega l’innovazione dell’impresa moderna non soltanto alle dinamiche propriamente economiche espresse dal mercato – nei parametri del suo calcolo attuale – ma che, collegandola alla scienza e alle dinamiche della tecnologia, le conferisce un potere di cambiamento dei modi di organizzazione del mondo che fino a ieri era esclusivamente della politica. In sostanza, che libera l’impresa (e l’imprenditore) dal mero determinismo di un’economia di mercato di tipo statico senza pretendere di trasformarla in un soggetto meramente politico.
Orbene, in questa idea di innovazione, gli spazi per affrontare le problematiche cosidette ecologiche, o, se si vuole, le problematiche della sfida evolutiva, ci sono tutti. Perchè la dialettica fra la spinta innovativa e il potere, che una volta veniva mediata esclusivamentre dal Principe; che poi è stata vieppiù mediata nella società e dal mercato; che oggi tende a farsi sempre più condizionare dal sapere tecnologico e scientifico, trova proprio nell’impresa il nuovo crogiuolo nel quale le mediazioni definitive sono attuate secondo criteri di responsabilità che le sono ormai propri.
Noi abbiamo infatti vissuto per secoli in una istituzionalizzazione del potere nella quale per avere modifiche nella organizzazione civile ed economica bisognava aspettarsele dal contributo determinante del Principe. Se a Firenze, nel ‘300 c’era o non c’era una buona agricoltura, questo dipendeva piuttosto dalla qualità e competenza di chi governava la città e fissava le regole per la campagna che non dagli spazi di iniziativa degli agricoltori. Oggi, invece, se il Brasile deve svalutare o no, rischia di dipendere più dalle scelte dei fondi di Soros che non da quelle del suo Presidente; se Internet si sviluppa più o meno rapidamente negli USA, più dai comportamenti di Bill Gates che da quelli del buon Al Gore che pure così volonterosamente si prodiga.
Di fronte a evidenze come queste, pochi hanno però riflettuto su quello che tutto ciò significa in termini di poteri e responsabilità imprenditoriali.
Naturalmente la stampa, i media, li hanno in parte intuiti. Leggendoli o ascoltandoli si percepisce la fortissima novità politica che si cela dietro l’interrogativo canonico che sempre fa seguito a qualunque decisione di politica economica: cosa diranno i mercati? In questo interrogativo, una volta inimmaginabile, il mercato è diventato il nume, il dio che giudica il comportamento, non soltanto degli operatori, ma anche dei politici.
Ma in realta, proprio così facendo i media mostrano di non avere capito il problema fino in fondo. Perchè che cos’è il mercato? certo siamo noi tutti. Ma noi, come siamo e pensiamo oggi o, invece, noi, più la scienza, più le altre forze di mutamento -comprese quelle di mutamento della cultura e dell’etica- che, pur esse, agiscono sul mercato, direttamente o attraverso di noi, per stabilire come saremo, penseremo, agiremo domani?
Il discorso è infatti molto diverso a seconda che questi fattori di mutamento per cosi dire ab-extra sono presi o meno in considerazione.
Perchè l’impatto sulle nostre vite è molto diverso, nel bene e nel male, a seconda che a determinare gli andamenti e i relativi parametri di tali mercati siamo noi, cioè consumatori e produttori, con le nostre valutazioni e convenienze attuali, o quando invece gli stessi mercati sono da considerare i luoghi dove scienza e tecnologia – compresa in qualche caso la tecnologià finanziaria – consentono non solo ai Bill Gates o ai Soros, ma anche agli Stranamore di turno, di introdurre salti di novità assoluta nel nostro modo di vivere e perciò anche nelle nostre sfide evolutive.
E’ qui che la forza creativa del potere entra in azione, a plasmare quello che altrimenti sarebbe puro determinismo, puro calcolo. E entra in azione nelle sue forme più varie: culturale, scientifico, finanziario, politico. Con le qualità più varie: democratico o autocratico, di massa o elitario. Ma sempre con capacità di innovare, cioè di cambiare la storia e in essa le nostre vite.
