Fondazione Giannino Bassetti è nata per diffondere la consapevolezza che l’impatto dell’innovazione sulla storia chiama in causa la categoria di responsabilità. Oggi che l’opinione pubblica si pone il tema con sempre maggiore urgenza (basta sfogliare i giornali delle ultime settimane per accorgersene: dal cuore stampato in 3D per i trapianti, al “manifesto” di Zuckerberg, alla proposta di Gates sulla tassa dei robot) queste riflessioni inedite, scritte da Giampaolo Azzoni nel 2010, ci sembrano di grande attualità.
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Pensare / agire la responsabilità nell’innovazione
Quello di responsabilità è un concetto che ha un’origine e una storia connesse in modo prevalente all’ambito giuridico e risalenti al primissimo diritto romano. È con Immanuel Kant che entra nella riflessione più strettamente filosofica, ma è solo con Hans Jonas, nella seconda metà del XX secolo, che si installa al centro dell’etica fondamentale e applicata. Fu pubblicato infatti nel 1979 il fondamentale e influente Il principio responsabilità, Das Prinzip Verantwortung.
Nonostante che la fortuna del concetto sia relativamente recente e, insieme, così grande da essersi diffuso in modo pervasivo, v’è però da chiedersi se esso sia adeguato quando riferito all’innovazione che si sviluppa nelle società contemporanee. A tale fine è utile analizzare come Jonas caratterizzi il concetto di responsabilità. In particolare è interessante esplicitare quelli che secondo Jonas sono i suoi due presupposti:
1) la libertà del soggetto nell’esercizio di un potere;
2) il futuro come un orizzonte significativo per il presente.
Ora è problematico che tali due presupposti siano operanti quando ci si riferisce alla responsabilità dell’innovazione nelle società contemporanee.
Innanzitutto, è problematico che ci si trovi in presenza di un soggetto libero nell’esercizio di un potere. Alcune applicazioni delle neuroscienze all’etica contemporanea sembrano riproporre, contro la libertà dell’individuo umano, obiezioni deterministiche analoghe a quelle del primo positivismo. Se così fosse (ed è però altamente contestabile che così sia), sarebbe difficile continuare a fare riferimento al concetto di responsabilità sviluppato da Jonas e occorrerebbe, almeno prima facie, rivolgersi a concetti tipicamente giuridici quali quello di responsabilità oggettiva, la cui sfera è però oggi limitata agli illeciti civili (e quindi poco interessante per l’etica) non concependosi in uno stato liberale, responsabilità penali di tipo oggettivo.
Per continuare poi nell’esame critico di questo primo presupposto è anche problematico che la responsabilità si dia nella forma della responsabilità individuale, in quanto l’innovazione nelle società contemporanee non è fenomeno individuale, ma esito di complesse relazioni intersoggettive e inter/intra-istituzionali. In questa prospettiva, la responsabilità non può mai essere solo dipendente dalla coscienza del singolo, anche se una educazione alla moralità, una paidéia che conduca ad un habitus, una éxis morale, restano fondamentali per la fioritura personale.
Ma di gran lunga più problematico è il secondo presupposto (che, peraltro, è anche il più importante nella teoria di Jonas): il darsi del futuro come un orizzonte significativo per il presente e, quindi, una bi-direzionalità tra presente e futuro: un presente che, attraverso le scelte degli uomini, sia in grado di determinare il futuro (presente come causa del futuro)
E, correlativamente, un futuro che guidi la progettualità nel presente (futuro come visione da costruire). Nella contemporanea società dell’accelerazione, il tempo si costituisce come una successione continua di discontinuità.
Successione continua perché il tempo diviene un flusso apparentemente uniforme di cui è ormai simbolo la cifra “24/7” (24 ore per ogni giorno della settimana): non più tempo ordinario né tempo festivo, non più giorno né più notte: al più l’alba è quella dell’apertura della Borsa di Tokio ed il tramonto la chiusura di quella di New York.
