Tecnologie indossabili, autopercezione e identità alle soglie di una nuova esistenza totalmente quantificabile.
(prosegue dal precedente post)
Nel 2010 una convinta ed attiva esponente del Quantified Self (QS) decide improvvisamente di abbandonare tutte le numerose pratiche di self tracking che accompagnavano la sua vita e che aumentavano la conoscenza di se stessa attraverso i numeri.
Come questa persona ce ne saranno molte che avranno preferito dedicare il tempo a nuove e magari più entusiasmanti attività; tuttavia ciò che rende interessante il caso di Alexandra Carmichael è che in occasione di questa decisione ha scritto una poesia e l’ha pubblicata sul sito del QS.
Nonostante l’apporto poetico sia piuttosto discutibile, le sue parole descrivono in modo impeccabile quali possano essere le problematiche legate a questi nuovi oggetti capaci di trasformare la vita in dati.
Qui sotto viene riportata in lingua originale.
Yes, I did it.
On a crisp Tuesday morning
After 40 measurements a day for 1.5 years
I. Stopped. Tracking.
Why?
When I first wrote about my tracking
People thought I was narcissistic
What they didn’t see
Was
The self-punishment
The fear
The hatred behind the tracking
I had stopped trusting myself
Letting the numbers drown out
My intuition
My instincts
I was afraid
Of not being in control
Of becoming obese like my genetic predecessors
I was addicted
To my iPhone apps
To getting the right numbers
To beating myself up
Each day
My self-worth was tied to the data
One pound heavier this morning?
You’re fat.
2 g too much fat ingested?
You’re out of control.
Skipped a day of running?
You’re lazy.
Didn’t help 10 people today?
You’re selfish.
It felt like being back in school
Less than 100% on an exam?
You’re dumb.
I’m starting to realize
That I need to
Trust
Listen
Accept myself
That I’m more than the numbers
That I’m beautiful, strong, and super smart
I don’t need data to tell me that
And I don’t need to punish myself anymore
Will I ever track again?
Yes, probably
For a specific goal or experiment
Or to observe a pattern
I’ll try to keep an objective, non-judging eye
But then I’ll stop
When I’ve seen what I needed to see
And learned what I wanted to learn
Like any tool
Self-tracking can be used for benefit or harm
I won’t let it
Be an instrument of self-torture
Any. More.
“Si, l’ho fatto… Dopo quaranta misurazioni al giorno per un anno e mezzo… Ho. Smesso. Di fare tracking.
Quello che le persone non vedevano era l’autopunizione, la paura, il disprezzo che c’era dietro al tracking.
Ogni giorno la mia autostima era legata ai dati. Una libbra in più? Sei grassa. Due grammi di grassi ingeriti? Sei fuori controllo. Un giorno di corsa saltato? Sei pigra.”
A detta di tutti gli addetti ai lavori nel campo dei wearables ci siamo trovati finora in una fase primitiva, in cui chi ne fa uso può essere considerato un early adopter, facilmente abituato ad un uso eccentrico o a volte smisurato della tecnologia.
Ma cosa capiterà quando devices in grado di quantificare la nostra esperienza umana raggiungeranno una diffusione globale? Le persone avranno uno smartwatch al braccio in grado di dire loro quanto valgono? Beh sicuramente ci sono tutti i presupposti tecnico/storici perché questo avvenga; il punto piuttosto è come le persone interpreteranno quelle informazioni.
Basti pensare che il tanto atteso Watch di Apple avrà un sensore per il movimento, un sensore per il battito cardiaco, un GPS (quello dell’iPhone). Si provi ad incrociare le infinite possibilità di misurazione di questi tre componenti, e si troveranno altrettante nuove possibili applicazioni (intese come apps, ma anche come contesti/situazioni d’uso). Potremmo trovarci addosso un bracciale che ci dice quanta attività fisica facciamo (come quelli già in commercio), ma anche quanto ci emozioniamo, dove, come, quando e con chi…
Cose estremamente personali e soggettive che finora stavano dentro di noi, analizzate solamente da quel peculiare strumento umano chiamato autocoscienza, potranno essere ora quantificate e viste fuori di noi, su devices che ci portiamo appresso o addosso.
In senso più lato, ma comunque innegabile, questi strumenti diventeranno dei prolungamenti esterni e aumentati della nostra coscienza, in un processo di esternalizzazione totalmente in linea con ciò che teorizzava Leroi-Gourhan sulla tendenza umana a mettere fuori dal corpo funzioni che prima risiedevano dentro.
Con la cultura e la scrittura l’uomo mette fuori di sé la memoria, liberando di fatto spazio e facoltà per nuove attività. Cosa succederà se inizieremo a mettere fuori di noi (al polso per rimanere nel caso in questione) parte degli elementi che ci definiscono: la nostra autocoscienza, il nostro Sé. Come cambierà la nostra autopercezione, la nostra identità? O per dirla come faceva Alexandra Carmichael: dove finirà il nostro istinto e dove troveremo riferimento per la nostra autostima?
Man mano che questo scenario tecnologico inizia a realizzarsi, il discorso sulla responsabilità è sempre più urgente e doveroso; anche se a causa della rapidità nell’innovazione, sembra arrivare comunque in terribile ritardo.
Ad ogni modo, prima di calarsi in questo tema, potrebbe essere utile mettere in luce un ultimo punto problematico ma che, allo stesso tempo, può nascondere anche tremende potenzialità, in questo futuro in cui il confine fra biologico e tecnologico sfumerà ulteriormente.
Le possibilità tecniche ci hanno costretto fino ad oggi a pensare i prodotti elettronici come degli schermi in cui guardare, delle finestre su un’altra realtà, o come oggetti che comunicano con noi facendoci vedere qualcosa. I nostri canali visivi con la nascita della televisione sono stati bombardati in modo esponenziale, costringendoci a preoccuparci di effetti come il sovraccarico cognitivo o information overload.
Il tema della visualizzazione rimane ad oggi centrale anche parlando di Quantified Self e si concentra nella domanda: come mostrare e quindi rendere utili i dati misurati dal corpo? Più che mai attuali sono difatti discipline come il data visualization, e il successo dei wearables è spesso legato alla qualità dell’app che li accompagnano. Questo modello tuttavia ci porta allo stesso problema a cui si accennava prima, ovvero quello di un overload di informazioni che già oggi rende la vita accompagnata da cellulari “a tutto schermo”, malsanamente piena di ripetute e dannose distrazioni.
Tuttavia oggi la tecnologia non ci sta più solo davanti agli occhi come prima, ma inizia ad appoggiarsi sulla nostra pelle. Questo cambio di paradigma apre a nuove ed inedite possibilità di interazione, che cambieranno per sempre il concetto di interfaccia.
All’interno del progetto Jawbone Exo Ecosystem, chi scrive cercava di sottolineare come il corpo umano, attraverso la sua sfera sensoriale, metta a disposizione una grande quantità di canali di comunicazione.
In molti casi, questi canali alternativi, arrivano ad essere anche molto più accurati della già sovraccaricata vista.
Tanto accurati quanto anche incredibilmente inutilizzati, per ora.
Se n’è accorata anche Apple che difatti ha montato un piccolo attuatore aptico nel suo Watch, capace, ad esempio, di far sentire sul polso di chi lo indossa il battito cardiaco di un’altra persona, o capace di indicare un itinerario stradale tramite piccole vibrazioni (quello che in Exo Ecosystem, già nel 2013 si era chiamato Sense GPS).
Queste nuove possibilità di interazione rimangono ancora del tutto inesplorate, ed anche in questo scenario il tema della responsabilità rimane fondamentale.
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