E’ qui dove noi continuiamo invece a incontrare le tradizionali invocazioni al Principe senza che la questione delle vere responsabilità venga aggiornata. Mentre è proprio perchè nel mondo moderno abbiamo trovato una nuova dimensione del potere, più varia e distribuita, che noi dobbiamo imparare a trovare i nuovi tipi di responsabilità e i nuovi soggetti chiamati a esercitarli. L’impresa, l’impresa innovativa è ormai uno di questi soggetti.
Che cosa è infatti cambiato per lei in questo nuovo quadro sociale e politico? Ebbene moltissimo. E proprio nella direzione che qui ci interessa: la possibilità di collocarsi fra i principali protagonisti della risposta a sfide come quella evoluzionistica.
L’evoluzione è infatti condizionata, più di qualunque altro trend storico, dal tasso di entropia a determinare il quale l’attività di trasformazione economica contribuisce in misura certamente rilevante. D’altro canto, siccome la presenza di una specie, quella umana, non può non creare disordine, è evidente che la vera sfida diventa quella di mettere in campo forze riorganizzatrici, neghentropiche, altrettanto rilevanti. Questa, che è in se stessa una sfida rivolta all’innovazione, da chi può essere meglio affrontata se non dall’impresa?
E’ stata l’impresa la sede dei processi che per creare ricchezza hanno avviato il crescente degrado dell’ambiente in cui siamo immersi. E’ vero che così facendo essa è pur stata la vera protagonista di quei processi di creazione di ricchezza attorno ai quali abbiamo avviato a soluzione altre sfide, non meno rilevanti come quelle della fame o della povertà materiale. Ma oggi la nuova sfida che ci si presenta, quella della sopravvivenza, non è più basata su un plus di arricchimento. Anzi, siamo tutti convinti, dall’epoca degli studi del Club di Roma, che l’arricchimento, può accorciarci la sopravvivenza, che il mito del “progresso unidirezionale obbligatorio” non ci porta da nessuna parte.
Solo che, mutando la natura e il senso delle sfide, mutano anche natura e soggetti delle nuove resposabilità che sfide diverse non mancano di proporre in modi nuovi e diversi. Il soggetto che inseguiva la ricchezza era, al fondo, un soggetto semplice nel suo edonismo prometeico. Quello della sfida evoluzionistica è molto più complesso. Non basterà aver scoperto spazi di possibile autodeterminazione dell’impresa per avere a disposizione un soggetto economico che concretamente – e non solo potenzialmente – si comporta conformemente alle responsabilità che la nuova situazione le evoca. Come si arriva a trasformare l’imprenditore da individuo addestrato ai determinismi riduzionistici che abbiamo prima illustrato – e come tale tradizionalmente de-responsabilizzato – al perseguimento di finalità para-politiche di convergenza verso finalità di attenzione a nuovi equilibri planetari?
Certo il tema si presenta a prima vista come un tema di natura formativa a base prevalentemente culturale. Ma a ben vedere così non è. O almeno non è solo così.
Nè ci si salva riferendolo a vaghe problematiche etiche.
In realtà, se lo si vuole affrontare in coerenza con quello che abbiamo fatto fin qui, bisogna saperlo riportare il più possibile all’interno di considerazioni di natura economica aziendale. Non foss’altro in omaggio a quello che abbiamo ripetuto fino alla noia, e cioè che l’impresa non può non tener conto, in ogni sua scelta, dei vincoli di natura economica che la legano – sia pure coi margini di libertà che abbiamo contribuito a far apparire meno stretti – agli altri due co-protagonisti della vicenda e cioè i consumatori e il Principe.
All’impresa e al suo imprenditore bisognerà cioè suggerire i modi per saper trovare nel mercato – compreso ovviamente quello delle novità scientifiche e tecnologiche, ma con l’aggiunta anche di quello delle novità metodologiche, organizzative, marketistiche – le nuove, possibili combinazioni produttive attraverso le quali essa può mettersi già oggi, potenzialmente, in condizione di ricavare maggiori benefici economici da comportamenti più conformi alle nuove finalità perseguite, o attese, tanto dai consumatori quanto dal Principe; entrambi i quali si aspettano di vederle trasformate da virtuali in attuali, ma in convergenza con le loro aspirazioni a modelli di vita più evoluzionisticamente coerenti. Il che vuol dire che, contestualmente, le regole del Principe da un lato, le preferenze dei consumatori dall’altro, dovranno apparire predisposte a far sì che l’innovazione ne possa raccogliere le attese remunerandole meglio e di più di quanto non accadesse per le combinazioni produttive precedenti.