Successione continua di discontinuità perché tale flusso appare come composto di tempuscoli discreti e tra loro irrelati: come le note di una musica priva di tonalità o addirittura aleatoria.
Il divenire non è più la forma in cui si dà nel mondo il movimento del tempo.
La successione di discontinuità fa sì che la temporalità collassi, si contragga, in quel breve periodo che pervade l’intera società contemporanea; tale fenomeno è tenuto in considerazione dalla Caritas in Veritate (§ 40) in cui si legge che “Sempre meno le imprese (…) fanno capo a un imprenditore stabile che si senta responsabile a lungo termine, e non solo a breve, della vita e dei risultati della sua impresa” e che quindi “Bisogna evitare che il motivo per l’impiego delle risorse finanziarie (…) ceda alla tentazione di ricercare solo profitto di breve termine, e non anche la sostenibilità dell’impresa a lungo termine“.
La stessa promessa (atto elementare e fondamentale dell’impegno personale) sembra esaurire il suo effetto perlocutivo nel momento locutivo: cioè l’effetto della promessa si consuma nella sua enunciazione non nell’assunzione di un obbligo da assolvere successivamente, proprio perché il tempo in cui assolvere l’obbligo appare come radicalmente diverso da quello in cui lo si è assunto.
La contrazione del tempo sul presente o, meglio, su un futuro imminente (“as soon as possible”) si presenta con la minaccia di essere un buco nero per l’etica.
Ciò è ancora più evidente quando si parli di una responsabilità nell’innovazione. Infatti se (come brillantemente recita il punto 6. del Manifesto per l’innovazione responsabile della Fondazione Giannino Bassetti) l’innovazione è la “realizzazione dell’improbabile“, riesce difficile associare all’innovazione una responsabilità à la Jonas che presuppone un futuro accessibile dal presente, cioè con una ragionevole grado di prevedibilità.
Ma d’altra parte, anche nella società contemporanea, nonostante le difficoltà che incontra la concezione di Jonas, la responsabilità si caratterizza, usando i termini kantiani, come un postulato della ragione pratica (come, “una proposizione teoretica, ma non dimostrabile come tale, in quanto inerisce inseparabilmente a una legge pratica che vale incondizionatamente a priori“), cioè l’etica sembra richiedere necessariamente la responsabilità. Forse è la vita stessa, in quanto anima e carne vivente, portatrice pertanto di una dinamica non riducibile alla successione di discontinuità, a richiedere una un’assunzione di responsabilità verso la vita stessa.
Si impone dunque di pensare nuovamente la responsabilità andando oltre l’ormai storico contributo di Jonas.
Indicazioni importanti (e con rilevanti implicazioni operative) possono venire dalla fenomenologia.
Così rispetto ai due problematici presupposti di Jonas, nella prospettiva fenomenologica:
1) il soggetto non si dà nell’autonoma libertà dell’esercizio di un potere, ma è originariamente un “esserci-con”, un soggetto in relazione con altri soggetti oltre ogni contingenza di isolamento e scioglimento di legami;
2) il futuro non è la dimensione veritativa del presente, ma i caratteri di “invito” e “resistenza” delle cose si offrono già nella costituzione trascendentale del nostro rapportarci al mondo.
Rispetto al primo punto emerge la responsabilità in connessione al network, cioè proprio riguardo alla forma sociale che attualmente sembra la più adatta nella società della complessità e della accelerazione. Dunque: una responsabilità che è intersoggettiva e relazionale non solo nel suo contenuto, ma, prima ancora, nella sua titolarità.
Rispetto al secondo punto si definisce una sutura tra etica e ontologia nella dimensione dell’estetica. La percezione dell’altro (cosa, animale, essere umano) non si esaurisce nelle sue qualità primarie e secondarie, ma impone una cura adeguata al suo esserci.
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