Abbiamo infatti già detto che l’involuzione riduzionista è stata finora condivisa e accettata anche dai consumatori e dallo stesso Principe.
Tanto per fare un esempio, il rifiuto dell’adozione del frigorifero ecologico in Cina non si è limitato alle imprese e ai consumatori, ma ha coinvolto a pieno titolo i governanti che sulla base di obbiezioni a sfondo nazionalistico centrate sul confronto – peraltro non infondato – fra quanto avrebbero inquinato in più i frigoriferi cinesi contro quanto continuano ad attaccare la fascia dell’ozono altre pratiche dell’occidente avanzato, si sono ben guardati dallo scoraggiare le scelte del loro mercato. Ne deriva che anche sul terreno delle soluzioni innovative, e delle relative dinamiche, mercato e Principe dovranno cioè essere organicamente coinvolti se vogliamo che la sfida evoluzionistica possa essere raccolta. Ma dovranno e potranno esserlo solo se l’iniziativa sarà presa o assecondata dall’impresa: certo un’impresa di tipo nuovo rispetto a quella tradizionale. Una impresa più adatta a innovare e a farlo con consapevolezza e responsabilità; che avendo acquisito il potere di scegliere le dinamiche nelle quali vuole inserirsi, ha più capacità e probabilità di scegliere quelle evolutivamente compatibili; che ha imparato che la sfida evoluzionista non è, ovviamente, solo un problema dell’impresa, di riorganizzazione delle variabili dentro le quali essa agisce, ma anche un problema di profitti e di crescita del valore; che pertanto è pronta e impegnata a fare la sua parte nella convinzione che le conviene; perchè non crede di truffare gli azionisti o gli altri suoi stake holders se affida la sue decisioni innovative a persona o gruppo direttivo capace di concepire l’impresa come un soggetto responsabile e non più come un meccanismo alienato; che non coltiva propensioni ecologiche solo nella vita privata dei suoi manager e si ritiene invece autorizzata a inquinare quando imposta un piano di produzione; che cercherà invece di essere ecologicamente responsabile per guadagnare di più.
Ovvio che il discorso della responsabilità non potrà limitarsi alla sola impresa. Ma se riguarderà anche altri soggetti li riguarderà in modo assai diverso: c’è nell’innovazione, per l’impresa innovativa, un ruolo specifico che la deve configurare in questo modo nuovo. E’ questa l’impresa che cercavamo. Un’impresa che non solo avrà subìto, di fatto, la trasformazione da soggetto passivo a soggetto attivo, o addirittura organico, della quale parlavamo all’inizio di questa conversazione, avvicinandosi così a quel “terzo tipo” di cui parla Lazlo.
Ma che avrà soprattutto saputo porre concretamente in atto, al suo interno, un diverso modo di affrontare insieme il calcolo della convenienza aziendale e il confronto con le dinamiche che l’avvolgono. Avrà cioè saputo accettare la sfida a modificare, nel concreto, il suo quadro informativo e culturale, sviluppando un’attenzione prima non richiesta su temi che, proprio per essere legati al mutamento, fatalmente incroceranno le grandi dinamiche delle trasformazioni che qui ci interessano.
Una impresa, in sintesi, alla quale i vari temi del Club di Budapest: dall’human evolution (che è, diciamo, la domanda di queste risposte) allo sviluppo sostenibile (che è la misura di queste risposte); ai media, che in queste problematiche svolgono una determinante funzione di mediazione culturale di massa, agli scienziati e ai tecnologi e infine ai politici appaiano tutti inscindibilmente collegati nel riconoscimento all’impresa, a questa impresa, di un ruolo attivo e in molti casi centrale.
Resta, a questo punto, un’ultima categoria di considerazioni alle quali vogliamo brevemente accennare prima di concludere.
Sono le considerazioni che derivano dal fatto che essendosi introdotti fra i valori di riferimento di questo nuovo tipo di impresa – e dell’imprenditore innovativo che dovrà dirigerla – anche considerazioni di responsabilità meta-economiche, quali per esempio quelle ecologiche o evolutive, potranno esservi carenze nelle capacità del tradizionale calcolo di razionalità comportamentale al quale poteva tranquillamente ispirarsi l’imprenditore cosidetto “marshalliano”. Se noi immaginiamo di fatto un tipo di impresa al cui vertice c’è un soggetto decisionale che ispira le sue scelte non più soltanto a una logica puramente economicistica, ma che è costretto a comporre considerazioni di calcolo economico con parametri influenzati da considerazioni, se non esplicitamente politiche, quantomeno etico- culturali, noi dovremo anche immaginare di sapergli fornire riferimenti sufficientemente precisi per alleggerirgli il relativo compito: l’imprenditore – come peraltro ogni decisore – non va volentieri in cerca di fatiche eccessive quando deve autodeterminarsi. Cerca riferimenti chiari, regole prestabilite. Solo all’interno di ordinamenti di questo tipo riesce a dare il meglio di sè nell’invenzione di nuove soluzioni. Non sfugge all’assunzione di responsabilità ma preferisce farlo all’interno di sistemi di norme eterodeterminate.
Ora, è chiaro che di fronte alla novità di problematiche come quelle rappresentate dall’impatto di innovazioni aventi rilevanza ecologico evolutiva su una realtà che non si limita al mercato tradizionalmente inteso ma anticipa le connessioni tra questo e l’ecosistema, non sempre le tradizionali regole del gioco, la tradizionale deontologia o etica degli affari, ma soprattutto gli attuali parametri di calcolo, saranno in grado di fornire adeguate indicazioni. La preservazione della specie o dell’ambiente facendo parte di discorsi etici appartenenti a codici specifici come l’eco-etica si può capire perché la tentazione di affidare la soluzione delle regole di comportamento della nuova tipologia di imprenditore fin qui delineata a codici desunti da questo genere di fonti si delinea seducente.
Orbene chi vi parla è su questo punto fortemente perplesso.
E lo è anche a seguito dell’esperienza fatta come presidente di una fondazione, la “Fondazione Giannino Bassetti”, che avendo nella sua attività come finalità precipua il tema della “innovazione responsabile” gli ha consentito di organizzare e sviluppare interessanti riflessioni in proposito.
Le mie perplessità nascono dal fatto che il modo come, nell’innovazione imprenditoriale, si decide di combinare scienza e capitale e attorno ad esse gli altri fattori produttivi, attraverso l’organizzazione di impresa, coinvolge problemi di tale complessità da escludere la possibilità di suggerire all’imprenditore di affidarsi per l’esercizio della sua responsabilità, nelle relative scelte, a considerazioni di merito, cioè implicanti giudizi di valore quali sono sempre le decisioni di tipo morale.
Molto meglio fare ogni sforzo per trovare nuove regole di forma, cioè nuovi calcoli che scarichino sull’adempimento di un determinato modus operandi, cioè appunto di determinate procedure, la responsabilità delle relative scelte. Si tratta in altri termini di instaurare meccanismi di responsabilità attraverso fatti di trasparenza, cioè di consapevolezza, e non mere ricerche di nuove assunzioni valoriali. Il successo dell’impresa capitalista non va forse ricercato, come è stato ampiamente affermato, nell’efficacia dell’intuizione ragioneristica che da Luca Paciolo ai giorni nostri, ha fornito la regola, il calcolo contabile per la corretta composizione dei fattori, rappresentando in economia quello che la matematizzazione ha rappresentato per la scienza? Perchè non si dovrebbero ricercare gli aggiornamenti da introdurre in tali modalita procedurali e di calcolo cosi da adeguarlo alle esigenze introdotte dalla nuova situazione epocale? Come abbiamo a suo tempo saputo trovare i parametri e la metrologia per misurare i valori coinvolti dalla esigenza di lottare contro la scarsità, non è affatto impossibile pensare, oggi, a quali procedure possono essere adatte a definire il campo entro il quale le diverse innovazioni possono venir confrontate e giudicate sulla base di regole di valutazione aventi caratteristiche di generalità e come tali utilizzabili dall’imprenditore indipendentemente da sue presunte moralità ecologiche o evolutive. E questo non perchè la moralità, l’etica non siano valori. Semmai, al contrario, perchè essendo valori alti, poco si prestano al diuturno commercio ideale di chi deve valutare ad horas proposte di innovazione la cui obbiettiva rilevanza per la vicenda del mondo certo non sfugge: basterebbe evocare il dibattito su alcuni recenti innovazioni bioingegneristiche come quelle implicate dai prodotti trasgenici.
Del resto non abbiamo già fatto ricorso a un metodo di tal genere quando di fronte alla sfida, che la nuova economia dei servizi prepotentemente ci poneva, di valutare un concetto quanto mai sfuggente come quello di qualità non abbiamo esitato ad assumere il metodo procedurale in sostituzione dell’analisi di merito? Regole ormai famose come l’ISO 9000 hanno consentito ormai da anni a operatori di cultura e etiche diversissime, in campi produttivi diversissimi – dalla Pubblica Amministrazione alla sicurezza – di riportare alle logiche dello scambio e del calcolo aziendale un contenuto così imponderabile e vario come appunto la qualità.
Lasciando quindi da parte le giuste riflessioni di chi ha affermato che la vera grande intuizione che è stata alla base del successo di Roma e del suo diritto andrebbe ricercata nell’intuizione di proceduralizzare la Giustizia rendendola così concretamente maneggiabile e producibile fuori da opinabili giudizi di valore (Ponzio Pilato docet!), la proposta sulla quale vorrei concludere questa nostra lunga chiacchierata è allora la seguente: dedichiamo un po’ delle energie intellettuali del Club di Budapest a mettere appunto un set di procedure che consentano all’imprenditore di quell’impresa, la cui qualita abbiamo cercato di identificare, di disporne per potervicisi attenere quando chiamato a valutare il possibile impatto di una possibile innovazione. Una metodologia come quella del “V.I.A.” (valutazione di impatto ambientale) potrebbe costituire un primo riferimento: così come oggi raccordiamo le spinte dell’imprenditore proponente, alle convenienze degli interessi coinvolti ai diversi livelli ambientali, prima di decidere il passaggio alla concreta attuazione del progetto in questione, così si dovrebbe giungere a elaborare un set di regole atte a costituire un primo codice per i comportamenti imprenditoriali in questione. Lo si dovrebbe elaborare e discutere ovviamente in sede politica, nell’ambito delle reponsabilità regolatrici del Principe, ma sotto il controllo democratico di tutti coloro che operano sul mercato, nonchè di quelli che agiscono sulle frontiere dei nuovi saperi come scienziati e tecnici. I precedenti non mancano: basta pensare a quello che per uno sviluppo meno inadeguato del capitalismo, rispetto ai problemi epocali che allora già lo sfidavano, ha potuto rappresentare il dibattito per la creazione di regole anti-monopolistiche sfociato nello Sherman Act. Anche qui una scelta di metodo le cui conseguenze di metodo sono andate ben lontane. La disponibilità di qualcosa di analogo, di un primo Corpus normativo – che per essere funzionalmente analogo dovrebbe naturalmente presentarsi come diversissimo – potrebbe rendere possibile all’impresa innovativa e al suo imprenditore, le cui caratteristiche e i cui problemi abbiamo cercato di identificare e discutere insieme, di trovare e tenere la difficile linea di consapevole duplice responsabilità che la sfida evoluzionista gli pone: quella economica, sul fronte dell’efficienza e quella culturale e politica, sul fronte di un contributo costruttivo a un progresso compatibile.
Mi auguro che la discussione di stasera e dei futuri simposia del Club di Budapest possano aggiungere tutto quello che stasera abbiamo percepito ancora mancare.
Grazie dell’attenzione.
(26 febbraio 1999)